di Vladislav Krassilnikov
In
uno dei più clamorosi colpi di scena nella storia politica americana,
Donald J. Trump è stato eletto 45° Presidente degli Stati Uniti. Il
messaggio anti-sistema del magnate di Manhattan, rivelatosi più potente
di quanto qualsiasi sondaggio – con la notevole eccezione delle
rilevazioni condotte dal Los Angeles Times, che per mesi ha dato Trump
in vantaggio [1] – sia riuscito a prevedere, ha permesso
all’imprenditore prestato alla politica di cavalcare fino alla Casa
Bianca un’ondata di risentimento degli sconfitti dalla globalizzazione,
consentendogli di prevalere sul candidato democratico, Hillary Clinton,
la cui vittoria era data per scontata quasi unanimemente dagli
osservatori. Dal Washington Post [2], a Time [3], fino al Guardian [4], i
giorni precedenti all’Election Day sono stati segnati da titoli
quali “Perché Hillary Clinton vincerà” [5] e “Il caso è chiuso” [6].
Abbondano in questi giorni le analisi che tentano di razionalizzare
l’imprevisto esito delle elezioni, adducendo non di rado profetiche
motivazioni che, col senno di poi, avrebbero dopotutto dovuto rendere
chiaro sin da principio chi sarebbe stato premiato dall’elettorato
americano in una corsa di fatto contesa fino all’ultimo voto. Basti
pensare al fatto che all’indomani del voto la CNN ha stilato un elenco
di ben ventiquattro chiavi di lettura che spiegherebbero la vittoria
repubblicana [7]. L’elezione di Donald Trump è una questione complessa
che richiede una spiegazione articolata, che a sua volta auspicabilmente
sollevi nuovi interrogativi, invece di pretendere di fornire ogni
risposta. È bene, pertanto, studiare in maniera sistematica e attraverso
prismi differenti la pluralità di concause di varia natura – politica,
sociale ed economica – che ha in ultima istanza condotto al trionfo
elettorale del candidato repubblicano. A tal fine, risulta utile attuare
in prima approssimazione una distinzione fra due ordini di ragioni, in
certa misura speculari: la fondamentale debolezza del candidato Hillary
Clinton e l’efficacia del messaggio di Donald Trump presso ampie fasce
di popolazione. Il discorso deve, inoltre, essere filtrato attraverso
l’ottica di un profondo cambiamento del paradigma attorno cui si
impernia il dibattito pubblico, tenendo conto della centralità politica
assunta nel corso degli ultimi anni dal fenomeno della globalizzazione.
Hillary
Clinton si è imposta come candidato del Partito Democratico al termine
di un processo di selezione particolarmente poco competitivo. Oltre
all’ex Segretario di Stato, l’unico esponente democratico di lungo corso
candidatosi alle primarie del partito è stato il Governatore del
Maryland, Martin O’Malley, il quale ha sospeso la propria campagna dopo
aver ricevuto soltanto lo 0,54% dei consensi alle prime votazioni in
Iowa. Le candidature di Lincoln Chafee, già Governatore di Rhode Island,
e di Jim Webb, Senatore dallo Stato della Virginia, entrambi
repubblicani per la maggior parte delle loro carriere politiche, non
hanno mai rappresentato una seria minaccia alle possibilità di vittoria
di Clinton, tanto che sondaggi poco incoraggianti li hanno spinti a
ritirarsi dalla corsa ancor prima che l’elettorato democratico potesse
esprimersi. Né l’inaspettata sfida da sinistra lanciata da Bernie
Sanders, popolare Senatore indipendente dallo Stato del Vermont,
affiliatosi soltanto in tempi recenti al Partito Democratico per motivi
dettati da pragmatismo, è stata sufficiente a testare adeguatamente le
posizioni di Clinton e ad affinarne a dovere il messaggio. Al contrario,
si è assistito ad un tentativo concertato ed intenzionale di spianare
la strada ad un candidato che, forte del sostegno dell’establishment
politico, finanziario e mediatico, poteva contare su una macchina
politica talmente formidabile, da prostrare in partenza le ambizioni di
validi candidati, fra cui spiccano i nomi del vice Presidente Joe Biden e
della Senatrice dallo Stato del Massachusetts Elizabeth Warren. Hillary
Clinton avrebbe tratto significativi benefici da un campo democratico
più vasto, da argomenti più vari e da candidati più eterogenei.
