Si apre a Roma il dibattimento del processo c.d. “Mafia Capitale”.
Quando si cominciò a parlare di questa ennesima kermesse giudiziaria, parafrasando un noto e particolarmente imbecille manifesto elettorale pro Marino, io scrissi: “questa non è mafia, è Roma”. Una battuta tutto sommato un po’ ingiusta contro la mia Città di adozione (“questa è l’Italia”
e non solo Italia, sarebbe stato un pochino più giusto). Ma il fatto
che “non è mafia” è poi cominciato ad affiorare, ed ora la chiave del
processo è quella: è o non è mafia?
E’ una domanda cui è difficile dare una risposta certa e rassicurante
in termini giuridici (ché, se non in termini giuridici la risposta ad
ogni interrogativo relativa ad un processo è impostura e truffa).
E’ difficile perché lo stesso concetto di “associazione di stampo
mafioso”, così netto ed abbastanza chiaro in termini di sociologia
criminale è, dal punto di vista del diritto, una impostura, una
“fattispecie penale apparente”, secondo la qualificazione (in negativo)
che ne fa la sentenza sul plagio della Corte Costituzionale, estensore
Volterra (un giurista sul serio).
Io ricordo che, appena venuta fuori la legge “Rognoni-La Torre”
contenente quel giro di parole che avrebbe dovuto definire la nuova
figura di delitti, provai a proporre in diverse sedi la questione della
sua incostituzionalità per violazione della specificità dell’addebito
necessaria per la realizzazione del principio, antico e recepito e
consacrato dalla Costituzione, “Nullum crimen, nulla poena sine proevia lege poenali”. Eccezioni dichiarate, manco a dirlo “manifestamente infondate”.
In altre parole fui preso “giudizialmente” a pesci in faccia. Per
fortuna non c’era ancora il reato “giurisprudenziale” di “concorso
esterno” di quel “reato associativo”, ché, altrimenti mi avrebbero pure
incriminato (qualche anno dopo un magistrato, cui magari altro poteva
essere addebitato, fu oggetto di una perquisizione personale, che diede
l’avvio ad una decennale persecuzione nei suoi confronti” con la
motivazione: “per avere negato in una sentenza il carattere verticistico
di Cosa Nostra”).
Quella fattispecie penale “aperta” ed “apparente” è diventata l’asse
portante di una giustizia arbitraria che, anziché essere “uguale per
tutti”, come è enfaticamente ed ottimisticamente scritto nelle aule di
giustizia, mette, intanto, la giustizia “su due piani”, quello
“ordinario” e quello “antimafioso”.
Assegnando ogni caso di reato plurisoggettivo (la “mafia individuale”
non è stata ancora “giurisprudenzialmente” sancita, ma si è sulla
strada buona con molte enormità, ad esempio di “concorso esterno”) alle
Procure ordinarie o a quelle “Antimafia” (istituzionalizzazione del
vuoto logico della falsa fattispecie!!) si compie spesso una scelta, che
poi, quasi è d’obbligo ritenere irreversibile, che pesa, anche in fatto
di pene da applicare, assai di più di ogni altro accertamento da
compiere nell’indagine e nel giudizio.
La creazione di questa giustizia “speciale”, invano vietata dalla Costituzione, ha una storia che denunzia origini lontane.
Potremmo parlare della “giustizia” della Santa Inquisizione. C’erano
“materie miste” che consentivano dubbi sulla competenza: messo nel
“canale” del terribile Tribunale “religioso arrostitorio” il “reo” era
fottuto. Se invece andava avanti alla giustizia ordinaria poteva anche
cavarsela. (Ma talvolta era l’inverso, specie per i “famigliari”
dell’Inquisizione).
Ma assai più calzante è il precedente dei Tribunali Militari,
istituiti “per condannare i facinorosi”, in occasione di moti popolari e
di dilagare del brigantaggio, come quelli che imperversarono nel Sud
d’Italia per più di un decennio dopo l’Unità.
Ma non c’è bisogno di rifarsi alla storia per capire la vera natura
di questa funesta “giustizia antimafia”. Del resto non mi pare che ci
siano precedenti di parassitismo e di latrocinio commessi
all’applicazione della “Legge Pica” sul brigantaggio e con l’azione dei
Tribunali Militari, che non avevano “appendici” per l’”amministrazione”
dei beni confiscati ai “briganti”.
Bando a queste evocazioni storiche (inutili, se non altro, per l’ignoranza di troppi esponenti di questa nostra Antimafia).
Veniamo al dunque. L’uso perverso di questo anticipo di “diritto
penale libero”, di memoria nazista (c’è sempre da ricordare la denuncia
di Pietro Calamandrei del 15 gennaio 1940). Lo “stampo mafioso” è stato,
dunque, tirato in ballo, direi a vanvera, per il caso del “magna magna”
capitolino.
E’ servito e serve per “neutralizzare” un Centrodestra che non c’è,
cui si rinfacciano i precedenti neofascisti di Carminati, mentre si
lascia balenare un facile mezzo coinvolgimento di Alemanno (è sempre
facile coinvolgere qualcuno in questo reato a “vuota configurazione”) e
serve ottimamente per risolvere inestricabili pasticci interni del P.D. A
Palermo, patria delle più spericolate teorie circa il “contenuto” della
mafia, fucina di stravaganza di legislazione penale giurisprudenziale,
pare che nessuno se la senta, per timore di elezioni catastrofiche, di
incriminare per mafia Crocetta, con il contorno di persone e cose
dell’autentica antimafia mafiosa che lo sostiene. Il Partito dei
Magistrati, arbitro della politica Italiana, guarda da un’altra parte.
Questa è l’Antimafia.
Mauro Mellini - 7 nov 2015
fonte: http://www.lavalledeitempli.net
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