Invia uomini, armi, stringe
alleanze, crea zone sicure. Mentre Putin lotta per la sopravvivenza di
Damasco, Obama dice «mai con Assad» e gioca allo scontro tra sciiti e
sunniti
Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Perché
la Russia ha deciso un’escalation della sua cooperazione e presenza
militare in Siria a fianco del governo di Bashar el Assad? Che incidenza
avrà l’intervento di Mosca sull’evoluzione e sull’esito finale del
conflitto? Che effetto avrà sulle fortune dell’Isis e per ricaduta sul
futuro di tutti coloro, stati e popoli, che si trovano nel raggio
d’azione del califfato?
La risposta alla prima domanda deve distinguere fra le ragioni
immediate e a breve termine e quelle strategiche, di lungo periodo,
molto più interessanti da mettere a fuoco. Il motivo immediato del
rafforzamento della presenza militare russa, che è cominciato col
trasferimento di una trentina di aerei ed elicotteri da combattimento
presso l’aeroporto internazionale di Latakia e che in venti giorni di
operazioni ininterrotte ha già portato sul posto blindati, carri armati e
circa 2 mila uomini, è la necessità di arrestare la ritirata delle
forze lealiste, che da sei mesi perdono terreno, e impedire un eventuale
tracollo del regime siriano. Quest’ultimo evento comporterebbe una
serie di conseguenze per la Russia che Putin intende a tutti i costi
evitare: la perdita delle basi militari nel paese (la base navale di
Tartus, unico porto in cui possono attraccare le navi militari russe nel
Mediterraneo, e il centro ascolto di Latakia); la vittoria da parte di
fazioni armate come l’Isis e Jabhat al Nusra (la consociata siriana di
Al Qaeda) nelle quali combattono molti estremisti islamici di passaporto
russo o di paesi ex sovietici del Caucaso (ceceni, ingusceni,
daghestani e tatari) i quali tornerebbero in forze e con abbondanza di
mezzi militari e finanziari nelle regioni di provenienza per scatenarvi
un jihad anti-russo; l’espansione dell’area di influenza di un paese
della Nato come la Turchia e di un paese alleato strategico degli Stati
Uniti come l’Arabia Saudita a spese del sistema di alleanze russo. Dopo
l’Ucraina che ha svoltato a ovest con la deposizione del presidente
Yanukovich nel febbraio 2014, la Siria sarebbe il secondo paese nel giro
di un anno e mezzo che scivola dall’area di influenza russa a quella
americana. Le
probabilità di un collasso improvviso del regime di Bashar el Assad
sono basse, quelle di una rapida contrazione del territorio sotto il suo
controllo sono decisamente più alte, e quelle di una vera e propria
sconfitta per l’azione a tenaglia dei ribelli islamisti guidati dai
qaedisti di Jabhat al Nusra (in coordinamento con la quale combattono
anche le forze del filo-occidentale Libero Esercito siriano, è il
segreto di Pulcinella) e degli uomini dell’Isis, è molto probabile
nell’arco di uno-due anni in base alle inerzie attuali. In un discorso
del 26 luglio scorso il presidente Assad ha ammesso che la politica
della presenza dell’esercito in tutti gli angoli nevralgici del
territorio è ormai impossibile da mantenere a causa della “mancanza di
risorse umane”, e che dunque è necessario ripiegare su un perimetro più
ridotto. Dopo quella data il governo ha ripreso il controllo di una
località ai confini col Libano, grazie all’intervento degli hezbollah
libanesi e un’opera di mediazione da parte delle Nazioni Unite, ma ha
perso altre posizioni nell’est e nel nord del paese.
Questi sviluppi hanno reso sempre più probabile la creazione di una
“zona cuscinetto” turco-americana nel nord, lungo il confine con la
Turchia occupata da militari di Ankara e forse anche, in numero ridotto,
americani, oltreché interdetta al volo dei velivoli militari siriani.
Presentata come una zona di sicurezza per i civili in fuga dalle
brutalità dell’Isis, l’area servirebbe in realtà soprattutto a rifornire
i ribelli anti-Assad non affiliati all’Isis e a preparare un intervento
militare turco-americano-ribelle per “salvare” la Siria da una
conquista del potere da parte dell’Isis al momento del collasso finale
del regime di Assad. Putin ha anticipato la mossa, dando il via alla
creazione di una speculare zona di sicurezza che deve garantire la
sopravvivenza in condizioni non troppo precarie del governo di Damasco.
A chi giova lo stato di tensione
Le prospettive strategiche della mossa di Putin sono molto più interessanti da analizzare. La prima cosa che balza agli occhi è la ripresa dell’iniziativa strategica da parte russa, il ritorno a una politica offensiva e propositiva dopo che Mosca era stata costretta sulla difensiva e a costose politiche reattive nel contesto della crisi ucraina. Una lettura convenzionale vede nell’annessione della Crimea e nel sostegno militare ai ribelli del Donbass iniziative espansionistiche del potere russo, e nell’intervento militare in Siria un’azione dettata da interessi particolaristici, ma anche da un senso di responsabilità verso la comunità internazionale e dalla volontà di collaborare al ritorno della pace e della sicurezza in un Medio Oriente liberato dall’Isis, obiettivi che sono nell’interesse di tutti, anche dei rivali strategici di Mosca.
