Il caso dei due Marò continua a far discutere. Ma l'elemento che mette tutti d'accordo è che la vicenda ha palesato la totale ininfluenza italiana in campo internazionale, e l'incapacità dell'Italia di far valere, almeno a livello giurisdizionale, le proprie ragioni. Così, non ci rimane che assistere impotenti al continuo rimandare la sentenza da parte della Corte.
ROMA - La vicenda dei due Marò, ormai da anni,
agita l’opinione pubblica italiana e internazionale. Tra innocentisti e
colpevolisti, tra i sostenitori del giudizio in India e chi li vuole
riportare sotto la giurisdizione patria, il dibattito è infuocato. Non
sappiamo se, sulla controversa vicenda, verrà mai fatta completamente
luce. Quel che è certo - l’elemento su cui quasi tutti concordano - è
che quella tragedia ha scoperchiato la drammatica debolezza e
ininfluenza internazionale del nostro Paese, che tutt’oggi continua a
manifestarsi in un equivoco di fondo: il costante posticipo, cioè, della
sentenza da parte della Corte di giustizia indiana sembrerebbe quasi un
elemento a nostro favore, su cui basare la speranza che l’Italia possa
uscirne a testa alta. La verità, però, è un’altra.
Colpevoli senza sentenza. Ma l'Italia avrebbe avuto qualche ragione da far valere
Quella sentenza che non arriva mai, di fatto, in India equivarrebbe già a una condanna. I Marò, in India, sono già dati per colpevoli, pur non essendoci ancora una sentenza. Una realtà davanti alla quale l’Italia si è dimostrata, nel corso di questi tre anni, incapace di far valere le proprie ragioni su una vicenda controversa tanto sotto il profilo del diritto internazionale, quanto sotto quello dell’accertamento della dinamica dei fatti. Senza la pretesa di schierarsi da una parte o dall’altra, si può però affermare che l’Italia avrebbe avuto, almeno dal punto di vista giurisdizionale, qualche ragione da far valere. Non è ancora appurato se l’«incidente» sia avvenuto in acque indiane – circostanza che, molti ritengono, darebbe la giurisdizione all’India, com’è attualmente lo stato delle cose –. Tuttavia, anche in quel caso, la competenza indiana a sentenziare sul caso rimane in dubbio, in virtù delle norme internazionali sull’immunità degli organi statali dalla giurisdizione straniera, che individuerebbe, come unica giurisdizione competente, quella italiana: essendo l’atto compiuto nell’esercizio di funzioni pubbliche un atto dello Stato, esso resta esente dalla giurisdizione straniera (anche quando leda beni o persone stranieri). Secondo Paolo Bargiacchi, docente di Diritto internazionale all’Università Kore di Enna, l’Italia avrebbe dovuto sin da subito invocare con fermezza il rispetto di tale principio. Cosa che, è evidente, non ha fatto.
Quella sentenza che non arriva mai, di fatto, in India equivarrebbe già a una condanna. I Marò, in India, sono già dati per colpevoli, pur non essendoci ancora una sentenza. Una realtà davanti alla quale l’Italia si è dimostrata, nel corso di questi tre anni, incapace di far valere le proprie ragioni su una vicenda controversa tanto sotto il profilo del diritto internazionale, quanto sotto quello dell’accertamento della dinamica dei fatti. Senza la pretesa di schierarsi da una parte o dall’altra, si può però affermare che l’Italia avrebbe avuto, almeno dal punto di vista giurisdizionale, qualche ragione da far valere. Non è ancora appurato se l’«incidente» sia avvenuto in acque indiane – circostanza che, molti ritengono, darebbe la giurisdizione all’India, com’è attualmente lo stato delle cose –. Tuttavia, anche in quel caso, la competenza indiana a sentenziare sul caso rimane in dubbio, in virtù delle norme internazionali sull’immunità degli organi statali dalla giurisdizione straniera, che individuerebbe, come unica giurisdizione competente, quella italiana: essendo l’atto compiuto nell’esercizio di funzioni pubbliche un atto dello Stato, esso resta esente dalla giurisdizione straniera (anche quando leda beni o persone stranieri). Secondo Paolo Bargiacchi, docente di Diritto internazionale all’Università Kore di Enna, l’Italia avrebbe dovuto sin da subito invocare con fermezza il rispetto di tale principio. Cosa che, è evidente, non ha fatto.
