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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

05/10/15

Arabia Saudita e Israele: tra interesse strategico e identità


Mentre l’attenzione mondiale è concentrata sull’accordo nucleare iraniano, Riyadh e Tel Aviv discutono (in segreto) di una comune strategia contro Teheran e svelano un inedito scenario nel Medio Oriente. I due Paesi sono davvero pronti a collaborare mettendo da parte i loro decennali contrasti?

LE ORIGINI DELL’OSTILITÀ – L’assenza di relazioni diplomatiche fra Arabia Saudita e Israele ha ragioni storiche profonde e durature. Già nel 1945 il Re Ibn Saud esprimeva la propria contrarietà alla fondazione di uno Stato ebraico in Palestina, avvertendo F. D. Roosevelt che ciò avrebbe scatenato decenni di scontri nel Medio Oriente e raffreddato l’amicizia fra Riyadh e Washington. La componente ideologico-simbolica, evidentemente sottovalutata dai potenti dell’epoca, gioca un ruolo centrale nella comprensione dell’avversione reciproca. Il Regno, infatti, è il leader spirituale della comunità musulmana (sunnita) e i suoi sovrani sono i Custodi dei Luoghi Sacri dell’Islam, titolo che infonde autorevolezza alla famiglia regnante e le permette di influenzare la politica degli alleati regionali. Israele, perciò, è visto come usurpatore di Gerusalemme, terza città santa per i musulmani, e oppressore dei palestinesi. Inoltre ciascuna compagine ritiene di essere l’esclusivo guardiano della stabilità dell’area mediorientale. Durante la Guerra Fredda Washington faceva leva sugli interessi sauditi e israeliani per contenere l’espansionismo sovietico e riempire il vuoto lasciato dalla rottura iraniana, creando relazioni privilegiate con i due Paesi, che diventano i principali alleati della politica estera statunitense nella regione. Tale retaggio riemerge soprattutto con la Guerra del Libano (2006) e le Primavere arabe (2011), quando Riyadh e Tel Aviv si contendono la “regia” delle crisi mediorientali al fine di garantire esiti favorevoli per le proprie priorità.


Fig. 1 – Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il segretario di Stato USA John Kerry durante un incontro tenutosi a Roma, 2013 


LA (RITROVATA) CONVERGENZA STRATEGICA – Le priorità saudite riguardano soprattutto l’ampliamento della propria sfera d’influenza regionale e la costruzione di una rete di alleanze che tuteli la sicurezza dei confini del Regno (Yemen) e la sua egemonia simbolica sulla comunità musulmana (Iran e Qatar). Tradizionalmente gli Al Saud sono impegnati a creare un Medio Oriente privo di armi atomiche, perché preferiscono ricorrere alla diplomazia e intervenire solo in caso di minaccia concreta alla stabilità interna e agli equilibri loro favorevoli. Israele, da parte sua, mira a sopravvivere e imporsi in una regione ostile, dalla quale sono ripetutamente giunte minacce di distruzione (Iran), nonché a rafforzare la cooperazione con gli Stati Uniti. Tuttavia, pur condividendo la paura dell’accerchiamento (Libano, Siria, Egitto), adotta una politica aggressiva e punta alla superiorità militare-nucleare come elemento di deterrenza e sopraffazione. Nonostante la divergenza di strategie, emerge chiaramente la condivisa preoccupazione per gli esiti imprevedibili dei conflitti regionali e, soprattutto, per il rinvigorimento dell’Iran a seguito dell’ufficializzazione dell’accordo sul nucleare. La notizia, infatti, è stata accolta con aperta ostilità da Tel Aviv, che teme l’ampliamento del sostegno a favore di Hezbollah e di Hamas e una radicalizzazione degli scontri, nonché la perdita dell’esclusività nucleare e della solida alleanza con gli Stati Uniti. Riyadh, invece, ha reagito con malcelata insofferenza all’idea di un Iran nucleare e bramoso di imporre le proprie ambizioni egemoniche sull’intera regione. Gli Al Saud, infatti, paventano il rafforzamento delle fazioni sciite in prossimità dei confini nazionali (Yemen, Bahrein, Siria, Iraq) e la marginalizzazione del loro ruolo sia nell’economia mediorientale che nella resistenza palestinese, dove Teheran è tra i principali sostenitori di Hamas ai danni del filo-saudita Fatah. Proprio questi temi sono stati al centro dei cinque incontri segreti tra Riyadh e Tel Aviv degli ultimi diciassette mesi, nel tentativo di trovare una strategia comune ed efficace per contrastare Teheran. Per quanto insolito, non è la prima volta che i due Paesi convergono in materia di sicurezza: è avvenuto in passato sia durante la guerra yemenita (1962-1967), contro le forze repubblicane sostenute dall’egiziano Nasser, sia nella prima guerra del Golfo (1991), contro l’aggressore iracheno.




