
Abbiamo
 sempre pensato che se da 23 mesi gli indiani detengono illegalmente i 
Marò attirandosi addosso (ma solo adesso, purtroppo…) critiche e censure
 di mezzo mondo senza essere però in grado di formalizzare alcuna 
imputazione nei loro confronti e quindi senza poterli sottoporre a 
giudizio come pretendono e vorrebbero fare, un motivo preciso ci doveva 
essere. Anche per l’ovvietà che suggerisce il guardare la situazione dal
 loro punto di vista: vi pare che se avessero la possibilità di accusare
 e processare i Marò con prove schiaccianti e riscontri inopinabili non 
li avrebbero già trascinati in tribunale e condannati? I nostri sospetti
 puntavano all’impossibilità per gli indiani di imbastire una 
requisitoria basata su dati di fatto oggettivi ed elementi probatori 
inoppugnabili, cioè che inquirenti e magistrati fossero vittime della 
suggestione del vorrei – processarli e condannarli – ma non posso. Ora 
quei sospetti sono diventati una certezza alla luce degli ultimi 
sviluppi del caso.
Proviamo a metterci nei loro panni. Qualcuno, il ministro della 
difesa Antony, per aiutare l’amico Oomen Chandy a mantenere la carica di
 governatore del Kerala dall’assalto portato dall’estrema sinistra a 
causa della defezione di un deputato e della conseguente perdita della 
maggioranza nel locale Parlamento, suggerisce al Chandy di essere più 
realista del re e di cavalcare demagogicamente la strumentalizzazione 
politica del caso Marò appena scoppiato.
A questo nefando complotto 
viene associata la locale polizia con lusinghe e promesse in caso di 
rielezione di Chandy, alla quale viene affidato il delicato compito di 
trovare il modo di “incastrare” i Marò, gli unici disponibili ad essere 
eletti a capri espiatori per l’uccisione dei due pescatori. Così, si 
manipolano e si costruiscono prove, altre a favore della posizione di 
Latorre e Girone vengono occultate, si depista, si costruisce un teorema
 accusatorio la cui solidità è quella di un castello di carte da gioco 
su un tavolo all’aperto esposto al soffio del vento pomeridiano mandato 
dal mare. Si arriva al punto che bisogna mantenere le loro infondate 
accuse avendo superato il punto di non ritorno della vergogna. S’è 
creato un caso che ha finito col coinvolgere tutti: il governo, la 
polizia, la Capitaneria di Porto, i periti necroscopici del Kerala 
prima, il governo centrale dell’India, la Corte Suprema di New Delhi, 
gli investigatori dell’antiterrorismo, il tribunale di New Delhi e tre 
ministeri, quelli degli Interni, della Giustizia e degli Esteri. Più il 
cerchio si allargava e più difficile era per quelli che il caso avevano 
viscidamente montato ammettere che si trattava di una boutade e chiedere
 scusa ammettendo di essersi sbagliati.