Invece,
marciando verso un’incoronazione apparentemente inevitabile, il
candidato democratico non è riuscito autonomamente ad articolare con
chiarezza le proprie convinzioni di fondo ed i propri principi guida,
necessari per spiegare in maniera convincente al popolo americano la
direzione che avrebbe inteso imprimere al Paese. Evidenti sono i
paralleli con “the vision thing”, la tristemente celebre formula
che sintetizzava la carenza di un tema unificante della prima campagna
presidenziale di George H. W. Bush, il cui disorientamento strategico
contribuì a costargli la vittoria contro Bill Clinton alle elezioni
successive. La carenza di un tema coerente e onnicomprensivo alla base
della piattaforma politica del successore di Ronald Reagan contrastava
nettamente con le abilità oratorie di “the natural”. Eppure, a
distanza di ventiquattro anni dalla conquista della Casa Bianca da parte
dell’ex Governatore dell’Arkansas, i sondaggi sembrerebbero ancora
confermare la validità dello slogan “It’s the economy, stupid!”. I
rivelamenti dell’istituto demoscopico Gallup dimostrano, infatti, che
le questioni economiche sono stabilmente in cima alle priorità degli
americani, con il 31% degli intervistati che ad ottobre del 2016 le
definiva “il problema più importante della nazione”, in tendenziale
continuità rispetto ai mesi precedenti segnati dalla stagione
elettorale. Al contrario, problemi quali “la mancanza di rispetto
reciproco” e “unire il paese” compaiono soltanto in fondo alla lista,
entrambi senza riuscire a superare la soglia del 2% delle risposte
raccolte [8]. A fronte delle incendiarie dichiarazioni di Donald Trump,
spesso indirizzate a minoranze etniche e religiose, Hillary Clinton si è
proposta di rinsaldare il tessuto sociale della nazione, perorando la
causa di un’America “stronger together”. Tassazione progressiva,
giustizia redistributiva e introduzione di nuovi benefici sociali sono
stati argomenti ricorrenti nei discorsi del candidato democratico, ma è
lecito supporre che una maggiore enfasi posta sulla creazione di posti
di lavoro – al di là del ripudio simbolico della Trans-Pacific
Partnership, descritto in precedenza da Clinton stessa come “lo standard
di riferimento degli accordi commerciali” – avrebbe incontrato il
favore di ampi segmenti dell’elettorato, soprattutto della cosiddetta white working class.
È stata proprio questa constituency,
storicamente zoccolo duro del Partito Democratico dai tempi del New
Deal, a consegnare la vittoria al miliardario newyorkese, assurto
paradossalmente a paladino dei ceti medio-bassi – i “dimenticati” dalle
istituzioni tradizionali, primi fra tutti i partiti politici. Non solo
Trump ha conquistato porzioni di voti nelle aree rurali e nelle piccole
città più consistenti di Mitt Romney, il candidato repubblicano alla
presidenza nel 2012, con medie rispettivamente del +3,5% e del +1%,
secondo le stime della Brookings Institution [9], ma è anche riuscito a
ribaltare gli esiti delle precedenti elezioni presidenziali in numerose
contee chiave in cruciali Swing States. I dati raccolti dal
Washington Post illustrano che Trump ha conseguito vittorie in ben un
terzo delle quasi 700 contee in cui Obama aveva prevalso sia nel 2008,
sia nel 2012, in particolare nel Midwest deindustrializzato, mentre
Clinton è riuscita a conquistare soltanto lo 0,3% delle contee che
avevano votato repubblicano nelle precedenti due tornate elettorali
[10]. I dati aggregati indicano che il 71% degli uomini bianchi senza
titoli di studio a livello universitario ha scelto di mandare Donald
Trump alla Casa Bianca [11].
