Da
molti anni ormai uno dei temi caldi della politica estera (ma anche di
quella interna) è costituito dal flusso inarrestabile e sempre crescente
di migranti che dall’Africa cercano di attraversare il Mediterraneo per
entrare in Europa.
Inutili e poco funzionali molte delle soluzioni proposte a livello nazionale ed internazionale. Fino ad ora pochi hanno cercato di capire quali sono le reali cause del problema.
Nessuno, ad esempio, pare essersi preso la briga di chiedersi “chi sono” e soprattutto “perché” così tante persone decidono di rischiare la vita nel tentativo di entrare in Europa attraverso l’Italia e la Spagna. Tanto più che la vita che li aspetta nel vecchio continente non è certo un paradiso: nella stragrande maggioranza dei casi, non si tratta né di profughi né di rifugiati (entrambe queste categorie sono ben classificate e le statistiche parlano di una percentuale ridottissima di rifugiati e di profughi tra quanti sbarcano in Italia), e la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno è davvero minima.
Per comprendere le cause di questi flussi migratori è indispensabile sapere da dove provengono. Secondo i dati forniti dal Centro studi e ricerche Idos sulla base di dati Istat (e da altre fonti), appare evidente che che la maggior parte dei migranti non viene dai paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Libia, Tunisia ed Egitto spesso sono solo tappe intermedie di un viaggio più lungo.
La maggior parte proviene da paesi dell’Africa centrale come Nigeria e Senegal, o da paesi come Gambia, Somalia e Eritrea, ma anche da altri paesi come la Tanzania.
In alcuni di questi paesi, come in Somalia, sono in corso scontri con le formazioni jihadisti degli al-Shabaab e lotte fratricide, e non hanno sortito fino ad ora un effetto completo le misure adottate fino ad ora dall’Onu attraverso l’Unione Africana. Basti pensare che in Kenya, a Daadab, esiste il più grande campo profughi del mondo, che raccoglie in condizioni miserrime 500mila profughi somali. Ma in molti altri paesi non sono in corso guerre né conflitti armati né stermini di massa. La causa che spinge migliaia e migliaia di persone ad abbandonare la propria terra e rischiare la vita in un viaggio di migliaia e migliaia di chilometri potrebbe essere un’altra: il land grabbing.
Un fenomeno che ha assunto dimensioni rilevanti a partire dal 2007, l’anno della crisi dei prezzi dei prodotti agricoli. Fu allora che investitori senza scrupoli e speculatori agrari soprattutto cinesi capirono che era necessario trovare nuove terre su cui insediare produzioni intensive di beni primari come prodotti agricoli e biodiesel. È per questo motivo che l’Africa subsahariana e quella centrale sono diventate “terre di conquista” dove impiantare coltivazioni intensive.
Per farlo, le grandi multinazionali esercitano pressioni sui governi dietro la promessa di costruire infrastrutture irrigue, strade, e, in qualche caso, ospedali e scuole per portare avanti i loro progetti di investimento e non è un caso se, recentemente, in Africa centrale, imprenditori cinesi hanno costruito o ricostruito intere città apparentemente senza chiedere niente in cambio.
Uno studio realizzato dalla Banca Mondiale nel 2010 parlava di “accaparramento” di terreni per 46 milioni di ettari (due terzi dei quali nell’Africa centrale e nel solo periodo da ottobre 2008 ad agosto 2009). Ma questo dato, come hanno ammesso gli stessi ricercatori, dato che meno della metà delle acquisizioni esaminate riportava l’estensione dei terreni acquisiti. Inoltre spesso le multinazionali, per non essere costrette a pagare tasse sulla proprietà dei terreni, preferivano acquisire il diritto di superficie per tempi lunghissimi (tra i 25 e i 99 anni) invece che acquistarli.
Un fenomeno, inoltre, in continua espansione e a ritmi vertiginosi: i dati riportati sul portale Land Matrix che monitora il land grabbing nel mondo, parlano di una superficie di circa 83 milioni di ettari (anno 2012). Secondo Oxfam Italia il land grabbing sarebbe aumentato del 1000% dal 2008 a soli quattro anni dopo.