Certo avrebbero potuti mandarli sotto processo, ma cosa sarebbe 
accaduto? Vediamo un po’. Il comandante del peschereccio delle due 
vittime aveva dichiarato ai microfoni di numerosi corrispondenti e del 
canale TV locale Venad News e di fronte ad una folla di curiosi, appena 
approdato nel porticciolo di Neendakara alle ore 23.30 locali di quel 
fatidico 15 febbraio 2012 di “essere stati aggrediti da una grossa nave,
 di cui al buio non aveva scorto il nome, dalla quale gli avevano 
sparato addosso” causando la morte di due pescatori. Dopo tre giorni, la
 polizia del Kerala riesce finalmente a convince il comandante Freddy 
Bosco a fornire una nuova versione dei fatti, pena la mancata 
opportunità di farsi risarcire i danni qualora non si fossero trovati i 
responsabili. Ed allora Bosco i responsabili li fa subito trovare e, 
ritrattato quello che aveva affermato a caldo di fronte ad una platea di
 testimoni, forniva questa nuova versione dei fatti: “Saranno state le 
16.30 del pomeriggio, io dormivo sul pavimento in cabina di pilotaggio 
accanto al timoniere, gli altri erano sottocoperta. Ho inteso una 
sparatoria della durata di circa un minuto e mezzo, ho inteso il tonfo 
del timoniere Valentine Jalastine, 45 anni, caduto in terra colpito a 
morte alla testa. Poi dopo, mi sono accorto che nella toilette giaceva 
esanime un altro nostro marinaio, Ajish Pinky, 25 anni, colpito da un 
solo colpo al cuore”. Una versione che, come abbiamo più volte 
dimostrato, non sta in piedi, che abbiamo smontato punto per punto, 
oltretutto definitivamente smentita dalle perizie fatte sulle foto del 
peschereccio appena dopo l’incidente dall’esperto di chiara fama 
internazionale Luigi Di Stefano, il perito balistico che ha fatto luce 
sulla tragedia di Ustica sostenendo la tesi di un missile sfuggito al 
controllo nel corso di una battaglia aerea, tesi accolta dal Tribunale, 
dalla Corte d’Appello e da quella di Cassazione.
A smentire Bosco e gli inquirenti indiani prima eravamo solo noi 
di Qelsi, oltre ovviamente ai Marò ed al loro collegio di difesa. Ora a 
distruggere il castello di calunnie costruito per incastrare i Marò, 
pensate un po’, sono nientemeno che altri indiani, cioè quelli della 
locale Guardia Costiera che registrano un’altra dinamica dei fatti, con 
orari e cronologia diversa da quella esibita dalla polizia del Kerala e 
ripresa nella pseudo-istruttoria tarocca sulla base della quale la NIA 
vorrebbe istruire un processo che se fosse fatto rischia di trasformarsi
 in un implacabile j’accuse di risonanza internazionale contro politici,
 magistrati ed inquirenti indiani. Questa testimonianza costituisce 
quindi una svolta clamorosa per affondare le tesi accusatorie degli 
indiani, perchè conferma gli orari accertati con la prima versione dei 
fatti sempre sostenuta dai Marò e dimostrata dalle comunicazioni 
intercorse tra la Lexie, l’armatore ed centro SAR per il controllo della
 navigazione di Mumbai e decreta, per ovvia conseguenza, l’assoluta 
estraneità dei nostri fucilieri alle vicende che hanno condotto alla 
morte dei due pescatori. In un eventuale processo questo sarebbe un 
primo punto a sostegno del proscioglimento dei Marò. Ma questa sarebbe 
solo una delle enormi incongruenze della storia che la NIA vorrebbe 
raccontare. 
C’è il referto balistico inviato tramite il ministero degli 
Esteri dell’India in via ufficiale alla Marina Militare italiana che 
indica come non furono Latorre e Girone a sparare. Ma allora perchè li 
vogliono processare? Ma non è tutto. Quando il 16 febbraio del 2012 
l’anatomopatologo prof. K. Sasikala, docente associato di medicina 
legale all’Istituto di Medicina legale di Trivandrum, esegue l’autopsia,
 dai corpi delle vittime estrae due proiettili, uno ciascuno. Già 
questo, insieme alle foto del St Antony in cui il peschereccio appare 
quasi intatto, contribuisce a smentire le dichiarazioni di Bosco, perchè
 se i Marò avessero sparato per un minuto e mezzo avrebbero esploso 
circa duemila colpi ed i due cadaveri sarebbero stati crivellati di 
colpi o fatti a pezzi. Ma a parte questo, in modo irrituale nel suo 
rapporto necroscopico Sasikala non indica il calibro delle ogive, ma la 
lunghezza e le due circonferenze delle pallottole. I numeri sono: 
lunghezza 3,1 centimetri, circonferenza sulla punta 2,0 centimetri, 
circonferenza sopra la base 2,4 centimetri. Le cifre sono compatibili 
con un calibro 7 e 62 e non con il calibro 5 e 56 dei sei fucili Beretta
 70/90 e dei due mitra Fn minimi in dotazione alle truppe Nato, e quindi
 anche ai Marò. Con tenacia degna di miglior sorte, il 10 aprile 2012 la
 polizia keralese tenta un’ultima carta disperata per costruire una 
perizia utilizzabile contro i Marò. Succede quando a quesito il Forensic
 Sciences Laboratory comunica ai giudici ed alla polizia del Kerala che 
le armi del delitto potrebbero essere nuovi modelli di fucili Beretta 
Arx-160 che possono esplodere anche colpi calibro 7 e 62, sostituendo 
però la canna e alcune altre parti dell’arma. Secca e definitiva la 
replica della nostra Marina Militare che ha gioco facile nello smentire 
la tesi indiana. Quel fucile, si ribatte, non è in dotazione ai Nuclei 
Militari di Protezione delle navi italiane. Punto e basta.