Le
elezioni presidenziali del 2016 altro non sono state che il culmine di
un lungo processo di trasformazione del Partito Democratico, che ha
perso la sua tradizionale base lavoratrice per diventare
l’organizzazione politica dei professionisti. In un illuminante articolo
pubblicato da The New Yorker il 31 ottobre 2016, George Packer
argomenta persuasivamente che l’ascesa della New Left
post-ideologica clintoniana all’inizio degli anni Novanta ha posto al
centro l’idea secondo cui un’adeguata istruzione sarebbe stata un
mattone fondamentale per espandere la classe media, cavalcare le
impetuose forze della globalizzazione e costruire il proverbiale ponte
verso il ventunesimo secolo [12]. Nelle parole di Lawrence Summers,
ultimo Segretario del Tesoro di Bill Clinton, oggi il Partito
Democratico è diventato “una coalizione dell’élite cosmopolita e della
diversità [culturale]” [13]. Lo spostamento del baricentro intellettuale
del liberalismo americano è proceduto di pari passo con l’esodo dei
colletti blu verso i lidi conservatori del Partito Repubblicano, il
quale, seppure in buona sostanza soltanto sul piano retorico, è stato in
grado di interpretare il loro sentire, di legittimare i loro interessi e
di dar voce alle loro preoccupazioni. Nel 1948 due lavoratori non
specializzati su tre votavano per il Partito Democratico, mentre nel
1964 il 55% – una percentuale scesa ulteriormente al 35% nel 1980 [14] e
destinata a rimanere relativamente stabile nelle elezioni successive,
con oscillazioni comprese fra il 41% raccolto da Clinton nel 1992 [15] e
il 36% ottenuto da Obama nel 2012 [16]. Così, mentre da un lato i New Democrats
perseguivano politiche economiche improntate a principi neoliberisti
intuitivamente appetibili – dalla liberalizzazione degli scambi con il
North American Trade Agreement, all’abrogazione del Glass-Steagall Act
del 1933 sulla separazione tra le banche commerciali e le banche di
investimenti, fino all’ambiguità nei confronti dei sindacati sempre più
indeboliti –, che in ultima istanza hanno esercitato effetti deleteri,
almeno nel breve-medio periodo, sulle condizioni di vita delle classi
lavoratrici, contribuendo in parte anche a porre le basi per lo scoppio
della crisi economica globale esplosa nel 2007, dall’altro essi stessi
si interrogavano sulle ragioni che spingessero i cittadini meno abbienti
a votare presumibilmente “contro i propri interessi”. Se una figura
polarizzante come Hillary Clinton, per sua stessa ammissione durante un
discorso alla Goldman Sachs “ormai molto lontana” dalla realtà delle
classi medio-basse, ha ritenuto saggio etichettare questo vasto gruppo
di elettori come “cesto di deplorevoli”, non sorprende che essi abbiano
preferito sostenere la candidatura di chi per lo meno sembrava
accogliere seriamente le loro istanze.
Appare
evidente, pertanto, che il Partito Democratico dipende ancora dai
lavoratori bianchi molto più del previsto. La campagna elettorale di
Hillary Clinton ha commesso un errore di sottovalutazione strategica,
dando per scontato vittorie negli Stati della Rust Belt
storicamente blu, evitando, di conseguenza, quasi del tutto di calcare
territori in cui serpeggiava un generale malcontento determinato da
percepita stagnazione economica e diffusa alienazione politica. Non è
stato avvertito il campanello d’allarme che avrebbero dovuto
rappresentare le vittorie del socialdemocratico Sanders nel Midwest
deindustrializzato durante le elezioni primarie. All’indomani del voto,
appare appropriata la sua ferma condanna del Partito Democratico
“guidato dall’élite liberale” [17] e “indifferente alle famiglie
lavoratrici” [18].
La retorica populista di Donald Trump ha svolto la funzione performativa di trasformare la white working class
– un esplosivo insieme di privilegio e svantaggio concentrato in una
singola espressione – in un gruppo identitario consapevole di sé,
alimentando il risentimento di coloro i quali percepiscono ancora gli
effetti della Grande Recessione e si scoprono ogni giorno in un’America
sempre più etnicamente eterogenea. Da “Hillbilly Elegy”, passando per
“White Trash” fino a “The Politics of Resentment”, numerosi sono gli
esempi in letteratura che nel corso dell’ultimo anno hanno dipinto un
affresco a tinte forti della condizione esistenziale degli angry white men,
il cui risveglio politico ha sorretto la candidatura dell’esponente per
antonomasia della cosiddetta élite costiera tanto disprezzata – un
impresario la cui carriera è iniziata grazie ad un “piccolo prestito di
un milione di dollari” [19] da parte di suo padre ed è sfociata in un
impero multimiliardario costruito sulle spalle di impiegati talvolta non
retribuiti per le loro prestazioni lavorative [20]. L’imprenditore
prestato alla politica ha, così, investito sulla sensazione condivisa da
ampi strati della popolazione di scarsa partecipazione ai processi
decisionali, di esclusione dall’accesso alle risorse pubbliche e di
mancata considerazione da parte del top 1% in cima ad un sistema politico ed economico percepito come fondamentalmente truccato a loro svantaggio.
