Per mantenere le promesse il
presidente dovrà concentrarsi sui problemi interni. L’America dopo un
secolo rinuncerà al ruolo di poliziotto globale? Ecco chi ci
guadagnerebbe. E chi no
Se vuole mantenere le promesse di posti di lavoro, salari più
dignitosi ed equità sociale fatte alle vittime americane della
globalizzazione (operai e classe media) che col loro voto lo hanno
portato alla Casa Bianca, Donald Trump dovrà introdurre misure di
protezionismo commerciale. Il protezionismo implica, a livello
geopolitico, l’isolazionismo. Per potere tornare ad essere grande nei
termini sottintesi dallo slogan della campagna elettorale del candidato
repubblicano, l’America deve rinunciare ad essere la «nazione
indispensabile» (Madeleine Albright) e «l’ultima, la migliore speranza
della terra» (Dick Cheney) per occuparsi umilmente dei suoi problemi
interni. Non sono parole d’ordine inedite per un presidente americano.
Senza andare tanto in là nel tempo, G. W. Bush e Barack Obama vinsero
le presidenziali rispettivamente del 2000 e del 2008 promettendo agli
elettori di ridimensionare l’interventismo e le campagne militari dei
loro predecessori. Si sa come è andata poi: sotto Bush jr. gli Stati
Uniti hanno combattuto due guerre sanguinose e interminabili in
Afghanistan e Iraq; Obama ha ritirato le truppe di terra dall’Iraq e
parzialmente dall’Afghanistan e ha cercato di esternalizzare la gestione
delle crisi agli alleati, ma infine ha inviato l’aviazione, i droni
killer e i corpi speciali lungo un arco geografico che va dalla Libia al
Pakistan. Per
trovare presidenti che hanno praticato l’isolazionismo e il
protezionismo con successo bisogna tornare agli anni Venti del secolo
scorso, ai repubblicani Harding e Coolidge successori del democratico
Harold Wilson che aveva deciso l’entrata dell’America nella Prima Guerra
mondiale e fondato la Società delle Nazioni senza però riuscire a
convincere il Congresso ad approvare l’adesione degli Stati Uniti alla
medesima. Harding e Coolidge presiedettero a un’età dell’oro (in termini
di redditi e occupazione) alimentata da isolazionismo, protezionismo,
proibizionismo (del consumo di alcolici), limitazione dell’immigrazione
che però andò a schiantarsi contro la grande crisi, messa in moto dal
crollo della Borsa di New York nel 1929, e la successiva depressione.
Dopo di allora, mai nessun presidente è riuscito a praticare coerenti
politiche isolazioniste, meno che mai dopo la Seconda Guerra mondiale e
l’ascesa degli Stati Uniti al ruolo di paese egemone (per 44 anni in
condominio con l’Urss, poi in solitaria) sulla scena internazionale.
Per dare corpo al neo-isolazionismo che ha in mente,
prima ancora che con i suoi avversari democratici Trump dovrà
probabilmente scontrarsi con il Congresso a maggioranza repubblicana e
forse non solo con quello. Istruttiva la vicenda delle posizioni
contraddittorie del ticket presidenziale repubblicano nei riguardi della
crisi siriana. Nel dibattito tv dei candidati vicepresidenti, Mike
Pence (repubblicano) si è espresso come avrebbe potuto fare un portavoce
di Hillary Clinton: ha proposto l’istituzione di una no-fly zone in
Siria sorvegliata dall’aviazione americana, risposte di forza alle
provocazioni russe e attacchi punitivi con approvazione Onu contro
obiettivi militari del regime di Assad se i bombardamenti dei
governativi sui quartieri di Aleppo in mano ai ribelli dovessero
continuare. Cinque giorni dopo Trump lo ha smentito su tutta la linea.
La linea di Trump grosso modo è: prima occupiamoci dell’Isis, solo
sconfitta l’Isis ci occuperemo di trovare un successore ad Assad,
possibilmente d’accordo coi russi.
Oltre al mainstream del partito repubblicano, a sabotare le
aspirazioni neo-isolazioniste di Trump provvederanno la burocrazia della
sua stessa amministrazione, la comunità dell’intelligence e gli
apparati militari. Ci sarà sicuramente molta differenza fra quello che
il nuovo presidente dice di voler fare, quello che vuole veramente fare,
quello che potrà fare e quello che riuscirà a fare. Doverosamente
premesso ciò, si intuisce che il disimpegno americano dal ruolo guida
nel mondo come lo immagina Trump dovrebbe muoversi lungo due direttrici:
la responsabilizzazione in termini finanziari e politici dei vecchi
alleati, la mano tesa verso vecchi nemici per la definizione di accordi
di stabilizzazione di aree di crisi.
