«Il 28 luglio 2015, la Commissione parlamentare per i diritti e doveri relativi a Internet ha adottato la Dichiarazione dei diritti in Internet.» Così viene annunciata, in data 29/07, nel sito
che raccoglie i dati editoriali italiani mensili, la creazione di una
così definita «Magna Charta dei diritti in Internet» (disponibile qui).
Mentre tutta Italia era in vacanza, il Parlamento ha legiferato,
creando un documento la cui funzione lascia il tempo che trova e di cui
non si sentiva francamente la necessità. Non per benaltrismo o critica
aprioristica, ma perché contravviene all’essenza di ciò che è veramente
il World Wide Web, cioè l’espressione in atto della Libertà. Anziché,
dunque, sperimentare un mondo in cui la responsabilità sia il caposaldo
per l’esistenza e per la conservazione della Libertà stessa, creando una
ben più utile e doverosa «Carta dei doveri in Internet» s’è deciso
ancor una volta di spalancare le porte al concetto di «diritto»
— attualmente pericoloso, poiché impiega poco per diventare «acquisito» e
quindi intoccabile.
Per dovere di cronaca, nella Carta è
riservato dello spazio anche ai doveri: il primo punto dell’articolo
dodici, occupante ben tre righe. Non c’è da stupirsi: il Preambolo
(discutibile anche la scelta lessicale) della Carta esplicita
chiaramente l’intenzione di ricalcare a livello sia
formale sia contenutistico la Costituzione, «per dare fondamento […] a principi e diritti nella
dimensione sovranazionale». Muovendoci dai massimi ai minimi sistemi,
ed entrando dunque nel merito, la Carta si suddivide in 14 Articoli,
aventi ciascuno da uno a sette sotto-punti. Gli articoli sono suddivisi
per “aree semantiche”, col mondo virtuale come minimo comun
denominatore. Il tutto è preceduto, come accennato, da un Preambolo
avente lo scopo di spiegare l’origine della necessità della Carta e gli
obiettivi della stessa.
Le critiche specifiche verso gli
articoli sono legate a quei macro-temi (scuola, giustizia) su cui tanto
sarebbe necessario legiferare e riformare. Se il sottopunto 4
dell’articolo 3 (Diritto alla conoscenza e all’educazione in rete)
invita a promuovere, «in particolare attraverso il sistema
dell’istruzione e della formazione, l’educazione all’uso consapevole
d’Internet», è legittimo chiedersi quale sia il livello della struttura
informatica all’interno del sistema scolastico italiano. Promuovere un
«uso consapevole d’Internet» — il cui significato è quantomeno ambiguo —
senza un accesso al web è impresa ardua. Allo stesso modo è legittimo
chiedersi quale sia il livello di ricezione della banda larga e se in
qualsiasi parte d’Italia la connessione sia veloce, sicura e affidabile.
Ancor una volta, è impresa ardua generare consapevolezza critica
d’Internet senza che a questo si possa accedere — il che, peraltro,
contravviene a un principio della Carta stessa.
Muovendoci dall’area scolastica all’area
giuridica, lascia parecchi dubbi il sottopunto 6 dell’articolo 5
(Tutela dei dati personali): «Il consenso non può costituire una base
legale per il trattamento quando vi sia un significativo squilibrio di
potere tra la persona interessata e il soggetto che effettua il
trattamento». Posto che sia necessario chiarire la natura di questo
«potere» di cui si scrive, la perplessità nasce dalla strizzata d’occhio
al fruitore d’Internet: i rapporti di qualsivoglia tipo di potere
(economico, giudiziario, politico) di un soggetto che chiede una
sottoscrizione per un consenso al trattamento dei dati personali
saranno, nella maggior parte dei casi, in posizione di vantaggio
rispetto a un singolo consumatore. Ne consegue un numero elevatissimo di
casi in cui il fornitore del servizio rimane con le mani legate.
Senza muoverci dall’area giuridica, fa
da corollario l’articolo 8 (Trattamenti automatizzati): «Nessun atto,
provvedimento giudiziario o amministrativo, decisione comunque destinata
a incidere in maniera significativa nella sfera delle persone possono
essere fondati unicamente su un trattamento automatizzato di dati
personali volto a definire il profilo o la personalità
dell’interessato». Ancor una volta un articolo attaccabile e ambiguo,
che non tiene conto che, per un trattamento dati, è in qualsiasi caso
necessario un clic di consenso da parte del fruitore.
Quel che salta all’occhio rimane,
comunque, la brevità del documento, fortemente in contrasto con la
vastità d’Internet e le sue potenzialità. La causa di questa grave falla
è probabilmente l’insufficiente conoscenza del web e un approccio
scolasticamente e rigidamente settoriale, una mancata capacità di
visione dell’insieme Internet, interpretato e descritto come un archivio
di 14 cartelle. Un po’ poco. E se tutta questa critica si sposa con
quella dell’articolo «Perché la Carta su Internet a me sembra solo fuffa»
di Massimo Melica, avvocato specializzato in diritto applicato alle
nuove tecnologie, si ha l’impressione che gli autori Rodotà e Boldrini
abbiano toppato.
Nella speranza che la proposta d’usare
la Carta come base per un futuro «Internet Bill of Rights» sia
accantonata, o che almeno venga di gran lunga migliorata e completata in
tutti gli aspetti di cui l’universo virtuale si compone, prendiamo atto
di un ennesimo passo falso italiano, consolandoci col suo basso livello
di nocività.
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