Conversazione di Formiche.net con lo storico ed economista Giulio Sapelli
Appuntamento con la Storia per il Myanmar. Dopo decenni di regime
militare, le prime elezioni libere hanno decretato la vittoria della
premio Nobel per la pace birmana Aung San Suu Kyi. Per
formare un nuovo governo, la candidata ha bisogno del 67% dei voti, che a
scrutinio in corso sembrano esserci. Se il dato fosse confermato, si
avvierebbe così a diventare primo ministro.
Quali sono gli effetti principali del voto? Formiche.net l’ha chiesto Giulio Sapelli,
storico ed economista, dal 1994 ricercatore emerito presso la
Fondazione Eni Enrico Mattei e autore del pamphlet “Dove va il mondo”
(edizione Guerini).
Professore, che cosa cambia sul piano domestico e internazionale con le elezioni in Myanmar?
Sul piano interno si assiste a un’affermazione storica, che, anche se
non dovesse bastare alla formazione di un governo, riporta la luce nel
Paese dopo un lungo buio. Rappresenta un fortissimo segnale democratico.
Aung San Suu Kyi è stata prigioniera per anni e suo padre venne
eliminato proprio durante il precedente colpo di Stato militare. Mentre
il primo effetto internazionale è quello di un rafforzamento della
posizione americana in Asia. Un aspetto rilevante, dopo le tensioni
recenti con Pechino.
In che modo la vittoria di Aung San Suu Kyi rafforza Washington?
Il peso dei militari, che per decenni hanno governato il Paese e che
hanno comunque diritto al 25% dei seggi, è ancora molto rilevante.
Questi hanno sempre basato la loro politica estera nel rapporto con Cina
e India. Ora l’affermazione di un premio Nobel per la pace, che incarna
i valori americani ed è visto di buon occhio dalla Casa Bianca, può
senza dubbio bilanciare gli equilibri interni. E anche creare nuovi
rapporti tra la Birmania e i suoi vicini. Non è un caso che, dopo la
notizia, Washington abbia già annunciato manovre militari congiunte e
l’intensificazione dei rapporti economici con il Paese.
Qual è la strategia americana?
Gli Usa possono cominciare a creare una politica di contenimento di
Pechino non solo sul piano commerciale, come con Tpp, o su quello
militare, come con gli sforzi in cyber difesa o nei movimenti delle
proprie portaerei nel Mar Cinese Meridionale. Ma anche sul piano
politico, ampliando la loro zona d’influenza grazie al sostegno a
leader vicini all’Occidente. Per Washington sarà anche un modo per
riunire l’Occidente e rendere sordi alle sirene cinesi molti Stati
amici. Di quest’ultimo fa parta anche la volontà di porre un freno alle
relazioni sempre più strette tra Londra e Pechino, che preoccupano la
Casa Bianca. E’ già accaduto in passato con Suez, ritorna oggi.
Come si porrà la Cina?
Non in modo aggressivo. Siamo di fronte a uno scenario molto diverso
rispetto a quello che si è palesato nell’ex spazio sovietico. Paesi come
l’Ucraina avevano con Mosca un rapporto intenso, che poi si è
deteriorato. La Cina ha già rapporti tesi con tutti i suoi vicini, ad
eccezione forse del Laos, di cui si sa poco e che comunque non ha
rilevanza strategica. Barack Obama sta adottando i capisaldi di Theodore
Roosevelt, che considerava il Pacifico il cuore strategico della
politica americana. Questo approccio, per il momento, ha il ha pregio di
non sollevare braci, ma di isolare Pechino e di creare élite nazionali
fedeli agli Usa. Anche perché la Cina ha altri problemi a cui pensare.
Quali problemi ha Pechino?
La Cina ha enormi difficoltà interne sul piano economico e nel
rapporto con i nuovi ricchi. E le ultime notizie ci dicono che anche
alcune eccellenze decantate da Pechino, come i big tecnologici, sono in
realtà giganti dai piedi d’argilla, che hanno bisogno di know how
straniero per stare in business. La Repubblica Popolare deve sciogliere
questi nodi, prima di pensare ad altro o rischia l’implosione. Certo, Xi
Jinping non rinuncia a qualche colpo scenografico, di tanto in tanto.
Ma se gli Usa sapranno dosare bastone e carota, senza provocare
inutilmente, la Cina sarà nell’angolo ancora per molto.
Michele Pierri - 9 novembre 2015
fonte: http://formiche.net
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