L’arte di fare affari
Dovendo fare una lista degli Stati e quasi-Stati che trarranno vantaggio dall’ascesa alla presidenza del miliardario americano e di quelli che invece avranno difficoltà, metteremmo nel primo elenco la Russia, Israele, il governo di Damasco, la fazione libica di Bengasi, l’Egitto, i curdi e la Turchia; nel secondo elenco, decisamente più lungo, il Messico, la Cina ma anche i paesi dell’area che chiedono all’America di essere protetti dalla Cina e dalla Corea del Nord (e cioè Corea del Sud, Giappone e Australia), l’Iran ma anche l’Arabia Saudita, Cuba, i paesi baltici e scandinavi, l’Ucraina, i paesi della Nato con una spesa militare troppo modesta. Con tutti comunque procederà nello stesso modo, attingendo verosimilmente a quella che è la “bibbia” del trumpismo: il suo libro The Art of the Deal, cioè “l’arte di concludere un affare”. Trump è intenzionato a stringere nuovi accordi e a riscrivere accordi esistenti che secondo lui e gli elettori che lo hanno votato non rispondono agli interessi del cittadino americano, ma delle élite contro cui lui si è battuto.
Dovendo fare una lista degli Stati e quasi-Stati che trarranno vantaggio dall’ascesa alla presidenza del miliardario americano e di quelli che invece avranno difficoltà, metteremmo nel primo elenco la Russia, Israele, il governo di Damasco, la fazione libica di Bengasi, l’Egitto, i curdi e la Turchia; nel secondo elenco, decisamente più lungo, il Messico, la Cina ma anche i paesi dell’area che chiedono all’America di essere protetti dalla Cina e dalla Corea del Nord (e cioè Corea del Sud, Giappone e Australia), l’Iran ma anche l’Arabia Saudita, Cuba, i paesi baltici e scandinavi, l’Ucraina, i paesi della Nato con una spesa militare troppo modesta. Con tutti comunque procederà nello stesso modo, attingendo verosimilmente a quella che è la “bibbia” del trumpismo: il suo libro The Art of the Deal, cioè “l’arte di concludere un affare”. Trump è intenzionato a stringere nuovi accordi e a riscrivere accordi esistenti che secondo lui e gli elettori che lo hanno votato non rispondono agli interessi del cittadino americano, ma delle élite contro cui lui si è battuto.
In testa alla lista dei paesi con cui il nuovo presidente vorrebbe concludere quello che il Financial Times
definisce un “grand bargain” c’è la Russia di Putin. Col presidente
russo Trump sembra essere d’accordo sul fatto che la distensione, la
sicurezza, la pace e quindi la cooperazione economica e gli scambi
commerciali che ne conseguirebbero hanno bisogno della definizione delle
rispettive sfere d’influenza degli Stati Uniti e della Russia, e poi
della garanzia reciproca che saranno rispettate. Nuove Yalta in Europa
orientale e in Medio Oriente permetterebbero di liberare risorse per le
politiche interne americane, risparmiando sulle spese militari e sulle
sovvenzioni di bilancio ai paesi attraverso i quali si combatte la nuova
Guerra fredda per interposta persona: Ucraina, ribelli siriani,
eccetera. I paesi europei dovrebbero essere lieti di questa prospettiva,
che implicherebbe la cancellazione delle sanzioni reciproche con la
Russia e minori esborsi verso i paesi del Partenariato orientale. Ma
solo in parte, perché Trump ha ripetuto decine di volte che l’America
manterrà i patti solo coi paesi europei membri della Nato che
contribuiscono con una spesa militare pari ad almeno il 2 per cento del
proprio Pil (impegno ribadito più volte in sede di summit Nato).
Attualmente adempiono al criterio solo Regno Unito, Polonia, Grecia ed
Estonia.
Il cruccio dell’Arabia Saudita
Il riavvicinamento con la Russia implica un riavvicinamento con gli alleati di Mosca, ma non con tutti. Il primo capo di Stato arabo che ha fatto i complimenti a Trump per la sua elezione è stato l’egiziano Abd Al-Fattah al-Sisi. Da molto tempo l’Egitto post-Morsi si barcamena fra Arabia Saudita e Russia, paesi da sempre avversari sul piano delle alleanze geopolitiche: Riyadh ha pompato miliardi di dollari nell’economia egiziana, esausta per le agitazioni politiche del periodo 2011-2013 e per la fuga dei turisti a causa dei ripetuti attacchi terroristici, in funzione anti-Fratelli Musulmani, comune nemico del generale al-Sisi e della famiglia reale Saud.
