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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

09/02/17

Bello Figo, il rapper che deride gli italiani



 


Si chiama Bello Figo, è stato scoperto da Andrea Diprè e crede di essere un rapper mentre invece è solo un ragazzino immigrato dieci anni orsono dal Ghana che, non avendo nulla da fare tutto il giorno, dispensa volgarità illudendosi di essere il Re dello Swag, una star di YouTube. Cosa ancora più grave: qualcuno glielo fa anche credere.
Di certa gente non bisognerebbe parlare come in una sorta di damnatio memoriae e infatti lo faremo il meno possibile. Molto meglio dedicarsi allo spettacolo pietoso offerto dalle solite ancelle dei buoni sentimenti, pronte sempre a difendere l’indifendibile pur di tenere fede alla storiella dei poveri migranti discriminati, vilipesi e offesi dai soliti razzisti.
Ma prima vediamo i fatti: un ragazzotto ghanese, noto prima con il nome di Gucci Boy e poi di Bello Figo Gu, pensa di diventare famoso producendo una vasta gamma di pezzi rap di dubbia qualità (ma soprattutto di dubbio gusto) incentrati spesso e volentieri su irripetibili porcate a sfondo sessuale ma senza disdegnare temi profondi e toccanti come ad esempio il suo amore per la pasta col tonno. La qual cosa, visto che il suo talent scout è Andrea Diprè, non avrebbe destato scalpore se non fosse arrivata la pietra miliare delle sue composizioni poetico-musicali: “Non pago affitto”. In questa fantastica lirica il nostro artista, con una certa arroganza e strafottenza, ci fa sapere che il suo status di immigrato lo porta a non pagare l’affitto, campando orgogliosamente a scrocco, a vivere in un albergo di lusso, a potersi permettere di rifiutare lavori da operaio (tanto paga Pantalone) e a pretendere soldi e wi-fi gratuito.
Per carità di Patria rimandiamo all’ascolto dei più curiosi ciò che il nostro delicato compositore intenderebbe fare alle donne bianche, considerate come oggetti, come schiave sessuali, come bestie in una sorta di accanimento basato sul colore della pelle. Queste dolci pratiche sono l’ossessivo filo conduttore di molti dei suoi pezzi. Evidentemente in Ghana si usa così; qui siamo in Italia e forse il nostro amico non conosce bene le donne italiane le quali, di fronte a un simile trattamento, sarebbero generalmente capaci di riservargli una enorme quantità di calci ben assestati nel sedere. Diciamo “generalmente” perché, se non si fosse trattato di un profugo e se viceversa ci fossimo trovati di fronte a un italiano che inveisce contro un migrante o una donna di colore, probabilmente la presidentessa Laura Boldrini avrebbe inviato gli agenti del Kgb a prelevare il sessista, “L’Unità” si sarebbe indignata chiedendone il linciaggio, “Il Fatto quotidiano” avrebbe chiesto l’arresto del razzista, Eugenio Scalfari si sarebbe fatto venire gli attacchi di panico scrivendo un’articolessa più lunga, barbosa e prosaica del solito e le paladine del femminismo avrebbero presenziato al solito circo mediatico progressista a reti unificate per denunciare scandalizzate lo spiacevole episodio.
E invece, colpo di scena. Nemmeno un silenzio imbarazzato, nemmeno un tentativo di sorvolare sull’argomento evocando il sempre utile benaltrismo. Abbiamo dovuto constatare uno scomposto tentativo di rigirare la frittata, di rimestare nel torbido, di far stridere gli specchi. Qui si tratta di non arretrare di un millimetro sulla narrazione del migrante che va difeso dagli attacchi xenofobi e populisti anche se si è al cospetto di uno sciocchino clamoroso; qui si tratta di fare a oltranza del razzismo al contrario e di sostenere la tesi in base alla quale migrante è bello sempre ed eventuali problemi sono da addebitare all’ospitante occidentale, il quale avrà sempre qualcosa di cui doversi scusare (dall’imperialismo che impoverisce l’Africa alle condizioni di accoglienza che incattiviscono l’ospitato che non riesce a integrarsi per colpe non sue, fino ad arrivare per successive approssimazioni anche al buco dell’ozono se serve).
La tesi progressista più ardita (e per questo paradossalmente apprezzabile) vorrebbe che i contestatori di Bello Figo non avessero capito la sottile ironia del rapper, il quale si sarebbe addirittura reso artefice di un pezzo di denuncia teso a scimmiottare con crudele ironia i luoghi comuni razzisti nei confronti degli immigrati. Un genio incompreso della comunicazione, insomma, il quale eserciterebbe una meta-ironia contraddistinta da un urgente spontaneismo troppo sottile per gli incolti populisti che lo contestano prendendo le sue posizioni sofisticate per arroganti modi di fare sessisti e fancazzisti.
Peccato che, interrogato sul tema, il nostro Bello Figo abbia confermato bellamente (e figamente) di essere contento del suo status di ospite nullafacente e di fregarsene se per caso le vittime del terremoto sono per strada mentre lui fa il bello figo con i soldi della collettività. La tesi più prosaica invece vuole il rapper vittima di violenza ad opera di cellule di stampo neofascista che, nell’inquietante vuoto istituzionale, hanno impedito con atti intimidatori al cantante di tenere i suoi concerti (sì, avete capito bene, concerti) in alcuni locali in giro per l’Italia.
Quindi qui la frittata si è capovolta: non è Bello Figo a istigare alla violenza sessuale sulle donne e al furto (nella fattispecie di biciclette), oltre che provocare in maniera più o meno esplicita e istigare all’odio verso gli italiani, ma sono gli altri ad impedirgli di esprimere la sua arte. Poi, vai a vedere quali sarebbero questi atti intimidatori e ti rendi conto che si tratta di qualche striscione (si potrebbe tranquillamente contestarne il buon gusto) o di qualche lettera di diffida tramite raccomandata agli organizzatori dei concerti con promessa di picchettaggio.
Che le date siano state annullate per simili scemenze è ovviamente un espediente comunicazionale nemmeno troppo sofisticato teso a trasformare il carnefice in vittima. Che poi Giulia Innocenzi si faccia fotografare in compagnia del cantante in questione (il quale in perfetta continuità con le sue tesi posa con il pacco a favor di obiettivo), invocando contro il suo linciaggio l’intervento del ministro dell’Interno, appartiene al folklore cui ci ha abituato questa ragazza di buona famiglia e senza particolari qualità che gioca a Che Guevara per vincere la noia.

di Vito Massimano - 09 febbraio 2017

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