ROMA – Amo la Marina militare. Da
ragazzotto – tra le tante altre fantasie che mi animavano – c’era quella
di fare l’accademia per diventare ufficiale di Marina, confesso
attratto anche dalla favolosa uniforme.
Oggi, portando i bambini dal medico, mi
sono imbattuto in cartelli che invitano ad arruolarsi in Marina.
All’inizio il messaggio non mi era chiaro, perché sui cartelloni sono
ritratti dei Rambo dalle fattezze occultate dal nerofumo o camuffate in
varia maniera. Sembrava il cartellone di un
ennesimo
film americano di azione nella giungla. Un Rambo 33. Ma ho notato che
c’era anche una confortevole bandiera con le insegne di quattro delle
nostre cinque repubbliche marinare (la quinta, Ragusa la bella, oggi si
chiama Dubrovnik e per non dare fastidio ai vicini croati abbiamo deciso
di cancellarla addirittura dai libri di storia e dalle insegne
militari), quindi mi sono detto che doveva essere roba nostra. Poi,
l’ennesimo choc, quasi terminale: sotto il cartello una scritta
angloamerica che strilla “Join the Navy”.
Join the navy? Ma a chi è rivolto il
manifesto di reclutamento? Se fosse rivolto – che so – ai miei figli, ci
sarebbe scritto un banale “arruolati in Marina”. Ma “join the navy”?
“Non è una canzone di quel gruppo gay
che andava tanto negli anni Ottanta?” azzarda mia moglie che mi è seduta
accanto. “I Village People?” butto lì. Effettivamente c’era una loro
canzone che si intitolava “In the Navy” e nel video due dei baffuti
membri del gruppo indossavano belle uniformi bianche. A risentirla bene
anche quella canzone suonava come un bando di reclutamento…
Penso – e come non potrei? – alle
fotografie di militari della marina alle quali ci hanno abituato ormai
da più di tre anni. Quelle dei due marò che abbiamo consegnato in mani
ostili e senza alcuna garanzia su richiesta delle autorità di uno Stato
indiano. Sul come e perché uno Stato come il nostro, che in teoria ha un
certo riconosciuto ruolo anche internazionale, abbia deciso di
autoinfliggersi una tale pubblica umiliazione non è ancora chiaro. Anche
sulle reali responsabilità della gestione quanto meno pecoreccia della
vicenda ci sono stati in passato orrendi rimpalli e poi è caduta una
cappa di omertà… il che fa pensare che le responsabilità siano diffuse e
trasversali…
Non credo che il manifesto “Join the
navy” potrà mai cancellare dagli occhi di un ragazzo italiano l’immagine
fiera dei due sottufficiali sacrificati a non si sa quale Ragion di
AntiStato. E temo che un ragazzo (o una ragazza) di buon senso possa
cancellare il sospetto che non sarebbe così tanto tutelato se si
imbarcasse in divisa su una nave italiana, visto il precedente.
Certo non con la facilità con cui in
Italia si cancella il ricordo dei propri caduti o prigionieri, quando le
cose non vanno per il meglio. Per 60 anni abbia cancellato dai nostri
libri di scuola persino l’esistenza della pulizia etnica sofferta dopo
la guerra dai nostri concittadini giuliano dalmati, migliaia dei quali
sono stati infoibati.
Mentre scrivo leggo pochi e brevi
annunci di celebrazioni locali dell’anniversario della strage di
Nassiriya, accaduta 12 anni fa. Ricordo inevitabilmente un pessimo
servizio di un Tg Rai alla camera ardente allestita per le vittime
all’altare della Patria a Roma. Fuori del monumento c’era una fila
interminabile di persone che aspettavano il loro turno solo per entrare e
mettere un fiore, compostamente e in silenzio. Una giornalista andava
da uno all’altro sbattendogli il microfono in faccia e chiedendogli “Lei
perché è qui?”, con evidente fastidio. Infine si è lanciata su una
ragazza, che avrà avuto forse 20 anni, vestita di scuro, che aveva
poggiato sula spalla un piccolo tricolore. Alla domanda di rito la
giornalista pensò bene di anticipare la risposta che aveva in mente e
cioè “sei di destra?”, reputando evidentemente che chi stava lì doveva
farlo per una motivazione in qualche modo “viziata” almeno
dall’ideologia. La ragazza la guardò, giustamente, come si guarda una
povera pazza che ti apostrofa per strada; e le rispose: “non lo so se
sono di destra, ma sono italiana e chiunque muore sotto un tricolore è
un morto che mi appartiene. E quindi gli rendo omaggio”. Mi fece
commuovere. Invece la giornalista mi fece imbufalire, ma mi costrinse ad
abbandonare il divano e il telecomando e fare quello che avrei dovuto
fare sin dalla mattina: andarmi a mettere in fila anch’io. Perché la mia
Italia era quella della ragazza con il vestito nero, non quella della
giornalista pagata con i soldi pubblici per disprezzare chi dava ancora
un minimo di valore a una bandiera che non fosse una bandiera di
partito.
di Marcello De Angelis - 12 novembre 2013
fonte: http://www.lavocedelpopolo.net - redazione
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