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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

17/03/14

Società Il gender, la società senza sesso e il compito di noi madri e padri. Alla riscoperta della bellezza del corpo.




Eugenia Scabini: è giunto il momento di una presenza vigile e attiva delle famiglie. Non per una battaglia ideologica ma per fare riemergere «un’ecologia dell’uomo» che lo protegga dalla distruzione di se stesso



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Eugenia Scabini, autrice di questo articolo, è professoressa di Psicologia dei legami familiari presso la facoltà di Psicologia dell’Università cattolica di Milano, di cui è stata preside dal 1999 al 2011.


Vi ricordate il 12 maggio 2007, quella singolare manifestazione a Roma chiamata “Family day”? Al di là degli obiettivi, è stata anche, per chi vi ha partecipato, una grande festa di popolo, di vitalità delle famiglie. Sono passati non molti anni da quel giorno e il nostro mondo è occupato da tutt’altri scenari che hanno impegnato in dibattiti e manifestazioni, ma anche in precise scelte giuridiche e sociali, molti paesi europei tra cui la Francia e la Spagna: il matrimonio per le coppie omosessuali, con possibilità o meno di adozione dei figli, la sostituzione dei termini “padre” e “madre” con il più generico “genitore A” e “genitore B” o uno e due.
Tutto questo ci ha in parte sorpreso, a volte preoccupato, ma comunque nella maggioranza dei casi l’abbiamo vissuto un “po’ a distanza”, vuoi perché capitava altrove, vuoi perché urgenti e pressanti aspetti legati alla crisi economica ci avevano forse fatto sentire questi temi meno fondamentali per la vita delle famiglie, sottovalutandone la loro importanza ai fini di una vita squisitamente umana.
Tuttavia, ora con una strategia meno frontale ma più sottilmente invasiva, si fanno avanti anche da noi proposte o iniziative come l’utilizzo a Milano dei moduli per l’iscrizione alla scuola con la generica definizione di “genitore” invece che di “padre” e “madre” o la pubblicazione della “Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere”, a firma di Unar e del dipartimento per le Pari opportunità. Quest’ultima va ben oltre la più che legittima denuncia del bullismo e dell’omofobia e, mettendo in scacco alcuni capisaldi della costruzione dell’identità personale e familiare, ha provocato più che legittime proteste soprattutto per quanto riguarda il fronte educativo, proteste che hanno poi portato a un blocco della iniziativa.
È quindi il momento che quel popolo festoso riprenda coscienza di sé e faccia sentire la sua voce, non tanto per vincere una battaglia che si presenta chiaramente ideologica, ma per fare riemergere quella che papa Benedetto ha indicato come «un’ecologia dell’uomo» che sia in grado di proteggerlo «contro la distruzione di se stesso», recuperando e vivificando i fondamentali dell’umano.


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Ma quali sono i fondamentali dell’umano? Innanzitutto la persona che, con la sua inviolabile dignità umana e la sua libertà, è riferimento centrale della civiltà europea ed esplicitamente al centro della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Dire persona è ben diverso che dire individuo, entità astratta e sciolta dai legami, che pure ha determinato lo sviluppo del pensiero del Novecento. La persona, unica e irripetibile, è costitutivamente un “essere in relazione”: in breve, ciascuno di noi è un “generato” che rimanda costitutivamente ai “generanti”, entro una catena generazionale del dare-ricevere la vita imprescindibile per l’identità di ciascuno e, al tempo stesso, per l’identità della società in cui le persone si muovono.
Come ben dice papa Francesco nella Lumen Fidei: «La persona vive sempre in relazione. Viene da altri, appartiene ad altri, la sua vita si fa più grande nell’incontro con altri. E anche la propria conoscenza, la stessa coscienza di sé, è di tipo relazionale, ed è legata ad altri che ci hanno preceduto: in primo luogo i nostri genitori, che ci hanno dato la vita e il nome. Il linguaggio stesso, le parole con cui interpretiamo la nostra vita e la nostra realtà, ci arriva attraverso altri, preservato nella memoria viva di altri. La conoscenza di noi stessi è possibile solo quando partecipiamo a una memoria più grande».
Un corpo vivente
Ma dire che la persona è “un essere in relazione” non è dire una cosa vaga e impalpabile, perché la persona è un corpo vivente. Vorrei porre l’accento sulla parola “corpo”, quel corpo che oggi è da una parte esaltato e dall’altra manipolato a piacimento e ridotto a un insieme di organi. Sappiamo invece dalla ricerca psicologica che, sin dalle prime fasi della vita, il corpo umano è attraversato da primordiali emozioni, stati mentali, capacità di interazioni e, fin dalla vita intrauterina, risponde ed è influenzato (soprattutto attraverso il corpo della madre) da ciò che lo circonda e dal mondo affettivo e relazionale della sua famiglia, che lo attende, pre-figurando il suo “posto”.
 Il corpo umano è vivo, è vivente. Corpo vivente significa affermare che l’aspetto sorgivo dell’essere umano è costituito da un’unità biologica, psichica, spirituale e relazionale. La persona è, e come tale può pensarsi e agire, entro tale unità e in forza di essa. La vita umana, che la Chiesa ha sempre con grande forza difeso, è data dalla coscienza che essa è il bene per eccellenza senza del quale nulla potrebbe sussistere. Dire corpo vivente significa al tempo stesso dire “corpo sessuato”. L’essere sessuato investe tutta la persona umana e non è solo una differenza anatomica. L’umanità esiste al maschile e al femminile e una società vera è quella in cui le persone possono compiere l’imprescindibile itinerario di umanizzazione che le porta dal nascere maschio e femmina, al divenire uomo e donna.
In questo processo la famiglia ha un ruolo fondamentale: come dice il noto psicologo Urie Bronfenbrenner, «la famiglia rende umani gli esseri umani». E qui sta il fondamento dei diritti della famiglia che troviamo chiaramente espresso nella Carta dei diritti della famiglia di cui da poco abbiamo celebrato i 30 anni della sua pubblicazione (e che vale la pena rileggere). Qui, e non prima, si innesta l’itinerario in cui la cultura, a partire da questa originaria differenza (e non a prescinderne) offre la trama dei significati personali e sociali, essenziali nella costruzione dell’identità. In questa prospettiva il corpo, lungi dall’essere un limite di cui liberarsi – e attraverso interventi manipolatori, passare dall’essere maschio al diventare femmina e viceversa e alle ormai numerose varianti – è la risorsa primordiale e la sede della persona: io “sono” un corpo e non “ho” un corpo.
La dualità maschio femmina
Con felicissima espressione Giovanni Paolo II nelle famose “Catechesi del Mercoledì” così ribadisce l’unità di corpo e persona e la sua riconoscibilità nella relazione tra l’uomo e la donna. «Quando il primo uomo, alla vista della donna esclama: “È carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa” (Gen, 2,23), afferma semplicemente l’identità umana di entrambi. Così esclamando, egli sembra dire: “Ecco un corpo che esprime la ‘persona’”» (Udienza generale 9 gennaio 1980).