Tuttavia,
curiosamente le contee in cui i tassi di disoccupazione sono calati in
maniera maggiormente significativa dal 2012 ad oggi secondo i dati
raccolti dal Bureau of Labor Statistics sono le stesse in cui il
candidato repubblicano ha registrato consensi particolarmente ampi [21].
Le variazioni dei tassi di disoccupazione, pertanto, non sembrerebbero
in grado di contribuire a spiegare adeguatamente le vittorie di Trump.
Se, però, da un lato è pacifico che le questioni economiche occupino una
posizione di primo piano nelle considerazioni elettorali dei cittadini
americani, dall’altro più fonti sembrerebbero suggerire che le
percezioni dello stato dell’economia nazionale contino più delle
condizioni economiche effettive in cui versa il paese. Come dimostrato
dell’economista di Gallup Jonathan Rothwell, i sondaggi indicherebbero
che gli elettori di Trump non sono necessariamente più poveri della
media nazionale, ma il loro contesto sociale di riferimento potrebbe
averli spinti a ritenere che il paese nel complesso si stia muovendo
nella direzione sbagliata [22]. È quello che i politologi Donald Kinder e
D. Roderick Kiewiet hanno definito “voto sociotropico”: l’effetto
pervasivo delle condizioni macroeconomiche sulle scelte di voto [23]. La
campagna di Trump ha, pertanto, amplificato l’idea per cui la politica
non è tanto questione di fatti o policy, quanto di identità ed emozioni.
In
un clima politico che favoriva il cambiamento grazie ad un misto di
ansia economica e di insoddisfazione nei confronti della paralisi a
Capitol Hill, Donald Trump ha assommato in sé tutti i caratteri di un
candidato indipendente – la mancanza di una chiara ideologia, la
visibilità derivante dallo status di celebrità e la fortuna personale
indispensabile per finanziare una campagna – per prendere dapprima
d’assalto uno dei due maggiori partiti da cui poi lanciare
un’inarrestabile offensiva contro una delle principali dinastie
politiche democratiche, come spiegato da Dan Balz sulle pagine del
Washington Post [24]. Al grido di “Make America great again”, Trump ha
parlato direttamente alle componenti reazionarie del Partito
Repubblicano – non ai conservatori sociali, né ai costituzionalisti
originalisti, né ai libertari liberoscambisti, bensì ai nostalgici di un
passato immaginario scardinato da inedite gerarchie sociali, nuovi
modelli di genere ed equilibri demografici in rapida trasformazione,
determinati a ripristinare l’ordine percepito sotto minaccia.
In
una congiuntura storica segnata da profonda sfiducia nei confronti
delle istituzioni, pochi esponenti politici incarnano l’idea di establishment quanto Hillary Clinton. Il solerte gradualismo bipartisan è un ingrediente fondamentale alla base di pratiche di buona governance,
che, però, si scontra con la violenta impazienza del momento,
rendendolo ancor più un asset politicamente poco spendibile, se non
persino un elemento controproducente. D’altronde, che l’ex First Lady
fosse un candidato problematico non si scopre all’indomani del voto. Tre
decenni di servizio pubblico sono stati segnati da importanti successi
settoriali, ma anche da ripetuti scandali di diversa natura, dagli
investimenti immobiliari dai dubbi profili legali tramite la poi fallita
Whitewater Development Corporation negli anni ‘80, alla morte
dell’Ambasciatore americano J. Christopher Stevens a Benghazi nel 2012
per mano di gruppi legati ad Al-Qaeda, facilitata da misure di sicurezza
“gravemente inadeguate”, come stabilito dalle conclusioni del rapporto
stilato dall’Accountability Review Board del Dipartimento di Stato [25],
ai discorsi lautamente pagati alla multinazionale finanziaria Goldman
Sachs, alla cui segretezza dettata dal loro contenuto politicamente
compromettente è stata prestata speciale attenzione, ai conflitti di
interessi fra Dipartimento di Stato e Clinton Foundation, i cui
donatori, fra cui non mancano entità governative, avrebbero avuto
accesso privilegiato ai vertici della diplomazia americana [26], fino
alla più recente controversia delle email, sfociata in un nulla di fatto
al termine di diverse indagini, ma nondimeno solidificante l’immagine
di Clinton come politico operante al di sopra delle regole. Una vita
dedicata al bene comune comporta anche un attento scrutinio da parte
dell’opinione pubblica, che ostacola il tipico trasformismo clintoniano,
soprattutto quando WIkileaks diventa un fattore non trascurabile nella
delicata equazione politica [27].
