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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

22/01/17

La globalizzazione e l’intuizione di Donald Trump



Trump-Usa-Globalizzazione


di Vladislav Krassilnikov
In uno dei più clamorosi colpi di scena nella storia politica americana, Donald J. Trump è stato eletto 45° Presidente degli Stati Uniti. Il messaggio anti-sistema del magnate di Manhattan, rivelatosi più potente di quanto qualsiasi sondaggio – con la notevole eccezione delle rilevazioni condotte dal Los Angeles Times, che per mesi ha dato Trump in vantaggio [1] – sia riuscito a prevedere, ha permesso all’imprenditore prestato alla politica di cavalcare fino alla Casa Bianca un’ondata di risentimento degli sconfitti dalla globalizzazione, consentendogli di prevalere sul candidato democratico, Hillary Clinton, la cui vittoria era data per scontata quasi unanimemente dagli osservatori. Dal Washington Post [2], a Time [3], fino al Guardian [4], i giorni precedenti all’Election Day sono stati segnati da titoli quali “Perché Hillary Clinton vincerà” [5] e “Il caso è chiuso” [6]. Abbondano in questi giorni le analisi che tentano di razionalizzare l’imprevisto esito delle elezioni, adducendo non di rado profetiche motivazioni che, col senno di poi, avrebbero dopotutto dovuto rendere chiaro sin da principio chi sarebbe stato premiato dall’elettorato americano in una corsa di fatto contesa fino all’ultimo voto. Basti pensare al fatto che all’indomani del voto la CNN ha stilato un elenco di ben ventiquattro chiavi di lettura che spiegherebbero la vittoria repubblicana [7]. L’elezione di Donald Trump è una questione complessa che richiede una spiegazione articolata, che a sua volta auspicabilmente sollevi nuovi interrogativi, invece di pretendere di fornire ogni risposta. È bene, pertanto, studiare in maniera sistematica e attraverso prismi differenti la pluralità di concause di varia natura – politica, sociale ed economica – che ha in ultima istanza condotto al trionfo elettorale del candidato repubblicano. A tal fine, risulta utile attuare in prima approssimazione una distinzione fra due ordini di ragioni, in certa misura speculari: la fondamentale debolezza del candidato Hillary Clinton e l’efficacia del messaggio di Donald Trump presso ampie fasce di popolazione. Il discorso deve, inoltre, essere filtrato attraverso l’ottica di un profondo cambiamento del paradigma attorno cui si impernia il dibattito pubblico, tenendo conto della centralità politica assunta nel corso degli ultimi anni dal fenomeno della globalizzazione.
Hillary Clinton si è imposta come candidato del Partito Democratico al termine di un processo di selezione particolarmente poco competitivo. Oltre all’ex Segretario di Stato, l’unico esponente democratico di lungo corso candidatosi alle primarie del partito è stato il Governatore del Maryland, Martin O’Malley, il quale ha sospeso la propria campagna dopo aver ricevuto soltanto lo 0,54% dei consensi alle prime votazioni in Iowa. Le candidature di Lincoln Chafee, già Governatore di Rhode Island, e di Jim Webb, Senatore dallo Stato della Virginia, entrambi repubblicani per la maggior parte delle loro carriere politiche, non hanno mai rappresentato una seria minaccia alle possibilità di vittoria di Clinton, tanto che sondaggi poco incoraggianti li hanno spinti a ritirarsi dalla corsa ancor prima che l’elettorato democratico potesse esprimersi. Né l’inaspettata sfida da sinistra lanciata da Bernie Sanders, popolare Senatore indipendente dallo Stato del Vermont, affiliatosi soltanto in tempi recenti al Partito Democratico per motivi dettati da pragmatismo, è stata sufficiente a testare adeguatamente le posizioni di Clinton e ad affinarne a dovere il messaggio. Al contrario, si è assistito ad un tentativo concertato ed intenzionale di spianare la strada ad un candidato che, forte del sostegno dell’establishment politico, finanziario e mediatico, poteva contare su una macchina politica talmente formidabile, da prostrare in partenza le ambizioni di validi candidati, fra cui spiccano i nomi del vice Presidente Joe Biden e della Senatrice dallo Stato del Massachusetts Elizabeth Warren. Hillary Clinton avrebbe tratto significativi benefici da un campo democratico più vasto, da argomenti più vari e da candidati più eterogenei.
