di Alberto Gasparetto
Rivalità sul piano ideologico-politico
e cooperazione nel settore energetico sono stati due fra i principali
tratti caratterizzanti delle relazioni fra Iran e Turchia, almeno
nell’ultimo trentennio. Ad un Iran proteso verso quelle aree del Medio
Oriente abitate per lo più da popolazioni aderenti alla variante sciita
della religione islamica si è contrapposta una Turchia più incline a
mantenere l’alleanza storica con la NATO senza per questo recidere i
rapporti con i gruppi sunniti e le minoranze turcofone della regione.
Con l’avvento al potere ad Ankara del gruppo politico filo-islamico
dell’AK Parti agli inizi dello scorso decennio, una visione geopolitica
neo-ottomana (che puntava a stringere maggiormente i legami con il mondo
islamico) ha informato la nuova strategia turca in Medio Oriente,
inasprendo, sempre dal punto di vista ideologico-politico, quelle differenze con Teheran tuttora presenti. Il teatro iracheno è stato l’emblema della competizione geopolitica fra le due potenze regionali fin dalla guerra del 2003.
Nonostante le asperità strutturali, la storica intesa sul nucleare iraniano nel luglio di quest’anno
è stata salutata con estremo favore dalle autorità turche che, come
emerge dalle dichiarazioni ufficiali, hanno sottolineato i benefici che
un tale accordo può generare nelle relazioni bilaterali con lo Stato
persiano [1]. Effettivamente, dal punto di vista economico, con il
progressivo alleggerimento delle sanzioni, ci si attende che il livello
di interscambio commerciale, che tuttora si assesta a 10 miliardi di
dollari, non faccia altro che aumentare fino a triplicare [2]. Ma preme
osservare che gli aspetti puramente economici della questione non sono
sufficienti a confermare le percezioni che emergono dalle dichiarazioni
ufficiali dei decisori turchi. Elementi di preoccupazione riguardano il
nuovo status politico che l’Iran potrebbe conseguire nella
regione. Se da un lato è utile notare che un siffatto accordo non
modifica improvvisamente i rapporti fra Iran e mondo occidentale (Stati
uniti in primis), dall’altro va registrato che diversi Paesi
arabi (Arabia Saudita in testa) che nutrono svariati interessi nella
regione hanno manifestato una certa apprensione. In altre parole, se il
raggiungimento di questa importante intesa non implica che si sia già
creato automaticamente un vero e proprio meccanismo di fiducia fra
Teheran e Washington – anzi, occorre che nel tempo l’Iran dimostri di
voler ottemperare a tutti gli obblighi contratti affinché si imponga un
meccanismo di confidence-building che preluda ad una
istituzionalizzazione dei rapporti – è lecito che i Paesi arabi così
come la Turchia esibiscano un atteggiamento di inquietudine sul nuovo
ruolo geopolitico che l’Iran può assumere nelle dispute regionali.
Non
si può negare che, in effetti, l’intesa sul nucleare, dopo anni di
stallo in cui da più parti l’Iran era stato descritto come la principale
minaccia agli equilibri e alla sicurezza in Medio Oriente, rappresenti
il viatico migliore di cui Teheran si può servire per uscire
dall’isolamento internazionale che soffoca le possibilità di crescita
della sua economia e per assumere uno status di potenza
legittimata ad avere voce in capitolo sulle questioni più rilevanti
nella regione; una situazione che può minare non solo la già precaria
posizione di Israele, ma anche quella dell’Arabia Saudita e, in special
modo, della Turchia. E’ un’ipotesi fortemente corroborata dall’escalation
degli eventi degli ultimi mesi quella secondo cui il Gruppo dei 5+1 (i
membri con potere di veto al Consiglio di Sicurezza, più la Germania),
ed in particolar modo gli Stati Uniti, abbiano valutato come il
raggiungimento dell’accordo sul nucleare fosse ormai una necessità
impellente di fronte all’offensiva dello Stato Islamico: si era giunti
ad un punto tale per cui non si poteva più tenere lontano dalla
cooperazione su questo fronte un attore importante come l’Iran che
conserva, peraltro, una forte influenza sui governi e, di riflesso,
sulle politiche estere dei due principali Paesi vittime delle conquiste
del Califfato, l’Iraq e la Siria.
