Quando
nell’aprile del 2013 si consumò uno dei piú imbarazzanti spaccati della
storia politica italiana, culminato nella richiesta — o, meglio, la
prostrata implorazione — a Giorgio Napolitano di continuare a essere l’inquilino del Quirinale, si sentí ripetere da piú parti che le modalità d’elezione del presidente della Repubblica
avevano ormai fatto il loro tempo. Non è un caso che lo stesso
Napolitano avesse vincolato la sua rinnovata disponibilità a ricoprire
la carica piú alta alla definizione e alla messa in opera d’un percorso
di riforme costituzionali aventi come obiettivo una radicale trasformazione dell’architettura istituzionale del Paese. Dopo quasi due anni, il secondo mandato di Napolitano
s’è chiuso anticipatamente, con le annunciate dimissioni. Tuttavia,
l’imbarazzo è il medesimo del passato. Poco, troppo poco, è cambiato da
allora, sia per quanto riguarda le riforme, sia per la situazione
politico-economica del Paese. Ci s’accinge, svogliatamente, ad
affrontare ancor una volta il rito barocco dell’elezione parlamentare del capo dello Stato
— sciorinando il pomposo lessico di circostanza: Grandi Elettori,
Camere riunite in seduta comune —, che si strascinerà fin quando il
grande bazar dei partiti, delle correnti e degli spifferi troverà la
formula giusta per soppesare interessi e tornaconti. Un meccanismo che
tira fuori il peggio sia dal sistema politico postbellico nato dalla
fragilità e dalla paura — e che ha come perno la ricerca perenne della
trattativa e del compromesso, spesso al ribasso — sia da quello
mediatico, che ha già iniziato a propinare l’immancabile «totoquirinale»,
improbabili borsini di percentuali e di gradimento, sondaggi ufficiali e
ufficiosi. Un conclave laico, dal quale dovrebbe uscire il nuovo
arbitro, come invocato da molti opinionisti: una figura super partes
che provi a tenere la barra dritta in periodi di forte turbolenza.
Povero quel Paese che ha ancora bisogno d’un arbitro e non d’un
fuoriclasse per essere guidato.
Probabilmente, quest’elezione non sarà altro che l’ennesima espressione dell’ormai onnipresente e onnicomprensivo patto del Nazareno: Matteo Renzi e Silvio Berlusconi
si scambiano le fedi all’altare quirinalizio. Il nuovo presidente sarà
una figura garante non tanto della Costituzione e dei suoi sempre piú
fragili e anacronistici equilibri, quanto d’una promessa reciproca di
fedeltà. Da questa prospettiva, tal elezione non ha i crismi della
solennità e dell’autorevolezza che ancora si vorrebbero propagandare: è
solo la pietanza principale nel menú delle prove e controprove con cui leader
o presunti tali mettono alla prova le proprie ambizioni. Il rischio,
che i piú sembrano sottovalutare o proprio non considerare, è che tra
qualche mese la personalità scelta per andare sul colle piú alto di Roma
possa risultare già inadeguata, quasi inopportuna, dinanzi alle mutate
condizioni dei matrimoni politici. Se il nuovo presidente sarà
estensione del patto del Nazareno, che cosa ne sarà quando tale patto
avrà esaurito la sua missione? Verrà rinnovato in eterno dal presidente
del Consiglio e da Berlusconi? Quali riflessi potrebbe avere sul nuovo
inquilino del Quirinale una successiva rottura fra i due contraenti? La
politica italiana è dunque destinata a campare sulla base di contratti
riservati e reciproci soccorsi in Parlamento?
Con troppa miopia e leggerezza si stanno
affrontando queste elezioni. Un presidente che lega a doppio filo la
sua legittimità all’occasionalità delle intese fra Renzi e Berlusconi —
o, per antitesi, unicamente espressione di coloro che a tali intese
dànno battaglia — è destinato a essere figura debole e in balía delle
tormente, aggiungendo, di fatto, un vulnus d’instabilità a un
sistema già provato e inadeguato. Quello per il Quirinale è un gran
ballo che non ha piú ragione d’avere luogo, parte d’una liturgia che ha
perso la sua ragion d’essere e che àncora il Paese all’immaturità
istituzionale. L’unica via percorribile è quella d’una riforma profonda e
radicale del Paese che conduca a una Repubblica semipresidenziale e federale, nella quale venga prevista l’elezione diretta del capo dello Stato sul modello francese. Ciò garantirebbe, meglio di tante raffazzonate leggi elettorali,
un bipolarismo occidentale e maturo, e risparmierebbe all’opinione
pubblica la ciclica riproposizione di nomi che, nell’eventualità di
dover passare nelle urne, non verrebbero nemmeno presi in considerazione
come candidati. E invece, ancor una volta, s’è costretti a far i conti
con Giuliano Amato e Romano Prodi. La speranza è che sia l’ultima.
Nessun commento:
Posta un commento