Invece, marciando verso un’incoronazione apparentemente inevitabile, il candidato democratico non è riuscito autonomamente ad articolare con chiarezza le proprie convinzioni di fondo ed i propri principi guida, necessari per spiegare in maniera convincente al popolo americano la direzione che avrebbe inteso imprimere al Paese. Evidenti sono i paralleli con “the vision thing”, la tristemente celebre formula che sintetizzava la carenza di un tema unificante della prima campagna presidenziale di George H. W. Bush, il cui disorientamento strategico contribuì a costargli la vittoria contro Bill Clinton alle elezioni successive. La carenza di un tema coerente e onnicomprensivo alla base della piattaforma politica del successore di Ronald Reagan contrastava nettamente con le abilità oratorie di “the natural”. Eppure, a distanza di ventiquattro anni dalla conquista della Casa Bianca da parte dell’ex Governatore dell’Arkansas, i sondaggi sembrerebbero ancora confermare la validità dello slogan “It’s the economy, stupid!”. I rivelamenti dell’istituto demoscopico Gallup dimostrano, infatti, che le questioni economiche sono stabilmente in cima alle priorità degli americani, con il 31% degli intervistati che ad ottobre del 2016 le definiva “il problema più importante della nazione”, in tendenziale continuità rispetto ai mesi precedenti segnati dalla stagione elettorale. Al contrario, problemi quali “la mancanza di rispetto reciproco” e “unire il paese” compaiono soltanto in fondo alla lista, entrambi senza riuscire a superare la soglia del 2% delle risposte raccolte [8]. A fronte delle incendiarie dichiarazioni di Donald Trump, spesso indirizzate a minoranze etniche e religiose, Hillary Clinton si è proposta di rinsaldare il tessuto sociale della nazione, perorando la causa di un’America “stronger together”. Tassazione progressiva, giustizia redistributiva e introduzione di nuovi benefici sociali sono stati argomenti ricorrenti nei discorsi del candidato democratico, ma è lecito supporre che una maggiore enfasi posta sulla creazione di posti di lavoro – al di là del ripudio simbolico della Trans-Pacific Partnership, descritto in precedenza da Clinton stessa come “lo standard di riferimento degli accordi commerciali” – avrebbe incontrato il favore di ampi segmenti dell’elettorato, soprattutto della cosiddetta white working class.
È stata proprio questa constituency, storicamente zoccolo duro del Partito Democratico dai tempi del New Deal, a consegnare la vittoria al miliardario newyorkese, assurto paradossalmente a paladino dei ceti medio-bassi – i “dimenticati” dalle istituzioni tradizionali, primi fra tutti i partiti politici. Non solo Trump ha conquistato porzioni di voti nelle aree rurali e nelle piccole città più consistenti di Mitt Romney, il candidato repubblicano alla presidenza nel 2012, con medie rispettivamente del +3,5% e del +1%, secondo le stime della Brookings Institution [9], ma è anche riuscito a ribaltare gli esiti delle precedenti elezioni presidenziali in numerose contee chiave in cruciali Swing States. I dati raccolti dal Washington Post illustrano che Trump ha conseguito vittorie in ben un terzo delle quasi 700 contee in cui Obama aveva prevalso sia nel 2008, sia nel 2012, in particolare nel Midwest deindustrializzato, mentre Clinton è riuscita a conquistare soltanto lo 0,3% delle contee che avevano votato repubblicano nelle precedenti due tornate elettorali [10]. I dati aggregati indicano che il 71% degli uomini bianchi senza titoli di studio a livello universitario ha scelto di mandare Donald Trump alla Casa Bianca [11].