Ma la polizia del Kerala è disperata, non si arrende, non può 
arrendersi e cerca in qualche modo di correre ai ripari. Manda a Roma 
alcuni 007 intercettati e riconosciuti dal giornalista del Foglio 
Daniele Ranieri, che riporta la notizia sul suo quotidiano, il quale li 
sorprende mentre erano in disperata ricerca, ma senza successo, di 
fucili Beretta Arx-160, gli unici in grado di sparare anche colpi 7 e 
62. Allora non era chiaro quale fosse il motivo che aveva spinto a Roma 
gli 007 indiani, ora tutto torna ed i nodi arrivano al pettine. Viaggio a
 vuoto, inutile e sbagliato negli intenti, perchè se anche li avessero 
trovati in commercio gli Arx-160 nulla avrebbero dimostrato, considerato
 che la polizia del Kerala ha tenuto sotto sequestro e rivoltato come un
 calzino la Enrica Lexie per due mesi senza nulla trovare in grado di 
sparare proiettili di quel calibro. Peraltro, il referto finale delle 
perizie balistiche sui proiettili appare chiaramente contraffatto. Pezzi
 di frasi e brani cancellati e poi coperti con altro scritto. 
Addirittura, nel passaggio dall’originale alla copia contraffatta viene 
alterato persino il modo di indicare la data della protocollazione: nel 
primo si indica infatti come “Cr No, Punto, 02/12, mentre nel secondo 
diventa “Cr. No, Due Punti, 02/12″. Senza dire delle perizie sul 
peschereccio, non pervenute, perchè mai effettuate secondo standard 
affidabili e riconosciuti. Risultato : perizie inutilizzabili contro i 
Marò e pertanto secretate sino all’avvio del processo, non rese 
disponibili neppure alla difesa. Meglio non lasciare tracce 
compromettenti in giro.
Anche perchè, guarda tu il caso, il calibro 7 e 62 è esattamente 
quello dei proiettili sparati dai mitra russi Pk montati sugli 
sfreccianti Arrow Boats della Guardia Costiera e della Marina Militare 
dello Sri Lanka, stato contro il quale l’India conduce da anni una 
guerra latente, che sparano a tutti i pescherecci indiani, e non per 
avvertimento. Negli ultimi anni sono più di ottanta i pescatori indiani 
la cui morte è stata attribuita ai cingalesi perchè sorpresi a pescare 
sconfinando in quelle acque di cui contendono la territorialità 
all’India, senza che questa possa fornire loro alcuna protezione. Per 
una volta che si possono accusare due italiani di passaggio, perchè non 
approfittarne?
