Il paese ai primi posti per il numero di pene
capitali imposte, processi sommari e limitazione della libertà
d'espressione trova un compromesso con le Nazioni unite
Faisal bin Hassan Trad e Michael Møller, direttore generale della sede di Ginevra delle Nazioni unite
Lo scorso giugno l’ambasciatore saudita Faisal bin Hassan Trad è diventato presidente del Gruppo consultivo del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (Unhrc).
Diverse organizzazioni non governative hanno definito “scandalosa” la
scelta di Trad e ricordano come l’Arabia Saudita sia tra i paesi con il
più alto numero di violazioni dei diritti umani accertate da organi
internazionali indipendenti, tra cui l’Onu stesso. Il panel che
l’ambasciatore andrà a presiedere non è di secondaria importanza, anzi, è
“la punta di diamante” del Consiglio per i diritti umani del Palazzo di
vetro, come spesso lo definiscono gli stessi funzionari. Cinque soli
membri compongono il gruppo che nomina gli esperti che le Nazioni Unite
inviano nei vari paesi del mondo dove l’organizzazione internazionale è
incaricata di sorvegliare il rispetto dei diritti umani. L’elezione è
avvenuta lo scorso giugno ma l’imbarazzo era tale che ha indotto l’Onu a
evitare di pubblicizzare troppo la nomina. UN Watch, una ong
indipendente, ha però individuato un report dello scorso 17 settembre
in cui si attesta la nomina alla presidenza dell’ambasciatore saudita,
già inviato del regno all’Unhrc, e si dispone che il gruppo proceda alle
prime nomine di esperti nel corso della trentesima sessione del
Consiglio.
ARTICOLI CORRELATI Il capo dei diritti umani dell’Onu va in Arabia Saudita a lezione di libertà La strage alla Mecca mostra che l’Arabia Saudita è ancora uguale a se stessa L'Onu e i suoi fallimentari 70 anni (Auguri) Secondo Hillel Neuer, direttore esecutivo di UN Watch, l’elezione di Trad alla presidenza altro non è che il frutto di un compromesso politico. L’Arabia Saudita aveva proprosto la propria candidatura alla presidenza del Consiglio dei diritti umani, una posizione considerata troppo in vista per un paese che, secondo le ultime statistiche rilasciate da Amnesty International e dall’agenzia di stampa AFP, solo nell’ultimo anno ha compiuto un’esecuzione capitale ogni due giorni. I rappresentanti del Consiglio basato a Ginevra hanno raggiunto allora un accordo, ipotizza Neuer, affinché Riad ottenesse almeno la presidenza del comitato consultivo in cambio del ritito della propria candidatura a quella del Consiglio. L’ong chiede ora una reazione dei vertici della diplomazia mondiale e ricorda il silenzio-assenso con cui sia gli Stati Uniti sia l’Unione europea avevano accolto l’ingresso dell’Arabia Saudita nel Consiglio: “Avere Riad come membro dell’Unhrc è già un male di per sé”, ha detto Neuer, “ma lasciargli presiedere un organo chiave delle Nazioni unite è come versare del sale sulle ferite dei dissidenti rinchiusi nelle prigioni saudite, come nel caso di Raif Badawi”. Raif è un blogger saudita incarcerato per aver protestato in favore della libertà di espressione. Dopo essere stato torturato, Badawi ha ammesso di aver partecipato alle manifestazioni. Secondo la legge islamica della sharia è stato condannato a mille frustrate.
Quello di Badawi è solo uno dei tanti casi di violazione dei diritti
umani perpetrati dall’Arabia Saudita, un regno chiave per l’occidente
sia per la lotta all’integralismo e allo Stato islamico, sia per i suoi
giacimenti petroliferi. E’ di lunedì la notizia della condanna a morte
tramite decapitazione e successiva crocifissione del ventunenne Ali
Mohammed al Nimr, un blogger sciita. Il giovane, arrestato nel 2012
quando aveva appena 17 anni, è stato giudicato colpevole di aver
partecipato a una manifestazione antigovernativa e di detenere armi da
fuoco. Accuse estorte al termine di un processo che non garantiva i
diritti minimi dell’imputato che è stato anche sottoposto a tortura,
secondo quanto appurato dalle ong che si sono interessate al caso. Ali è
figlio di un attivista politico e nipote di Sheikh Nimr Baqir al Nimra,
un membro del clero sciita, anche lui condannato a morte nel 2014 per
aver assunto la guida del movimento di protesta dell’est del paese, dove
la maggioranza sciita si oppone alla politica discriminatoria della
casa regnante sunnita. AFP e Amnesty dicono che le condanne alla pena
capitale nel paese aumentano ininterrottamente dall’agosto dello scorso
anno e hanno raggiunto livelli senza precedenti nel 2015 con la nomina
del nuovo re Salman. Le decapitazioni in programma sono diventate
talmente numerose da rendere insufficienti i boia in servizio. Così, lo
scorso maggio, il servizio civile saudita ha pubblicato un bando sul
proprio sito per reclutarne altri otto chiedendo la disponibilità a
ricoprire la carica di “funzionari religiosi”.
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