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Così viene figurato il mistero dell’essere umano, creato nella dualità di maschio e femmina e, quindi, radicato in una differenza, ma pure segnato da una comune appartenenza al genere umano. È quest’ultima che consente all’uomo e alla donna, al maschile e al femminile, di non essere abissalmente distanti, ma, nella relazione e tensione reciproca, parti indispensabili dell’intera umanità. L’altro consente a me stesso di riconoscermi, l’altro è la mia attrattiva e il mio destino. L’altro: l’altro genere, l’altra generazione, l’Altro, il Creatore di tutte le cose che ha creato l’uomo a Sua immagine e somiglianza e l’ha creato maschio e femmina. Così ci dice l’antropologia del principio che ci pone dinnanzi all’umano come costituito da una “uguaglianza differenziata”.
Giovanni Paolo II, per esprimere questa condizione originaria ha coniato una espressione nuova, un neologismo. Ha parlato dell’uomo e della donna come «uni-dualità relazionale», che consente a ciascuno «di sentire il rapporto interpersonale e reciproco come un dono arricchente e responsabilizzante» (Lettera alle donne 8). La corporeità e l’essere situati nella differenza sessuale ci parla così dell’unità procreativa e del generare nella direzione del «dono arricchente e responsabilizzante» bene vitale e primario della famiglia e fonte della stessa sopravvivenza e sviluppo della società. Ma il compito affidato all’uni-dualità interpersonale non si ferma qui poiché l’uomo e la donna, con il loro comune e collaborativo contributo, devono portare a compimento il mondo e la storia.
«Il matrimonio e la procreazione in se stessa non determinano definitivamente il significato originario e fondamentale dell’essere corpo, né dell’essere, in quanto corpo, maschio e femmina», così ancora ci dice questo grande Papa (Udienza generale 9 gennaio 1980).
La comparsa dell’individuo
Certo non facile è mantenere insieme la comunanza senza svilirla nella omologazione e la differenza senza creare pericolose scissioni. Non facile mantenere viva la tensione tra il femminile e il maschile senza farla esplodere nel conflitto o rinchiuderla nel dominio e subordinazione dell’uno sull’altro. I cristiani non si fanno troppe illusioni al proposito perché sanno che c’è stata una turbativa all’origine (il peccato originale che Giovanni Paolo II peraltro equamente distribuisce tra l’uomo e la donna) e sanno perciò che l’armonia tra i generi ma anche tra le generazioni (le due differenze costitutive dell’umano) vanno sempre pazientemente ricostruite nella vita familiare e sociale e non senza grande sofferenza.