In
realtà, se conviene considerare l’avanzata dell’ISIS un fattore
rilevante che ha condotto le potenze mondiali a trovare la formula per
un accordo finale sul nucleare, giova precisare che proprio lo Stato
Islamico rappresenta una questione su cui i punti di vista dell’Iran e
della Turchia divergono fortemente. Com’è noto, mentre l’Iran spalleggia
il governo di Damasco, a cui lo lega un’alleanza strategica di lunga
data [3], la Turchia ha cominciato a sostenere i diversi gruppi di
opposizione al regime già qualche mese dopo l’avvio della repressione da
parte di Assad nel 2011, ospitandone alcuni (ad esempio l’Esercito
libero siriano e il Consiglio nazionale siriano) anche sul proprio suolo
e foraggiandone l’attività. Recentemente, mentre il Primo Ministro
turco Ahmet Davutoğlu ha dichiarato che Ankara auspica la rimozione di
Assad dal potere, il Presidente iraniano Rouhani ha invece ribadito che
l’eventuale indebolimento di Assad sarebbe un errore gravissimo [4]. Le
divergenze sulla questione siriana rispecchiano in maniera limpida la
difformità di vedute fra gli Stati Uniti che finora hanno tentennato nel
prendere una posizione netta sulla questione e la Russia, che
ufficialmente sostiene il regime di Damasco per via dei forti interessi
strategici e militari che nutre nel Paese.
E’
facile ipotizzare, pertanto, come gli sviluppi della questione siriana
rappresentino la ragione di fondo per la quale Ankara teme, nell’ottica
della propria posizione regionale, le conseguenze geopolitiche
ingenerate dall’accordo sul nucleare [5]. Un accordo che aumenta la
frustrazione turca sia perché un’intesa analoga, raggiunta con la
partecipazione anche del Brasile nel maggio 2010, era stata rigettata
dagli Stati Uniti, venendo così accantonata, sia in ragione della
percezione di un ormai incombente isolamento (la Turchia è di fatto
stata messa in secondo piano nelle trattative che hanno condotto
all’accordo finale di luglio). Inoltre, una sorta di alleanza tattica
ufficialmente in funzione anti-ISIS e pro-Assad è stata messa in piedi
negli ultimi giorni da Putin che, col sostegno dell’Iran (con cui
esistono comprovati buoni rapporti a tutti i livelli) e degli Hezbollah
libanesi mira a proteggere i propri interessi in Siria e sul Mar Nero. La Turchia in questi anni è sempre stata restia ad intervenire contro Assad,
poiché nel magma della guerra civile era fondamentale evitare di
sobillare la perdurante resistenza dell’indipendentismo curdo e delle
sue appendici armate [6]. Proprio allo scopo di contrastare il terrorismo curdo del PKK,
la Turchia, con gli Accordi di Adana del 1998, aveva avviato una forte
relazione con la Siria che ha portato i due Paesi ad un alto livello di
integrazione e di intesa politica ed economica fino alla crisi del 2011.
Dopo
anni di isolamento internazionale, l’avanzata dell’ISIS e le
conseguenze della crisi siriana hanno di fatto rovesciato i fattori
dell’equazione geopolitica mediorientale. L’Iran sembra capitalizzare al
massimo gli effetti dell’accordo sul nucleare, mentre la Turchia ormai
da tempo sperimenta il visibile fallimento del principio che aveva
informato la sua politica estera durante quasi tutto lo scorso decennio,
la zero-problems foreign policy with neighbors formulata da
Davutoğlu, allora Ministro degli Esteri. Con la decisione di prendere
l’iniziativa militare in Siria, la Russia si candida a ribadire la
propria influenza in Medio Oriente, lanciando agli Stati Uniti la
propria sfida a livello globale. Inoltre, Mosca lancia il proprio
segnale di avvertimento proprio a Washington: la necessaria cooperazione
russa nel teatro siriano impedisce di fatto agli americani di limitare
efficacemente la politica russa in Ucraina [7].
A
livello regionale, mentre è lecito attendersi che Teheran e Ankara
continueranno a nutrire buone relazioni economiche, a livello politico
ingaggeranno una notevole competizione tale per cui l’Iran non potrà che
beneficiare della situazione in fieri per riemergere quale
potenza regionale, mentre la Turchia di Erdoğan dovrà seriamente
rivedere la propria linea di politica estera se non vuole sperperare
quel minimo di consenso di cui ancora può godere nel mondo islamico dopo
un decennio di fulgore sotto la guida dell’AK Parti.
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fonte: http://www.bloglobal.net
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