Le elezioni presidenziali del 2016 altro non sono state che il culmine di un lungo processo di trasformazione del Partito Democratico, che ha perso la sua tradizionale base lavoratrice per diventare l’organizzazione politica dei professionisti. In un illuminante articolo pubblicato da The New Yorker il 31 ottobre 2016, George Packer argomenta persuasivamente che l’ascesa della New Left post-ideologica clintoniana all’inizio degli anni Novanta ha posto al centro l’idea secondo cui un’adeguata istruzione sarebbe stata un mattone fondamentale per espandere la classe media, cavalcare le impetuose forze della globalizzazione e costruire il proverbiale ponte verso il ventunesimo secolo [12]. Nelle parole di Lawrence Summers, ultimo Segretario del Tesoro di Bill Clinton, oggi il Partito Democratico è diventato “una coalizione dell’élite cosmopolita e della diversità [culturale]” [13]. Lo spostamento del baricentro intellettuale del liberalismo americano è proceduto di pari passo con l’esodo dei colletti blu verso i lidi conservatori del Partito Repubblicano, il quale, seppure in buona sostanza soltanto sul piano retorico, è stato in grado di interpretare il loro sentire, di legittimare i loro interessi e di dar voce alle loro preoccupazioni. Nel 1948 due lavoratori non specializzati su tre votavano per il Partito Democratico, mentre nel 1964 il 55% – una percentuale scesa ulteriormente al 35% nel 1980 [14] e destinata a rimanere relativamente stabile nelle elezioni successive, con oscillazioni comprese fra il 41% raccolto da Clinton nel 1992 [15] e il 36% ottenuto da Obama nel 2012 [16]. Così, mentre da un lato i New Democrats perseguivano politiche economiche improntate a principi neoliberisti intuitivamente appetibili – dalla liberalizzazione degli scambi con il North American Trade Agreement, all’abrogazione del Glass-Steagall Act del 1933 sulla separazione tra le banche commerciali e le banche di investimenti, fino all’ambiguità nei confronti dei sindacati sempre più indeboliti –, che in ultima istanza hanno esercitato effetti deleteri, almeno nel breve-medio periodo, sulle condizioni di vita delle classi lavoratrici, contribuendo in parte anche a porre le basi per lo scoppio della crisi economica globale esplosa nel 2007, dall’altro essi stessi si interrogavano sulle ragioni che spingessero i cittadini meno abbienti a votare presumibilmente “contro i propri interessi”. Se una figura polarizzante come Hillary Clinton, per sua stessa ammissione durante un discorso alla Goldman Sachs “ormai molto lontana” dalla realtà delle classi medio-basse, ha ritenuto saggio etichettare questo vasto gruppo di elettori come “cesto di deplorevoli”, non sorprende che essi abbiano preferito sostenere la candidatura di chi per lo meno sembrava accogliere seriamente le loro istanze.
Appare evidente, pertanto, che il Partito Democratico dipende ancora dai lavoratori bianchi molto più del previsto. La campagna elettorale di Hillary Clinton ha commesso un errore di sottovalutazione strategica, dando per scontato vittorie negli Stati della Rust Belt storicamente blu, evitando, di conseguenza, quasi del tutto di calcare territori in cui serpeggiava un generale malcontento determinato da percepita stagnazione economica e diffusa alienazione politica. Non è stato avvertito il campanello d’allarme che avrebbero dovuto rappresentare le vittorie del socialdemocratico Sanders nel Midwest deindustrializzato durante le elezioni primarie. All’indomani del voto, appare appropriata la sua ferma condanna del Partito Democratico “guidato dall’élite liberale” [17] e “indifferente alle famiglie lavoratrici” [18].
La retorica populista di Donald Trump ha svolto la funzione performativa di trasformare la white working class – un esplosivo insieme di privilegio e svantaggio concentrato in una singola espressione – in un gruppo identitario consapevole di sé, alimentando il risentimento di coloro i quali percepiscono ancora gli effetti della Grande Recessione e si scoprono ogni giorno in un’America sempre più etnicamente eterogenea. Da “Hillbilly Elegy”, passando per “White Trash” fino a “The Politics of Resentment”, numerosi sono gli esempi in letteratura che nel corso dell’ultimo anno hanno dipinto un affresco a tinte forti della condizione esistenziale degli angry white men, il cui risveglio politico ha sorretto la candidatura dell’esponente per antonomasia della cosiddetta élite costiera tanto disprezzata – un impresario la cui carriera è iniziata grazie ad un “piccolo prestito di un milione di dollari” [19] da parte di suo padre ed è sfociata in un impero multimiliardario costruito sulle spalle di impiegati talvolta non retribuiti per le loro prestazioni lavorative [20]. L’imprenditore prestato alla politica ha, così, investito sulla sensazione condivisa da ampi strati della popolazione di scarsa partecipazione ai processi decisionali, di esclusione dall’accesso alle risorse pubbliche e di mancata considerazione da parte del top 1% in cima ad un sistema politico ed economico percepito come fondamentalmente truccato a loro svantaggio.