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Così la realizzazione storica di questo riconoscimento di pari dignità della persona umana ha incontrato non poche difficoltà ed è ancora oggi ben lungi dall’essere rispettato. Ne hanno fatto le spese soprattutto le donne come del resto lo stesso Giovanni Paolo II profeticamente dalla Mulieris dignitatem (1988) alla Lettera alle donne (1995) e in altri numerosi interventi già oltre trent’anni fa denunciava, rilanciando in positivo la peculiarità indispensabile dell’apporto della donna alla vita umana e sociale, parlando di «genio femminile».
Dove sono oggi finiti questi fondamentali e la loro ricchezza e attrattiva? Sono finiti nella latenza, vivono come un patrimonio sommerso al quale così poco riusciamo ad attingere e a far diventare rilevante nella vita personale, familiare e sociale. Invece della persona compare l’individuo con il suo diritto di autodeterminazione e di scelta insindacabile anche quando tale scelta ha conseguenze dirette su un altro essere umano come tristemente accade quando si genera “affittando” un utero o si approva l’eutanasia per i minori come avvenuto di recente in Belgio.
Invece dell’unità corpo-persona assistiamo, come acutamente osservava la psicoanalista Janine Chasseguet-Smirgel già una decina di anni fa, ad una depersonalizzazione del corpo da se stesso, ad una scissione tra io corporeo e io psichico. Il corpo vivente si frantuma, diventa un oggetto muto, si lascia meccanicamente e passivamente trascrivere dalla tecnologia che ne ha preso possesso, non senza guadagno commerciale. La frammentazione del corpo vivente produce schegge impazzite e contraddizioni palesi: edonismo del “fisico”, determinismo del genetico (persino della libertà e moralità) e al tempo stesso attribuzione di enorme potenza alla cultura che avrebbe la capacità di costruire e de-costruire la differenza sessuale.
Recuperare i fondamentali
Nelle teorie del gender di tipo radicalmente costruttivista, oggi di moda, la “differenza reciprocante” del femminile e del maschile collassa in una rappresentazione dell’essere umano come indistinto, indifferenziato, ibrido e si preconizza una società transgenere, postpadre e postmadre. E la questione non sta, come in genere si dibatte, sulla capacità delle coppie, magari dello stesso sesso, di saper ben allevare bambini ma sta nel mettere questi ultimi nella condizione di affacciarsi alla vita con un vuoto di origine. Il tema della generatività e del suo intrinseco riferimento all’origine è questione centrale sia da un punto di vista antropologico che psicologico, come abbiamo più volte evidenziato nella nostra “prospettiva relazionale-simbolica” di lettura del “famigliare”. In questa deriva, l’itinerario a ritroso che l’umanità oggi rischia di percorrere trascina al ribasso la persona dal riconoscimento, al misconoscimento, all’indifferenza, all’incuria.


Sit in in favore della famiglia naturale e della libertà di espressione

Quale il nostro compito? Recuperare i fondamentali e metterli in azione. È oggi il tempo di una presenza attiva, vigile e propositiva degli adulti, delle madri e dei padri (ma sappiamo che possiamo e dobbiamo essere madri e padri anche dei figli altrui) perché nostra è la responsabilità verso le nuove generazioni. Esse devono potersi nutrire di quelle risorse materiali, simboliche e morali che fanno della vita una vita umana. E l’educazione è l’ambito primario di tale impegno perché l’educazione è un proseguimento della generazione come ci ha ben insegnato quel grande uomo e vero seguace di Cristo che è stato don Luigi Giussani. Lui ha svegliato dal torpore più di una generazione e con ciascuna di loro si è messo in moto appassionatamente facendo ritrovare entro la proposta-esperienza cristiana la risposta ai desideri profondi del cuore e un senso dell’agire vivace e concreto nella vita sociale.
Comunione, non divisione
Ogni generazione comincia da capo ma è destinata al fallimento se suppone di cominciare da zero. Deve poter ritrovare nel patrimonio che le arriva, magari impoverito, la traccia di un cammino. Noi non siamo migliori dei nostri padri come cantavamo un tempo pensando invece di riuscirci. Ma possiamo riprenderci e risvegliarci partendo proprio dalla domanda che ci viene dai nostri figli, dalle nuove generazioni. Dobbiamo fare questo viaggio però insieme, madri e padri, fratelli di condizione e accomunati dalla stessa responsabilità. Il destino del femminile e del maschile è la comunione non la divisione e neppure la realizzazione solitaria. Questa generazione è sfidata nel corpo, come ogni giorno vediamo nella cronaca, e su questo punto si concentra la domanda di umanizzazione e la ricerca di identità.
Forse che per il cristiano il tema è secondario? Il corpo, cristianamente la carne, il corpo di Cristo, il corpo della Chiesa, la resurrezione dei corpi… Che cosa di più attraente di una proposta che fa trovare speranza, vita e pace nell’abbraccio con un Corpo pieno di luce che ci lega profondamente gli uni agli altri e ci rende amici e fratelli, piuttosto che un percorso errabondo alla ricerca di sé attraverso la spettacolarizzazione del proprio corpo o la peregrinazione da un corpo sessuato ad un altro?
Torniamo insieme all’origine. E l’unico modo per essere ancora generativi e per far sì che possano esserlo le nuove generazioni, col loro irripetibile volto.

di Eugenia scabini

fonte: http://www.tempi.it

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