Un fenomeno, quello del land grabbing, che è certamente una delle principali cause delle immigrazioni di massa. In Tanzania, ad esempio, qualche tempo fa un’azienda svedese ha affittato dal governo più di 20mila ettari di territorio nella parte nordorientale del paese. Una zona prospera e fertile: l’azienda di stato Razaba Farm, inspiegabilmente chiusa nel 1993, vi produceva mais, riso e frutta. Secondo quanto riportato da ActionAid, dopo la stipula del contratto 1300 famiglie di contadini e piccoli allevatori sono stati costretti a lasciare le proprie terre e a 300 famiglie è stata tolta anche l’abitazione. A queste vanno aggiunte altre duecento famiglie che vivevano in un’area limitrofa di circa 2.400 ettari, anche questa occupata dalla stessa azienda (e senza regolare contratto). Gli abitanti, dopo essere stati cacciati, hanno intentato una causa legale con la multinazionale (ma le speranze di vincere sono poche).
Negli ultimi anni, la Tanzania è diventata una delle mete preferite da imprese multinazionali e fondi di investimento: dal 2006 al 2012 sono almeno quaranta le compagnie straniere che hanno affittato o comprato grandi proprietà terriere sulle quali hanno impiantato produzioni di jatropha o canna da zucchero da trasformare in componenti per biodiesel.
Anche molte aziende italiane hanno cercato di “conquistare” l’Africa centrale: in Etiopia, Liberia, Mozambico e Senegal dove, dal 2005, più di 80mila ettari di terra sono passati in mani italiane.
Agli abitanti di queste terre, dopo che le multinazionali se ne sono impossessate, restano solo due alternative: ricevere un indennizzo in denaro o cercare un altro posto per sopravvivere. Come ha detto Sefu Mkomeni, un contadino di Matipwili, un villaggio nella zona di Biga Western, “Non c’era la possibilità di scegliere se restare o andarsene, ma solo di andarsene”.
Il tutto spesso in violazione delle TGs (le Direttive volontarie sulla governance responsabile dei regimi fondiari) che prevedono il diritto delle persone a un previo consenso, libero e informato sulle attività e le scelte che riguardano il loro territorio, e la possibilità di opporsi.
Un diritto che per molti agricoltori è difficile far valere: solo una minima parte di loro può vantare vanta titoli ufficiali di proprietà o diritti sulla zona coltivata. Da uno studio del 2003 della Banca Mondiale risulta che solo una parte della proprietà delle terre d’Africa compresa tra il 2 e il 10 per cento è posseduta sulla base di titoli formali. In molti paesi dell’Africa, la maggior parte dei terreni coltivabili sono classificati come “beni non-privati”: sono i governi ad essere ufficialmente proprietari della gran parte delle terre. Ed è con i governi che le grandi multinazionali contrattano e fanno affari d’oro.
Inutili e poco funzionali molte delle soluzioni proposte a livello nazionale ed internazionale. Fino ad ora pochi hanno cercato di capire quali sono le reali cause del problema.
Nessuno, ad esempio, pare essersi preso la briga di chiedersi “chi sono” e soprattutto “perché” così tante persone decidono di rischiare la vita nel tentativo di entrare in Europa attraverso l’Italia e la Spagna. Tanto più che la vita che li aspetta nel vecchio continente non è certo un paradiso: nella stragrande maggioranza dei casi, non si tratta né di profughi né di rifugiati (entrambe queste categorie sono ben classificate e le statistiche parlano di una percentuale ridottissima di rifugiati e di profughi tra quanti sbarcano in Italia), e la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno è davvero minima.
Per comprendere le cause di questi flussi migratori è indispensabile sapere da dove provengono. Secondo i dati forniti dal Centro studi e ricerche Idos sulla base di dati Istat (e da altre fonti), appare evidente che che la maggior parte dei migranti non viene dai paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Libia, Tunisia ed Egitto spesso sono solo tappe intermedie di un viaggio più lungo.
La maggior parte proviene da paesi dell’Africa centrale come Nigeria e Senegal, o da paesi come Gambia, Somalia e Eritrea, ma anche da altri paesi come la Tanzania.
In alcuni di questi paesi, come in Somalia, sono in corso scontri con le formazioni jihadisti degli al-Shabaab e lotte fratricide, e non hanno sortito fino ad ora un effetto completo le misure adottate fino ad ora dall’Onu attraverso l’Unione Africana. Basti pensare che in Kenya, a Daadab, esiste il più grande campo profughi del mondo, che raccoglie in condizioni miserrime 500mila profughi somali. Ma in molti altri paesi non sono in corso guerre né conflitti armati né stermini di massa. La causa che spinge migliaia e migliaia di persone ad abbandonare la propria terra e rischiare la vita in un viaggio di migliaia e migliaia di chilometri potrebbe essere un’altra: il land grabbing.
