Erdogan ha sfidato la Russia a
fornire le prove. Un’indagine del Financial Times punta il dito contro
Ankara, che da anni favorisce i jihadisti in Siria
A margine della Conferenza sul clima di Parigi, il presidente russo Vladimir Putin doveva incontrare il suo omonimo turco, Recep Tayyip Erdogan, per favorire la riconciliazione tra i due paesi dopo l’abbattimento di un jet russo da parte di Ankara. Putin invece, dopo aver rifiutato l’incontro, ha rincarato la dose: «Sospettiamo che il Su-24 sia stato abbattuto per assicurare forniture illegali di petrolio dall’Isis alla Turchia. Il petrolio proveniente dalle zone controllate dall’Isis viene consegnato in Turchia su scala industriale».
«VEDIAMO LE PROVE». Erdogan ha
subito ribattuto alzando ulteriormente i toni: «È immorale accusare la
Turchia di comprare il petrolio dall’Isis. Se ci sono i documenti,
devono mostrarli, vediamoli. Se questo viene dimostrato, io non rimarrò
nel mio incarico. E lo dico a Putin: lui manterrà il suo incarico?». È
difficile che Mosca abbia delle prove documentali, ma anche se le avesse
cambierebbe poco. E in fondo, non servono proprio.
BUSINESS DEL PETROLIO. Il business del petrolio, secondo un’indagine del Financial Times,
frutta allo Stato islamico 1,53 milioni di dollari al giorno. I
jihadisti producono circa 34-40 mila barili di petrolio al giorno, che
vengono venduti a un costo che varia dai 20 ai 45 dollari l’uno, a
seconda della qualità. Su 10.600 bombardamenti aerei condotti dalla
coalizione guidata dagli Stati Uniti, solo 196 hanno colpite le
infrastrutture petrolifere. Il petrolio, sempre secondo l’indagine del Ft,
viene venduto dagli intermediari non solo a tutte le formazioni ribelli
e jihadiste, ma anche alla Turchia. Nel paese i barili di petrolio
«entrano su camion o a dorso di mulo».
L’ESEMPIO DI KOBANE. A cavallo tra il 2014 e il 2015, durante i circa quattro mesi di assedio della città di Kobane da parte dell’Isis, vicina al confine con la Turchia, Erdogan ha fatto di tutto per ostacolare la milizia curda che difendeva la città: prima ha schierato i suoi carri armati sul confine senza però andare ad aiutare Kobane da cui sono fuggite oltre 200 mila persone, poi ha cercato di impedire ai soldati del Kurdistan di andare in aiuto dei curdi siriani, infine ha tentato di bloccare il rifornimento di armi americane ai nemici dell’Isis perché «i curdi sono come lo Stato islamico». E anche quando ha bombardato, sono più le bombe che hanno colpito i curdi di quelle che hanno preso di mira i jihadisti.
LE ARMI E IL PROCESSO. Così come ha smentito di importare petrolio dall’Isis, Erdogan ha sempre negato di aver armato terroristi islamici in Siria. Insieme a Doha e Riyad, in realtà, Ankara appoggia la milizia Jaish Al-Fatah, Esercito di conquista, che comprende anche gruppi di Al-Nusra (la milizia qaedista siriana) ed è operativa nel nord della Siria. Inoltre il direttore di Cumhuriyet, con uno scoop internazionale, ha pubblicato le foto e un video delle armi turche inviate in Siria in un’area controllata da Al-Qaeda. Per questo, Can Dündar si ritrova a processo per spionaggio e terrorismo. La prima udienza si è tenuta il 27 novembre ed Erdogan, invece che dimettersi, l’ha denunciato personalmente chiedendo per il giornalista l’ergastolo più 42 anni aggiuntivi di carcere.
Foto Ansa/Ap
dicembre 1, 2015 Leone Grotti
fonte: http://www.tempi.it
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