Invece che invocare l'immunità, si è tenuto un basso profilo
L’Italia, così, ha finito con l’accettare che la disputa venisse regolata sulla base della Convenzione del 1982 sul diritto del mare, che affiderebbe allo Stato di bandiera la giurisdizione soltanto in caso di «incidente» o «abbordo». Tuttavia, queste ultime terminologie non sembrano adeguate a riferirsi al fatto contestato ai Marò. Insomma, a basarsi sulla Convenzione, è naturale che la giurisdizione sia stata sottratta all’Italia. Non basta. L’interpretazione dell’India si è sempre basata su una sostanziale prevalenza del diritto interno su quello internazionale, dato che si è comunque affidata al Maritime Zones Act, secondo cui, in caso di controversia, il diritto interno prevale sulla Convenzione. E, per il diritto interno, fino a 200 miglia dalla costa la giurisdizione penale è dell’India.
L’Italia, così, ha finito con l’accettare che la disputa venisse regolata sulla base della Convenzione del 1982 sul diritto del mare, che affiderebbe allo Stato di bandiera la giurisdizione soltanto in caso di «incidente» o «abbordo». Tuttavia, queste ultime terminologie non sembrano adeguate a riferirsi al fatto contestato ai Marò. Insomma, a basarsi sulla Convenzione, è naturale che la giurisdizione sia stata sottratta all’Italia. Non basta. L’interpretazione dell’India si è sempre basata su una sostanziale prevalenza del diritto interno su quello internazionale, dato che si è comunque affidata al Maritime Zones Act, secondo cui, in caso di controversia, il diritto interno prevale sulla Convenzione. E, per il diritto interno, fino a 200 miglia dalla costa la giurisdizione penale è dell’India.
3 anni di debolezza
Stando così le cose, salverebbe i due Marò soltanto il poter dimostrare che i due fucilieri agirono per rispondere ad un atto di pirateria, onde poter poi invocare l’applicazione dell’art. 100 della Convenzione che sancisce l’obbligo per gli Stati di esercitare la «massima collaborazione per reprimere la pirateria in alto mare». Evidenti, però i rischi di una simile strategia. Se anche si riuscisse a convincere la Special Court dell’applicabilità dell’art. 100, non sarebbe affatto certo che essa accetterebbe di far giudicare la vicenda in un tribunale italiano o internazionale. In tale panorama, dunque, secondo Bargiacchi il problema è stato uno solo: il fatto che, «sin dall’inizio, l’Italia si è mostrata oggettivamente debole in ragione di una ‘statura’ non all’altezza di una società internazionale sempre più interdipendente». Insomma: la nostra scarsa credibilità e debolezza a livello internazionale ci ha impedito di sostenere la soluzione a noi più «vantaggiosa», e per di più fondata a livello giuridico. Così, quello che ci rimane da fare è assistere al continuo rimandare della Corte indiana, sperando che questo rappresenti, per noi, un segnale positivo. Quando invece, molto più probabilmente, costituisce l'esatto contrario.
Stando così le cose, salverebbe i due Marò soltanto il poter dimostrare che i due fucilieri agirono per rispondere ad un atto di pirateria, onde poter poi invocare l’applicazione dell’art. 100 della Convenzione che sancisce l’obbligo per gli Stati di esercitare la «massima collaborazione per reprimere la pirateria in alto mare». Evidenti, però i rischi di una simile strategia. Se anche si riuscisse a convincere la Special Court dell’applicabilità dell’art. 100, non sarebbe affatto certo che essa accetterebbe di far giudicare la vicenda in un tribunale italiano o internazionale. In tale panorama, dunque, secondo Bargiacchi il problema è stato uno solo: il fatto che, «sin dall’inizio, l’Italia si è mostrata oggettivamente debole in ragione di una ‘statura’ non all’altezza di una società internazionale sempre più interdipendente». Insomma: la nostra scarsa credibilità e debolezza a livello internazionale ci ha impedito di sostenere la soluzione a noi più «vantaggiosa», e per di più fondata a livello giuridico. Così, quello che ci rimane da fare è assistere al continuo rimandare della Corte indiana, sperando che questo rappresenti, per noi, un segnale positivo. Quando invece, molto più probabilmente, costituisce l'esatto contrario.
di
Giulia Pozzi
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