Tuttavia, curiosamente le contee in cui i tassi di disoccupazione sono calati in maniera maggiormente significativa dal 2012 ad oggi secondo i dati raccolti dal Bureau of Labor Statistics sono le stesse in cui il candidato repubblicano ha registrato consensi particolarmente ampi [21]. Le variazioni dei tassi di disoccupazione, pertanto, non sembrerebbero in grado di contribuire a spiegare adeguatamente le vittorie di Trump. Se, però, da un lato è pacifico che le questioni economiche occupino una posizione di primo piano nelle considerazioni elettorali dei cittadini americani, dall’altro più fonti sembrerebbero suggerire che le percezioni dello stato dell’economia nazionale contino più delle condizioni economiche effettive in cui versa il paese. Come dimostrato dell’economista di Gallup Jonathan Rothwell, i sondaggi indicherebbero che gli elettori di Trump non sono necessariamente più poveri della media nazionale, ma il loro contesto sociale di riferimento potrebbe averli spinti a ritenere che il paese nel complesso si stia muovendo nella direzione sbagliata [22]. È quello che i politologi Donald Kinder e D. Roderick Kiewiet hanno definito “voto sociotropico”: l’effetto pervasivo delle condizioni macroeconomiche sulle scelte di voto [23]. La campagna di Trump ha, pertanto, amplificato l’idea per cui la politica non è tanto questione di fatti o policy, quanto di identità ed emozioni.
In un clima politico che favoriva il cambiamento grazie ad un misto di ansia economica e di insoddisfazione nei confronti della paralisi a Capitol Hill, Donald Trump ha assommato in sé tutti i caratteri di un candidato indipendente – la mancanza di una chiara ideologia, la visibilità derivante dallo status di celebrità e la fortuna personale indispensabile per finanziare una campagna – per prendere dapprima d’assalto uno dei due maggiori partiti da cui poi lanciare un’inarrestabile offensiva contro una delle principali dinastie politiche democratiche, come spiegato da Dan Balz sulle pagine del Washington Post [24]. Al grido di “Make America great again”, Trump ha parlato direttamente alle componenti reazionarie del Partito Repubblicano – non ai conservatori sociali, né ai costituzionalisti originalisti, né ai libertari liberoscambisti, bensì ai nostalgici di un passato immaginario scardinato da inedite gerarchie sociali, nuovi modelli di genere ed equilibri demografici in rapida trasformazione, determinati a ripristinare l’ordine percepito sotto minaccia.
In una congiuntura storica segnata da profonda sfiducia nei confronti delle istituzioni, pochi esponenti politici incarnano l’idea di establishment quanto Hillary Clinton. Il solerte gradualismo bipartisan è un ingrediente fondamentale alla base di pratiche di buona governance, che, però, si scontra con la violenta impazienza del momento, rendendolo ancor più un asset politicamente poco spendibile, se non persino un elemento controproducente. D’altronde, che l’ex First Lady fosse un candidato problematico non si scopre all’indomani del voto. Tre decenni di servizio pubblico sono stati segnati da importanti successi settoriali, ma anche da ripetuti scandali di diversa natura, dagli investimenti immobiliari dai dubbi profili legali tramite la poi fallita Whitewater Development Corporation negli anni ‘80, alla morte dell’Ambasciatore americano J. Christopher Stevens a Benghazi nel 2012 per mano di gruppi legati ad Al-Qaeda, facilitata da misure di sicurezza “gravemente inadeguate”, come stabilito dalle conclusioni del rapporto stilato dall’Accountability Review Board del Dipartimento di Stato [25], ai discorsi lautamente pagati alla multinazionale finanziaria Goldman Sachs, alla cui segretezza dettata dal loro contenuto politicamente compromettente è stata prestata speciale attenzione, ai conflitti di interessi fra Dipartimento di Stato e Clinton Foundation, i cui donatori, fra cui non mancano entità governative, avrebbero avuto accesso privilegiato ai vertici della diplomazia americana [26], fino alla più recente controversia delle email, sfociata in un nulla di fatto al termine di diverse indagini, ma nondimeno solidificante l’immagine di Clinton come politico operante al di sopra delle regole. Una vita dedicata al bene comune comporta anche un attento scrutinio da parte dell’opinione pubblica, che ostacola il tipico trasformismo clintoniano, soprattutto quando WIkileaks diventa un fattore non trascurabile nella delicata equazione politica [27].