Questo
complesso ecosistema di luci ed ombre ha avuto un peso determinante
sull’esito delle elezioni. Infatti, sebbene complicata dalla vittoria
del voto popolare, è diffusa la considerazione secondo cui non è tanto
Trump ad aver vinto, quanto Clinton ad aver perso. A fronte di un
incremento pari a 317.000 voti circa per Trump rispetto a Romney,
Clinton ha ricevuto 3,5 milioni di voti in meno rispetto ad Obama nel
2008. Come osservato da Karl Rove sul Wall Street Journal, Trump non ha
vinto perché è riuscito ad espandere considerevolmente la base del
Partito Repubblicano, bensì perché Clinton ha perso una fetta
sostanziosa della coalizione di Obama, fallendo nel tentativo di
conquistarne cuori e menti e risentendo della conseguente affluenza alle
urne più bassa di quanto anticipato [28]. Il dato aggregato si scompone
in 1,8 milioni di voti degli afroamericani in meno e 1 milione di voti
dei giovani in meno, cui vanno ulteriormente sottratti 1,8 milioni di
voti degli elettori di età compresa fra i 30 e i 44 anni, 2,6 milioni di
voti dei cattolici e quasi 4,5 milioni di voti di famiglie a basso
reddito [29]. In sintesi, il candidato democratico non è riuscito a
ricreare la coalizione progressista di giovani, minoranze e donne che ha
portato Barack Obama alla Casa Bianca – un raggruppamento eterogeneo
che parrebbe rappresentare l’elettorato specifico del Presidente
uscente, più che quello tipico del partito dell’asinello.
In
questo contesto, la grande intuizione di Donald Trump è consistita nel
cogliere la portata di un epocale cambiamento in atto, i cui esiti
rimangono ancora incerti, ma che è destinato ad esercitare un profondo
impatto sulle categorie concettuali tramite cui si sviluppa il confronto
politico. Come illustrato da Emile Simpson su Foreign Policy,
l’elezione di Trump non è un’anomalia della storia politica occidentale,
bensì il sintomo dell’emergere di un nuovo paradigma attorno cui si
articola il dibattito pubblico [30]. La dialettica fra destra e
sinistra, che ha segnato la vita politica delle liberaldemocrazie a
partire dal XIX secolo ed è stata cruciale per dirimere in maniera
compromissoria le problematiche, in particolare quelle relative a
questioni di giustizia distributiva, sollevate dai processi di
industrializzazione, sarebbe inadatta ad organizzare la realtà politica
delle società post-industriali, poste dinnanzi all’interrogativo
centrale della globalizzazione. È proprio quest’ultimo a dover assurgere
a fondamentale principio organizzativo della differenza politica. Trump
ha sfidato le convenzioni politiche esistenti, acquistando così
un’attrattiva trasversale. Si pensi, ad esempio, che, al netto di un
certo grado fisiologico di porosità delle linee di divisione partitiche
rispetto a tali questioni, oggi la sinistra tende ad essere
internazionalista su temi di natura sociale, quali multiculturalismo e
immigrazione, ma si attesta su posizioni più nazionaliste rispetto a
nodi critici come commercio e regolamentazione fiscale. L’opposto è vero
per le correnti di destra. Se studiato attraverso questo prisma, appare
evidente che Trump ha promesso cospicui investimenti infrastrutturali
per stimolare l’occupazione, come prescritto dagli economisti di
estrazione keynesiana e propugnato dagli interventisti governativi a
sinistra, ma si è espresso allo stesso tempo a favore di considerevoli
riduzioni degli oneri fiscali, come suggerito dagli economisti
riformisti liberisti riconducibili alla Scuola di Chicago e sostenuto
dai teorici del governo minimo a destra. In conclusione, al fine di
raccogliere un consenso elettorale sufficientemente vasto da potersi
porre in maniera credibile come candidato alla presidenza degli Stati
Uniti, diventa indispensabile trascendere, ricomprendere e ridefinire le
convenzionali categorie di destra e sinistra e adottare politiche
eclettiche rispetto agli standard del secolo scorso. Questo è
esattamente ciò che ha fatto Donald Trump.
by
on
*Vladislav Krassilnikov é OPI Trainee
fonte: http://www.bloglobal.net
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