Le prospettive strategiche della mossa di Putin sono molto più interessanti da analizzare. La prima cosa che balza agli occhi è la ripresa dell’iniziativa strategica da parte russa, il ritorno a una politica offensiva e propositiva dopo che Mosca era stata costretta sulla difensiva e a costose politiche reattive nel contesto della crisi ucraina. Una lettura convenzionale vede nell’annessione della Crimea e nel sostegno militare ai ribelli del Donbass iniziative espansionistiche del potere russo, e nell’intervento militare in Siria un’azione dettata da interessi particolaristici, ma anche da un senso di responsabilità verso la comunità internazionale e dalla volontà di collaborare al ritorno della pace e della sicurezza in un Medio Oriente liberato dall’Isis, obiettivi che sono nell’interesse di tutti, anche dei rivali strategici di Mosca.
La lettura geopolitica degli avvenimenti è esattamente opposta: in
Ucraina la Russia ha reagito in maniera azzardata e senza calcolare bene
le conseguenze alla perdita di profondità strategica determinata
dall’improvviso passaggio dell’Ucraina dalla sfera di influenza russa a
quella americana. Non è stata aggressiva, ma violentemente reattiva. In
Siria la Russia sfrutta la questione Isis per riproporsi come attrice
protagonista in Medio Oriente, per tornare a svolgere un ruolo negli
equilibri mondiali, per attuare una politica che proietta la sua potenza
sulla regione come ai tempi dell’Unione Sovietica. E lo fa
approfittando della debolezza della posizione americana nella regione.
Anche in questo caso, esiste una lettura convenzionale dei punti deboli e
degli errori degli Stati Uniti e una lettura geopolitica che è più
profonda. La lettura convenzionale sottolinea che l’America è
intervenuta in armi quando non avrebbe dovuto farlo (guerra contro
l’Iraq di Saddam Hussein) e non è intervenuta quando avrebbe dovuto
farlo (i primi due anni dell’insurrezione in Siria); che non ha saputo
assistere la transizione politica dei paesi dove la Primavera araba ha
abbattuto i governi vigenti, consegnando Libia e Yemen alla guerra
civile e l’Egitto di nuovo ai militari; che combatte con poca
convinzione l’Isis per non rafforzare i governi sciiti filo-iraniani
(Damasco e Baghdad) messi alle corde dagli uomini di al-Baghdadi; che è
alleata con forze reazionarie e ambigue come l’Arabia Saudita e la
Turchia; che non è capace di creare una forza ribelle moderata anti-Isis
e anti-regime in Siria.
Ma la lettura geopolitica è ben diversa. Gli Stati Uniti sono la
potenza egemone mondiale, e il loro interesse strategico è sempre quello
di evitare l’ascesa di potenze egemoni regionali. Il collasso
istituzionale, l’anarchia diffusa e le fratture settarie dell’Iraq
post-Saddam Hussein rappresentano un fallimento dell’azione americana se
la chiave di lettura è l’idealismo neo-con che attraverso l’occupazione
militare dell’Iraq intendeva ridisegnare le linee di sviluppo del Medio
Oriente sulla base dei valori democratici e liberali americani come era
stato fatto col Giappone e con la Germania dopo la Seconda Guerra
mondiale; ma rappresentano un indubitabile successo se la chiave di
lettura è la realpolitik egemonica: l’Iraq non aspirerà mai più
all’egemonia nel Medio Oriente, una minaccia per gli interessi americani
è definitivamente sventata. Dunque, l’interesse degli Stati Uniti in
Medio Oriente è il prevalere di uno stato di tensione e di rivalità fra
più attori che renda impossibile l’emergere di una potenza dominante. A
causa di ciò, anche la politica di “degradazione e ultimamente
distruzione” dell’Isis dichiarata da Obama è inevitabilmente ambigua.
L’Isis è una forza rivoluzionaria che utilizza il terrore per creare
un’entità politica totalitaria che aspira all’egemonia regionale e che
minaccia alcuni alleati locali degli Stati Uniti; però è anche un
fattore di instabilità e di divisione fra i paesi del Medio Oriente e
una spina nel fianco dell’Iran e dei suoi alleati. Finché non diventa
troppo forte, è obiettivamente funzionale alla politica di “divide et
impera” americana. Non c’è bisogno di teorie del complotto per ammettere
questa realtà.
Scrive il politologo francese Henri Hude: «Gli Stati Uniti conducono
una politica egemonica camuffata da politica liberale universalista. Il
gioco sul “grande scacchiere” consiste nel mantenere il loro potere
evitando l’emergere di un rivale globale. A questo scopo, l’islamismo è
l’alleato a rovescio tanto indispensabile agli Stati Uniti quanto lo
erano i turchi per il re di Francia contro l’imperatore d’Asburgo.
Questo principio permette di comprendere come gli Stati Uniti mantengano
una relazione ambigua con gli islamisti, che ostentano odio per il
“Grande Satana”, ma nuocciono esclusivamente agli avversari americani.