Poi in un processo potrebbero venire fuori precedenti a dir poco 
imbarazzanti per l’India. Chi non ricorda il caso della Savina Kayling, 
nave gemella della Enrica Lexie, stesso armatore, la Flli D’Amato di 
Napoli? La Savina fu catturata e sequestrata dai pirati somali e 
trattenuta in ostaggio per 11 mesi insieme a 22 uomini di equipaggio, 5 
italiani e 17 indiani. Si dovette pagare un riscatto (l’Italia), ma 
prima della liberazione il governo indiano implorò quello italiano di 
dare precedenza ai prigionieri indiani, altrimenti avrebbero corso il 
rischio di subire gravi ritorsioni da parte dei somali una volta rimasti
 nelle loro mani. L’Italia accondiscese alla richiesta e gli indiani 
furono liberati per primi e con ogni precauzione per tutelarne 
l’incolumità. E’ per ringraziare i loro liberatori, che poi gli indiani 
hanno arrestato due Marò italiani che erano in missione antipirateria 
volta a salvaguardare la sicurezza della navigazione di tutti, anche 
quella degli indiani. 
Oppure il caso dei due pescatori uccisi per errore dai marines 
Usa che scortavano una nave appoggio di unità della US Navy di fronte 
alle coste del Dubai, perchè li avevano scambiati per pirati. In quel 
caso il governo indiano nemmeno si azzardò a protestare e fu subito 
raggiunto da una nota di protesta del Pentagono consegnata 
all’ambasciatore indiano a Washington DC nella quale si denunciava la 
irresponsabilità dell’India che mandava in giro in acque pericolose 
propri pescherecci fatiscenti, privi di mezzi di comunicazione e senza 
un’efficiente strumentazione capace di garantire la sicurezza della 
navigazione propria ed altrui. Oppure i due civili indiani uccisi per 
errore nel Centro Africa dai parà francesi che avrebbero dovuti 
tutelarli, perchè scambiati per guerriglieri nonostante fossero 
trasportati da un camion dell’esercito del Gabon alleato dei francesi. 
Telefonata di scuse di Hollande a Singh, il primo ministro indiano, ed 
incidente chiuso, perchè i parà erano coperti da immunità funzionale. La
 stessa immunità che l’India ha preteso fosse riconosciuta e rispettata 
per suoi 37 militari che indossavano in Congo la divisa dei 
peacekeepers, i Caschi Blu, che una corte internazionale ONU, Congo ed 
India aveva riconosciuto responsabili di centinaia di stupri contro 
donne e bambine, molte delle quali uccise per divertimento, di traffico 
di droga, di armi e preziosi, oltrechè degli aiuti destinati alla 
popolazione civile, tutte attività estranee alla missione per la quale 
erano stati mandati in Congo. La stessa immunità funzionale che ora 
l’India rifiuta di riconoscere ai nostri valorosi soldati impegnati a 
contrastare terrorismo ed atti di pirateria in un mare infestato di 
pirati.
Ecco, si diceva, mettiamoci nei panni degli indiani. Anche solo 
per quello che abbiamo riferito, e molto altro ancora s’è detto e si 
potrebbe tornare a dire, ve la sentireste di condurre un processo che 
per forza di cose attrae un’attenzione planetaria sulla base degli 
elementi accusatori così inconsistenti da smentirsi da soli? E’ per 
questo che dopo 23 mesi stiamo ancora al punto di partenza e nessuno in 
India si vuole prendere la responsabilità di fare la prima mossa. Ed è 
per questo che possiamo pensare che lunedì 24 marzo, a conclusione dei 
festeggiamenti per la primavera che in India sono un sacro rituale, 
qualcuno proporrà di finirla lì proponendo la liberazione dei Marò, con 
un dispositivo procedurale che tecnicamente li lascia a piede libero in 
attesa di un processo che per gli indiani è molto meglio non si svolga 
mai.
Di Rosengarten, il 
fonte: http://www.qelsi.it



 
quello che mi meraviglia è l'atteggiamento dei mezzi di comunicazione italiani e della popolazione del nostro Paese ...
RispondiEliminaGentilissimo, purtroppo i media e la stampa dopo qualche tempo fanno decadere le notizie se chi li deve fornire le lascia che stagnino nel dimenticatoio. In quanto alla popolazione da quando il servizio militare non è coscrizionale, c'è meno interesse dall'una e dall'altra parte sia a comunicare che a recepire.
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