Il quadro politico italiano si evolve senza una vera direzione se non la disperata ma pressante deriva guidata dai grillini. Le mosse di quel che resta del renzismo sono orientate a far votare prima che svaniscano i ricordi positivi di un triennio pur non brillantissimo, magari in anticipo su una finanziaria 2017 che metta in luce le eredità negative di quella elettoralistica precedente, ed evitando anche un congresso del Pd che potrebbe modificare gli equilibri interni del partito. L’ideale per Matteo Renzi sarebbe votare a giugno.
Il cuore delle intenzioni di Sergio Mattarella (e
del suo vasto e crescente “partito”) appare sostanzialmente
(doverosamente) istituzionale ma senza un’anima politica: l’esigenza di
definire una legge elettorale minimamente decente, garantire le
operazione di messa in sicurezza del sistema bancario e, in connessione
con questo, del bilancio dello Stato, costruire intanto un qualche
rapporto meno conflittuale con tedeschi e francesi. L’ideale per il
Quirinale sarebbe votare nel febbraio del 2018.
La sinistra Pd tenta di ridefinire un nuovo profilo
del partito e l’avvenimento più importante di questi giorni è lo
schierarsi contro l’austerità di Angela Merkel da parte del suo vice
Sigmar Gabriel: dopo avere guidato la catastrofe del socialismo europeo,
forse, la Spd incomincia a pensare che senza ridare una prospettiva a
quel che resta dell’idea socialista ci si condanna a scomparire. In
questo contesto la sinistra Pd, peraltro abbastanza disgregata, vorrebbe
un voto dopo un congresso che aiuti a recuperare un’anima socialista, e
magari elezioni a novembre, appena approvata una finanziaria i cui
esiti sarebbero scaricati su Renzi.
Silvio Berlusconi sotto scacco economicamente dopo
le mosse di Vincent Bolloré e politicamente per gli spazi che gli
sottrae Matteo Salvini, cerca di temporeggiare, di predisporre un
sistema elettorale che consenta uno spazio a una formazione politica da
lui direttamente gestita rinviando ogni trattativa sul futuro a dopo che
avrà acquisito un po’ di tempo e un minimo di presenza autonoma. In
questo suo traccheggiare s’incontra sia con il partito di Mattarella sia
con settori del mondo dell’impresa delusi da Matteo Renzi ma al fondo
indecisi a tutto.
Matteo Salvini da una parte alza la voce per
mantenere il controllo di una base sociale percorsa da un forte
malcontento che potrebbe finire (si è visto con chiarezza nel voto di
Torino) per orientarsi verso i Cinque stelle, dall’altra si collega ai
grandi sommovimenti internazionali: dalla vittoria di Donald Trump alla
nuova centralità di Vladimir Putin, fino all’attenzione per le
presidenziali francesi (nonché alle politiche olandesi). E infine cerca
di capitalizzare il suo peso nel potere amministrativo locale (dalla
Regione Lombardia, un po’ sottotono, a quella veneta, invece in grande
spolvero, e infine alla crescente influenza in Friuli Venezia Giulia).
Non accetta i tempi berlusconiani e se risorgesse un centrismo
simil-montiano potrebbe finire nelle braccia di Grillo.
Beppe Grillo cerca di sfruttare fino in fondo il
vento dell’antipolitica che le manovre descritte, largamente centrate
prioritariamente su interessi da ceto politico (o di scambio tra
interessi di ceto politico e vari singoli interessi) alimentano alla
grande. Chi spera di sfruttare contro di lui i pasticci della giunta
Raggi dovrebbe rendersi conto di come una certa sistematica persecuzione
giudiziaria contro il sindaco di Roma stia producendo lo stesso effetto
che questa pratica provocava quando sperimentata contro il Berlusconi
triumphans: diventava un certificato di garanzia, per chi era sottoposto
a questo trattamento, dell’essere estraneo a un establishment sempre
più vastamente disprezzato. Per Grillo va bene sia votare subito
sfruttando la disgregazione degli equilibri politici in atto sia nel
2018 quando centrosinistra e parte del centrodestra si saranno logorate
nel tenere in piedi un quadro politico ormai senza più un’anima.