Il riavvicinamento con la Russia implica un riavvicinamento con gli alleati di Mosca, ma non con tutti. Il primo capo di Stato arabo che ha fatto i complimenti a Trump per la sua elezione è stato l’egiziano Abd Al-Fattah al-Sisi. Da molto tempo l’Egitto post-Morsi si barcamena fra Arabia Saudita e Russia, paesi da sempre avversari sul piano delle alleanze geopolitiche: Riyadh ha pompato miliardi di dollari nell’economia egiziana, esausta per le agitazioni politiche del periodo 2011-2013 e per la fuga dei turisti a causa dei ripetuti attacchi terroristici, in funzione anti-Fratelli Musulmani, comune nemico del generale al-Sisi e della famiglia reale Saud.
L’uomo forte del Cairo ha incassato e ha resistito ai tentativi
sauditi di trascinare militarmente l’Egitto nei mattatoi siriano e
yemenita, nel mentre che sul fronte libico giocava un ruolo autonomo,
appoggiando il generale Haftar di Bengasi contro le milizie islamiste e
contro il governo di Tripoli. Quando gli Stati Uniti e l’Europa hanno
spostato le loro fiches su Tripoli, Haftar ha invocato il sostegno
russo, che è prontamente arrivato e che ha contribuito a stringere
ancora di più i rapporti dell’Egitto con la Russia, mentre quelli del
Cairo con l’Arabia Saudita si sono logorati nella stessa misura. Ora
Washington potrebbe tornare a sostenere Haftar, in passato uomo della
Cia, ritrovandosi allineata coi suoi sponsor egiziani e russi.
Non è questo l’unico cruccio dell’Arabia Saudita: Riyadh si accingeva
a imporre all’Opec di tagliare la produzione di petrolio per far
risalire il prezzo del greggio, ma dovrà pensarci due volte ora che è
salito al potere un presidente che si è dato per obiettivo
l’indipendenza energetica americana, da ottenere anche aumentando la
produzione locale di shale oil oggi in crisi a causa del prezzo del
barile troppo basso. Donald Trump taglierà le tasse sullo shale oil per
riavviare la produzione, con gran danno dei paesi Opec.
Il vero scontro sarà con la Cina
Anche l’Iran ha poco da ridere, e non solo perché il prezzo del petrolio non salirà quanto sperava: Trump ha dichiarato che rivedrà l’accordo concluso da Barack Obama con Teheran sul nucleare, perché con esso gli Stati Uniti hanno concesso troppo e ottenuto troppo poco. Israele sentitamente ringrazia.
Anche l’Iran ha poco da ridere, e non solo perché il prezzo del petrolio non salirà quanto sperava: Trump ha dichiarato che rivedrà l’accordo concluso da Barack Obama con Teheran sul nucleare, perché con esso gli Stati Uniti hanno concesso troppo e ottenuto troppo poco. Israele sentitamente ringrazia.
Sul piano degli accordi da rinegoziare, più preoccupati dell’Iran
sono il Messico e la Cina. Non è un caso che il peso abbia perduto il 13
per cento del suo valore all’indomani del voto americano: il problema
non sono tanto le minacce folkloristiche circa la costruzione di una
muraglia di 3 mila chilometri lungo il confine fra i due stati per
impedire gli attraversamenti di migranti clandestini o le minacce
altrettanto irrealistiche di espellere 11 milioni di residenti stranieri
latinoamericani irregolari; il problema è che Trump vuole denunciare il
Nafta, il trattato di libera circolazione delle merci fra Stati Uniti,
Messico e Canada, e lo farà quasi certamente, così come farà saltare il
Partenariato Trans-Pacifico, il Trattato di libero scambio fra America e
paesi dell’Asia e dell’Oceania fortemente voluto da Obama.
Ma il vero scontro di titani lo vedremo con la Cina:
Trump ha definito l’ammissione di Pechino al Wto «il più grande furto
di posti di lavoro della storia», e minaccia di istituire dazi a raffica
sulle merci cinesi (in barba alle regole del Wto) se la Cina non
accetterà di rinegoziare gli accordi commerciali. Riuscirà l’imprevisto
vincitore delle presidenziali americane a piegare la volontà del più
grande paese comunista del mondo? Dal punto di vista
economico-finanziario, i due contendenti sanno già che carte giocare: a
vantaggio degli Stati Uniti c’è il fatto che le esportazioni cinesi in
America sono il triplo per valore di quelle americane in Cina (497,8
miliardi di dollari contro 161,6); a vantaggio di Pechino c’è il fatto
che detiene 1.185 miliardi di dollari del debito pubblico statunitense
(che ammonta in tutto a 19 mila miliardi).
Foto: Ansa/Ap
novembre 17, 2016
Rodolfo Casadei
fonte: http://www.tempi.it
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