Il mondo musulmano, lasciato a se stesso, forse non chiederebbe altro
che di modernizzarsi e svilupparsi. Ma in questo caso evolverebbe nel
senso di paesi indipendenti che penserebbero ai loro interessi e non a
fare quelli di Washington. Questi barbuti barbari, impedendo a qualunque
regime serio di stabilirsi in queste regioni vitali, garantiscono la
continuazione del gioco».
Contro i sunniti filo-americani
Sotto l’amministrazione Obama il gioco si è fatto spudorato, e i tentativi di occultarlo grotteschi. Vedi la notizia, da nessuno al mondo presa per buona, che la Casa Bianca e il Congresso degli Stati Uniti sarebbero stati ingannati da un pugno di alti ufficiali che per quasi un anno avrebbero modificato i rapporti per far credere che l’America stava vincendo la guerra contro l’Isis e nascondere la modestia dei risultati reali. Non è a causa di un complotto dei generali che Washington combatte l’Isis con un braccio solo… Ma al di là di questo, la strategia dell’instabilità permanente e dell’ambiguità nei confronti dell’Isis ha due ricadute molto problematiche da gestire per gli americani – ed è su quelle che Putin fa leva per mettere in difficoltà gli Stati Uniti e per rilanciare il ruolo e l’influenza della Russia nella regione. La prima è che con la sua politica dell’equilibrio di potenza al ribasso l’America scontenta non soltanto i nemici, com’è normale, ma i loro stessi alleati: Arabia Saudita e Turchia in prima fila. La seconda è che gli Stati Uniti non possono evitare di combattere l’Isis, ma allo stesso tempo non possono evitare di non combatterla fino in fondo.
Sotto l’amministrazione Obama il gioco si è fatto spudorato, e i tentativi di occultarlo grotteschi. Vedi la notizia, da nessuno al mondo presa per buona, che la Casa Bianca e il Congresso degli Stati Uniti sarebbero stati ingannati da un pugno di alti ufficiali che per quasi un anno avrebbero modificato i rapporti per far credere che l’America stava vincendo la guerra contro l’Isis e nascondere la modestia dei risultati reali. Non è a causa di un complotto dei generali che Washington combatte l’Isis con un braccio solo… Ma al di là di questo, la strategia dell’instabilità permanente e dell’ambiguità nei confronti dell’Isis ha due ricadute molto problematiche da gestire per gli americani – ed è su quelle che Putin fa leva per mettere in difficoltà gli Stati Uniti e per rilanciare il ruolo e l’influenza della Russia nella regione. La prima è che con la sua politica dell’equilibrio di potenza al ribasso l’America scontenta non soltanto i nemici, com’è normale, ma i loro stessi alleati: Arabia Saudita e Turchia in prima fila. La seconda è che gli Stati Uniti non possono evitare di combattere l’Isis, ma allo stesso tempo non possono evitare di non combatterla fino in fondo.
La Russia ha individuato queste due crepe e agisce per allargarle.
Diversamente da Washington, Mosca sembra proporre ai paesi della regione
di mettere la parola fine all’instabilità e di concludere una nuova
Yalta di cui essa stessa sarà parte ma anche garante. I colloqui del
ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov con l’Arabia Saudita sul
futuro della Siria e la creazione di un centro di coordinamento a
Baghdad per la lotta contro l’Isis che riunisce ufficiali delle forze
armate russe, irachene, iraniane e siriane sono segnali chiari della
direzione della politica russa. Mosca sposa la causa dell’asse sciita
contro l’ampio ma poco coeso fronte dei paesi sunniti filo-americani;
non però in un’ottica di scontro permanente, bensì di spartizione delle
sfere d’influenza come avveniva in Europa con la Cortina di ferro ai
tempi della Guerra fredda, e come Putin avrebbe voluto ripetere in una
nuova forma con la creazione dell’Unione Euroasiatica, alternativa ma
nello stesso tempo partner dell’Unione Europea. In secondo luogo, la
Russia può permettersi di combattere l’Isis e il resto del radicalismo
jihadista senza riserve mentali, perché i suoi interessi coincidono con
quelli di tutti i paesi della regione, sia quelli sciiti di cui i
wahabiti dell’Isis sono nemici teologici, sia quelli sunniti nei quali
l’Isis vorrebbe salire al potere deponendo gli attuali governanti, come
nel caso di Egitto e Arabia Saudita. Dunque sia sunniti che sciiti hanno
ragione di fidarsi della Russia più che degli Stati Uniti sotto questo
aspetto.
In linea di principio, dunque, il ritorno della Russia in Medio
Oriente potrebbe inaugurare un’epoca di maggiore stabilità e di
cessazione dei conflitti, con ricadute positive per le popolazioni
civili che non sarebbero più costrette a fuggire all’estero per
sopravvivere. Molto però dipenderà da come gli altri attori della
partita – paesi arabi, Stati Uniti ed Europa – risponderanno alla nuova
situazione.
Foto Ansa
ottobre 3, 2015 -
Rodolfo Casadei
fonte: http://www.tempi.it
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