Questa situazione lasciata a se stessa porta naturalmente, come
scrive bene sul Corriere della Sera Paolo Franchi, a una vittoria dei
grillini. Anche un ritorno a un proporzionalismo abbastanza puro
porterebbe a questo esito: il movimento 5 stelle senza una svolta
politica non starà sotto il 30 per cento e la protesta che si esprimerà
attorno al voto leghista in caso di revival di un’offerta politica
centrista, arriverà intorno al venti per cento orientandosi alla fine ad
appoggiare i grillini, piuttosto che un conglomerato di resti di establishment.
Comprendo le preoccupazioni per certe semplificazioni demagogiche
espresse dall’ala più protestataria del centrodestra, ma queste sono
anche una reazione all’ossificata retorica - particolarmente evidente in
certe dichiarazioni euro entusiaste prive ormai di riscontro con la
realtà concreta - di quello che si considera il polo moderato dello
schieramento liberal-popolare-conservatore.
Il 20 gennaio Donald Trump inizierà a praticare una
politica di protezionismo selettivo che inciderà nelle politiche
economiche di tutti gli Stati del mondo, e a fare rientrare nel gioco
politico la Russia modificando gli equilibri europei, il 20 marzo si
voterà in Olanda, il 23 aprile e il 7 maggio per le presidenziali
francesi, il 22 ottobre per le politiche tedesche. C’è qualcuno che
veramente può prevedere come saranno gli assetti del Vecchio continente
alla fine di questi dieci mesi? E se sono certamente semplicistiche le
varie ricette di uscita dall’euro, di flat tax senza riscontri di
bilancio, di contrasto dell’immigrazione senza un’adeguata politica di
potenza, potranno sembrare a qualcuno più concrete le soluzioni che si
affidano alle magie di un povero Mario Draghi sempre più isolato e al
tran tran di una Berlino (più maggiordomi luxemburg-bruxellesi) di cui
persino il vicecancelliere denuncia gli infernali limiti strategici?
E’ evidente come un quadro nazionale centrato sulla sopravvivenza del
ceto politico (e di quei settori economici che con questo “ceto”
praticano scambi) non potrà che alimentare un sindacato della rabbia
sociale che svolgerà la sua funzione di rappresentanza (con gli annessi
vari salari sociali, decrescita felice, avvenire da liquidatori di un
vasto patrimonio nazionale nonché da subappaltatori o da operatori
turistici) rispetto ai vari poteri (con i quali Grillo
sta già trattando: vedi pasticci Europarlamento) ai quali sarà
consegnata una nazione disfatta. Il contesto internazionale (con la
Brexit, la vittoria di Trump, la possibile ripresa della Spd, una
qualche autonomizzazione della Francia dalla Germania, il ruolo di
Vladimir Putin) offre ancora una chance a chi resiste - pur non senza
scoramento - all’idea di un’Italia nuovamente ridotta a pura espressione
geografica, ma questo spiraglio non potrà essere utilizzato con il mix
di furbate e tran tran che caratterizza le prospettive del ceto politico
centrale della Repubblica.
Senza verità (cioè: non esistono possibilità di rinverdire stagioni
centriste, si devono ricostruire polarità di destra e di sinistra che
integrino moderatismo e radicalismo, le necessarie convergenze per gli
interessi nazionali, per fondamentali obiettivi costituenti e anche per
uno sforzo teso a costruire una vera Europa dei popoli, non devono
sovrapporsi a distinti ruoli di governo e opposizione) e coraggio (si
deve superare sia la demagogia sia la retorica, si deve ridare
legittimità politica al parlamento votando il più presto possibile, non
si possono fare scelte solo subalterne agli interessi del ceto politico o
agli scambi con questo, e l’Europa rappresenta una
sfida non una soluzione già bella e funzionante), non si andrà da alcuna
parte se non nelle mani del sindacato – non privo, dalla sua, di
giustificazioni - della rabbia sociale con annessa schiacciante
subalternità di quel pochissimo che resterà della nostra sovranità.
di Ludovico Festa - 10 gennaio 2017
fonte: https://www.loccidentale.it
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