Mentre
l’attenzione mondiale è concentrata sull’accordo nucleare iraniano,
Riyadh e Tel Aviv discutono (in segreto) di una comune strategia contro
Teheran e svelano un inedito scenario nel Medio Oriente. I due Paesi
sono davvero pronti a collaborare mettendo da parte i loro decennali
contrasti?
LE ORIGINI DELL’OSTILITÀ
– L’assenza di relazioni diplomatiche fra Arabia Saudita e Israele ha
ragioni storiche profonde e durature. Già nel 1945 il Re Ibn Saud
esprimeva la propria contrarietà alla fondazione di uno Stato ebraico in
Palestina, avvertendo F. D. Roosevelt che ciò avrebbe scatenato decenni
di scontri nel Medio Oriente e raffreddato l’amicizia fra Riyadh e
Washington. La componente ideologico-simbolica,
evidentemente sottovalutata dai potenti dell’epoca, gioca un ruolo
centrale nella comprensione dell’avversione reciproca. Il Regno,
infatti, è il leader spirituale della comunità musulmana (sunnita) e i
suoi sovrani sono i Custodi dei Luoghi Sacri dell’Islam, titolo che
infonde autorevolezza alla famiglia regnante e le permette di
influenzare la politica degli alleati regionali. Israele, perciò, è visto come usurpatore di Gerusalemme, terza città santa per i musulmani, e oppressore dei palestinesi. Inoltre ciascuna compagine ritiene di essere l’esclusivo guardiano della stabilità dell’area mediorientale.
Durante la Guerra Fredda Washington faceva leva sugli interessi sauditi
e israeliani per contenere l’espansionismo sovietico e riempire il
vuoto lasciato dalla rottura iraniana, creando relazioni privilegiate
con i due Paesi, che diventano i principali alleati della politica
estera statunitense nella regione. Tale retaggio riemerge soprattutto
con la Guerra del Libano (2006) e le Primavere arabe (2011), quando
Riyadh e Tel Aviv si contendono la “regia” delle crisi mediorientali al
fine di garantire esiti favorevoli per le proprie priorità.
Fig. 1 – Il primo ministro
israeliano Benjamin Netanyahu e il segretario di Stato USA John Kerry
durante un incontro tenutosi a Roma, 2013
LA (RITROVATA) CONVERGENZA STRATEGICA
– Le priorità saudite riguardano soprattutto l’ampliamento della
propria sfera d’influenza regionale e la costruzione di una rete di
alleanze che tuteli la sicurezza dei confini del Regno (Yemen) e la sua
egemonia simbolica sulla comunità musulmana (Iran e Qatar).
Tradizionalmente gli Al Saud sono impegnati a creare un Medio Oriente
privo di armi atomiche, perché preferiscono ricorrere alla diplomazia
e intervenire solo in caso di minaccia concreta alla stabilità interna e
agli equilibri loro favorevoli. Israele, da parte sua, mira a
sopravvivere e imporsi in una regione ostile, dalla quale sono
ripetutamente giunte minacce di distruzione (Iran), nonché a rafforzare
la cooperazione con gli Stati Uniti. Tuttavia, pur condividendo la paura
dell’accerchiamento (Libano, Siria, Egitto), adotta una politica
aggressiva e punta alla superiorità militare-nucleare come elemento di
deterrenza e sopraffazione. Nonostante la divergenza di strategie,
emerge chiaramente la condivisa preoccupazione per gli esiti imprevedibili dei conflitti regionali
e, soprattutto, per il rinvigorimento dell’Iran a seguito
dell’ufficializzazione dell’accordo sul nucleare. La notizia, infatti, è
stata accolta con aperta ostilità da Tel Aviv, che teme l’ampliamento
del sostegno a favore di Hezbollah e di Hamas e una radicalizzazione
degli scontri, nonché la perdita dell’esclusività nucleare e della
solida alleanza con gli Stati Uniti. Riyadh, invece, ha reagito con
malcelata insofferenza all’idea di un Iran nucleare e bramoso di imporre
le proprie ambizioni egemoniche sull’intera regione. Gli Al Saud,
infatti, paventano il rafforzamento delle fazioni sciite in prossimità
dei confini nazionali (Yemen, Bahrein, Siria, Iraq) e la
marginalizzazione del loro ruolo sia nell’economia mediorientale che
nella resistenza palestinese, dove Teheran è tra i principali
sostenitori di Hamas ai danni del filo-saudita Fatah. Proprio questi
temi sono stati al centro dei cinque incontri segreti tra Riyadh e Tel Aviv
degli ultimi diciassette mesi, nel tentativo di trovare una strategia
comune ed efficace per contrastare Teheran. Per quanto insolito, non è la prima volta che i due Paesi convergono in materia di sicurezza:
è avvenuto in passato sia durante la guerra yemenita (1962-1967),
contro le forze repubblicane sostenute dall’egiziano Nasser, sia nella
prima guerra del Golfo (1991), contro l’aggressore iracheno.