Questo complesso ecosistema di luci ed ombre ha avuto un peso determinante sull’esito delle elezioni. Infatti, sebbene complicata dalla vittoria del voto popolare, è diffusa la considerazione secondo cui non è tanto Trump ad aver vinto, quanto Clinton ad aver perso. A fronte di un incremento pari a 317.000 voti circa per Trump rispetto a Romney, Clinton ha ricevuto 3,5 milioni di voti in meno rispetto ad Obama nel 2008. Come osservato da Karl Rove sul Wall Street Journal, Trump non ha vinto perché è riuscito ad espandere considerevolmente la base del Partito Repubblicano, bensì perché Clinton ha perso una fetta sostanziosa della coalizione di Obama, fallendo nel tentativo di conquistarne cuori e menti e risentendo della conseguente affluenza alle urne più bassa di quanto anticipato [28]. Il dato aggregato si scompone in 1,8 milioni di voti degli afroamericani in meno e 1 milione di voti dei giovani in meno, cui vanno ulteriormente sottratti 1,8 milioni di voti degli elettori di età compresa fra i 30 e i 44 anni, 2,6 milioni di voti dei cattolici e quasi 4,5 milioni di voti di famiglie a basso reddito [29]. In sintesi, il candidato democratico non è riuscito a ricreare la coalizione progressista di giovani, minoranze e donne che ha portato Barack Obama alla Casa Bianca – un raggruppamento eterogeneo che parrebbe rappresentare l’elettorato specifico del Presidente uscente, più che quello tipico del partito dell’asinello.
In questo contesto, la grande intuizione di Donald Trump è consistita nel cogliere la portata di un epocale cambiamento in atto, i cui esiti rimangono ancora incerti, ma che è destinato ad esercitare un profondo impatto sulle categorie concettuali tramite cui si sviluppa il confronto politico. Come illustrato da Emile Simpson su Foreign Policy, l’elezione di Trump non è un’anomalia della storia politica occidentale, bensì il sintomo dell’emergere di un nuovo paradigma attorno cui si articola il dibattito pubblico [30]. La dialettica fra destra e sinistra, che ha segnato la vita politica delle liberaldemocrazie a partire dal XIX secolo ed è stata cruciale per dirimere in maniera compromissoria le problematiche, in particolare quelle relative a questioni di giustizia distributiva, sollevate dai processi di industrializzazione, sarebbe inadatta ad organizzare la realtà politica delle società post-industriali, poste dinnanzi all’interrogativo centrale della globalizzazione. È proprio quest’ultimo a dover assurgere a fondamentale principio organizzativo della differenza politica. Trump ha sfidato le convenzioni politiche esistenti, acquistando così un’attrattiva trasversale. Si pensi, ad esempio, che, al netto di un certo grado fisiologico di porosità delle linee di divisione partitiche rispetto a tali questioni, oggi la sinistra tende ad essere internazionalista su temi di natura sociale, quali multiculturalismo e immigrazione, ma si attesta su posizioni più nazionaliste rispetto a nodi critici come commercio e regolamentazione fiscale. L’opposto è vero per le correnti di destra. Se studiato attraverso questo prisma, appare evidente che Trump ha promesso cospicui investimenti infrastrutturali per stimolare l’occupazione, come prescritto dagli economisti di estrazione keynesiana e propugnato dagli interventisti governativi a sinistra, ma si è espresso allo stesso tempo a favore di considerevoli riduzioni degli oneri fiscali, come suggerito dagli economisti riformisti liberisti riconducibili alla Scuola di Chicago e sostenuto dai teorici del governo minimo a destra. In conclusione, al fine di raccogliere un consenso elettorale sufficientemente vasto da potersi porre in maniera credibile come candidato alla presidenza degli Stati Uniti, diventa indispensabile trascendere, ricomprendere e ridefinire le convenzionali categorie di destra e sinistra e adottare politiche eclettiche rispetto agli standard del secolo scorso. Questo è esattamente ciò che ha fatto Donald Trump.

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*Vladislav Krassilnikov é OPI Trainee

fonte: http://www.bloglobal.net

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