Fig. 2 – Strette di mano sugellano una delle prime fasi negoziali dell’accordo sul nucleare iraniano, che “impensierisce” non poco Riyadh e Tel Aviv 


PROSPETTIVE PER UNA COOPERAZIONE ESTESA E DURATURA? – L’attuale soccorso reciproco avviene in un contesto che presenta principalmente due elementi inediti rispetto alle precedenti collaborazioni e, per questa ragione si parla di svolta storica negli equilibri mediorientali. Innanzitutto, dalla Siria allo Yemen, sono in corso guerre civili che vedono opporsi sciiti e sunniti e i cui esiti sono imprevedibili. Un Iran rinvigorito, dunque, può finanziare cospicuamente i gruppi amici, che indirettamente ne diffondono l’influenza. E, secondariamente, gli Stati Uniti si sono impegnati in prima linea per coinvolgere Teheran nelle negoziazioni nucleari. In questo riavvicinamento, Riyadh e Tel Aviv vedono il tentativo di Washington di ricucire una preziosa alleanza strategica, approfittando del raffreddamento delle loro reciproche relazioni a seguito delle divergenze rispetto al colpo di Stato in Egitto (2013) e al conflitto siriano. Si tratta, insomma, di circostanze che spiegano il desiderio di avviare, seppur informali, politiche strategiche comuni. Ciononostante non sembrano sussistere le condizioni per un’alleanza ufficiale con obiettivi di lungo periodo. Seppur vitali per due Paesi ambiziosi, la tutela della sicurezza nazionale e del prestigio regionale in particolari congiunture storiche, non riparano decennali rivalità e non colmano l’assenza di fiducia reciproca, presupposto essenziale per una proficua collaborazione: nessuno è disposto a correre il rischio che l’altro diventi egemone a proprie spese. Le ambiguità sono numerose. In primo luogo, l’Arabia Saudita non riconosce la legittimità di Israele. Sebbene per gli Al Saud la distruzione dello Stato ebraico sia ormai anacronistica potendone sfruttare le tecnologie militari, il Governo di Tel Aviv resta simbolicamente un nemico dell’Islam. La famiglia reale, pertanto, deve bilanciare le esigenze di stabilità interna con il proprio ruolo nell’intero mondo musulmano, che mal si concilia con un’intesa formale a favore di un’esigenza particolare a scapito di interessi regionali. In secondo luogo, infatti, proprio l’assenza di miglioramenti nelle trattative dell’irrisolta questione palestinese aumenta la diffidenza araba verso i reali obiettivi israeliani. Per i sauditi questo è il nodo cruciale da sciogliere per il trionfo della propria diplomazia e per l’acquisizione di un prestigio regionale senza precedenti. Negli incontri segreti, tuttavia, si è invano riproposta la soluzione del ritiro di Tel Aviv entro i confini del 1967 in cambio di una normalizzazione delle relazioni con i Paesi mediorientali. Infine, Israele teme la natura assolutista e imprevedibile del regime di Riyadh: lontano da qualsiasi tradizione repubblicana e liberale, le priorità e le strategie saudite possono cambiare in qualsiasi momento a seconda delle sopraggiunte priorità personali e nazionali indicate dal sovrano. A queste condizioni risulta davvero improbabile siglare un accordo che superi la storia e vada oltre la pragmatica individuazione di strategie comuni e contingenti.

Sveva Sanguinazzi - 5 ottobre 2015
fonte: http://www.ilcaffegeopolitico.org 


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