Fig. 2 – Strette di mano sugellano una delle prime fasi negoziali dell’accordo sul nucleare iraniano, che “impensierisce” non poco Riyadh e Tel Aviv
PROSPETTIVE PER UNA COOPERAZIONE ESTESA E DURATURA?
– L’attuale soccorso reciproco avviene in un contesto che presenta
principalmente due elementi inediti rispetto alle precedenti
collaborazioni e, per questa ragione si parla di svolta storica negli
equilibri mediorientali. Innanzitutto, dalla Siria allo Yemen, sono in
corso guerre civili che vedono opporsi sciiti e sunniti e i cui esiti
sono imprevedibili. Un Iran rinvigorito, dunque, può finanziare
cospicuamente i gruppi amici, che indirettamente ne diffondono
l’influenza. E, secondariamente, gli Stati Uniti si sono impegnati in
prima linea per coinvolgere Teheran nelle negoziazioni nucleari. In
questo riavvicinamento, Riyadh e Tel Aviv vedono il tentativo di Washington di ricucire una preziosa alleanza strategica,
approfittando del raffreddamento delle loro reciproche relazioni a
seguito delle divergenze rispetto al colpo di Stato in Egitto (2013) e
al conflitto siriano. Si tratta, insomma, di circostanze che spiegano il
desiderio di avviare, seppur informali, politiche strategiche comuni.
Ciononostante non sembrano sussistere le condizioni per un’alleanza ufficiale con obiettivi di lungo periodo.
Seppur vitali per due Paesi ambiziosi, la tutela della sicurezza
nazionale e del prestigio regionale in particolari congiunture storiche,
non riparano decennali rivalità e non colmano l’assenza di fiducia
reciproca, presupposto essenziale per una proficua collaborazione: nessuno è disposto a correre il rischio che l’altro diventi egemone a proprie spese.
Le ambiguità sono numerose. In primo luogo, l’Arabia Saudita non
riconosce la legittimità di Israele. Sebbene per gli Al Saud la
distruzione dello Stato ebraico sia ormai anacronistica potendone
sfruttare le tecnologie militari, il Governo di Tel Aviv resta
simbolicamente un nemico dell’Islam. La famiglia reale, pertanto, deve
bilanciare le esigenze di stabilità interna con il proprio ruolo
nell’intero mondo musulmano, che mal si concilia con un’intesa formale a
favore di un’esigenza particolare a scapito di interessi regionali. In
secondo luogo, infatti, proprio l’assenza di miglioramenti nelle
trattative dell’irrisolta questione palestinese aumenta la diffidenza
araba verso i reali obiettivi israeliani. Per i sauditi questo è il nodo
cruciale da sciogliere per il trionfo della propria diplomazia e per
l’acquisizione di un prestigio regionale senza precedenti. Negli
incontri segreti, tuttavia, si è invano riproposta la soluzione del
ritiro di Tel Aviv entro i confini del 1967 in cambio di una
normalizzazione delle relazioni con i Paesi mediorientali. Infine,
Israele teme la natura assolutista e imprevedibile del regime di Riyadh:
lontano da qualsiasi tradizione repubblicana e liberale, le priorità e
le strategie saudite possono cambiare in qualsiasi momento a seconda
delle sopraggiunte priorità personali e nazionali indicate dal sovrano. A
queste condizioni risulta davvero improbabile siglare un accordo che
superi la storia e vada oltre la pragmatica individuazione di strategie
comuni e contingenti.
Sveva Sanguinazzi - 5 ottobre 2015
fonte: http://www.ilcaffegeopolitico.org
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