Un fenomeno che ha assunto dimensioni rilevanti a partire dal 2007, l’anno della crisi dei prezzi dei prodotti agricoli. Fu allora che investitori senza scrupoli e speculatori agrari soprattutto cinesi capirono che era necessario trovare nuove terre su cui insediare produzioni intensive di beni primari come prodotti agricoli e biodiesel. È per questo motivo che l’Africa subsahariana e quella centrale sono diventate “terre di conquista” dove impiantare coltivazioni intensive.
Per farlo, le grandi multinazionali esercitano pressioni sui governi dietro la promessa di costruire infrastrutture irrigue, strade, e, in qualche caso, ospedali e scuole per portare avanti i loro progetti di investimento e non è un caso se, recentemente, in Africa centrale, imprenditori cinesi hanno costruito o ricostruito intere città apparentemente senza chiedere niente in cambio.
Uno studio realizzato dalla Banca Mondiale nel 2010 parlava di “accaparramento” di terreni per 46 milioni di ettari (due terzi dei quali nell’Africa centrale e nel solo periodo da ottobre 2008 ad agosto 2009). Ma questo dato, come hanno ammesso gli stessi ricercatori, dato che meno della metà delle acquisizioni esaminate riportava l’estensione dei terreni acquisiti. Inoltre spesso le multinazionali, per non essere costrette a pagare tasse sulla proprietà dei terreni, preferivano acquisire il diritto di superficie per tempi lunghissimi (tra i 25 e i 99 anni) invece che acquistarli.
Un fenomeno, inoltre, in continua espansione e a ritmi vertiginosi: i dati riportati sul portale Land Matrix che monitora il land grabbing nel mondo, parlano di una superficie di circa 83 milioni di ettari (anno 2012). Secondo Oxfam Italia il land grabbing sarebbe aumentato del 1000% dal 2008 a soli quattro anni dopo.
Un fenomeno, quello del land grabbing, che è certamente una delle principali cause delle immigrazioni di massa. In Tanzania, ad esempio, qualche tempo fa un’azienda svedese ha affittato dal governo più di 20mila ettari di territorio nella parte nordorientale del paese. Una zona prospera e fertile: l’azienda di stato Razaba Farm, inspiegabilmente chiusa nel 1993, vi produceva mais, riso e frutta. Secondo quanto riportato da ActionAid, dopo la stipula del contratto 1300 famiglie di contadini e piccoli allevatori sono stati costretti a lasciare le proprie terre e a 300 famiglie è stata tolta anche l’abitazione. A queste vanno aggiunte altre duecento famiglie che vivevano in un’area limitrofa di circa 2.400 ettari, anche questa occupata dalla stessa azienda (e senza regolare contratto). Gli abitanti, dopo essere stati cacciati, hanno intentato una causa legale con la multinazionale (ma le speranze di vincere sono poche).
Negli ultimi anni, la Tanzania è diventata una delle mete preferite da imprese multinazionali e fondi di investimento: dal 2006 al 2012 sono almeno quaranta le compagnie straniere che hanno affittato o comprato grandi proprietà terriere sulle quali hanno impiantato produzioni di jatropha o canna da zucchero da trasformare in componenti per biodiesel.
Anche molte aziende italiane hanno cercato di “conquistare” l’Africa centrale: in Etiopia, Liberia, Mozambico e Senegal dove, dal 2005, più di 80mila ettari di terra sono passati in mani italiane.
Agli abitanti di queste terre, dopo che le multinazionali se ne sono impossessate, restano solo due alternative: ricevere un indennizzo in denaro o cercare un altro posto per sopravvivere. Come ha detto Sefu Mkomeni, un contadino di Matipwili, un villaggio nella zona di Biga Western, “Non c’era la possibilità di scegliere se restare o andarsene, ma solo di andarsene”.
Il tutto spesso in violazione delle TGs (le Direttive volontarie sulla governance responsabile dei regimi fondiari) che prevedono il diritto delle persone a un previo consenso, libero e informato sulle attività e le scelte che riguardano il loro territorio, e la possibilità di opporsi.
Un diritto che per molti agricoltori è difficile far valere: solo una minima parte di loro può vantare vanta titoli ufficiali di proprietà o diritti sulla zona coltivata. Da uno studio del 2003 della Banca Mondiale risulta che solo una parte della proprietà delle terre d’Africa compresa tra il 2 e il 10 per cento è posseduta sulla base di titoli formali. In molti paesi dell’Africa, la maggior parte dei terreni coltivabili sono classificati come “beni non-privati”: sono i governi ad essere ufficialmente proprietari della gran parte delle terre. Ed è con i governi che le grandi multinazionali contrattano e fanno affari d’oro.
di C. Alessandro Mauceri – 24 maggio 2015
fonte: http://www.notiziegeopolitiche.net
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