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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

09/03/15

MalaItalia, la discarica della Libia


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Nel 1911 l’Italia commossa e piagnona di Pascoli e De Amicis, un’Italia da Sanremo mosse guerra alla Libia. Anzi no, alla Turchia. Nemmeno, all’Impero Ottomano. Era questo, l’ultima vestigia in terra d’Europa di un’idea allora molto fuori moda, ormai anacronistica: l’idea dell’impero multirazziale. (Per quanto nei propri territori orientali, anche il Reich tedesco e lo “Stato dell’Est” austriaco ne mantenessero alcune caratteristiche). Seguendo il modernismo degli Stati nazionali europei, l’Italia giolittiana si avventò su Istanbul dove già Sublime porta e giovani turchi s litigavano il potere. Con spirito cavouriano, l’Italia sabauda si mosse, con mentalità di regno minore parafrancese, guardando più alle capitali europee che alle terre d’Africa. L’Italia piemontese aveva scatenato l’emigrazione meridionale ed una diversa razza di italiani, i siciliani, si erano ammassati nella prospiciente Tunisia dove godevano di sostanziale extraterritorialità. Nella “piccola Sicilia” di Tunisi, 100mila italiani, di cui il 70% siciliani costituivano l’etnia europea più numerosa. Per vent’anni dall’Unità, Roma aveva accarezzato l’idea di annettersi questa Sicilia transmediterranea, finché nell’1881 la Francia l’occupò. Gli italo-tunisini o siculotunisini, quasi “piednoir” italiani, entrarono nel tunnel di un mito negativo combinato delle repressioni francese, colonialista, postcolonialistafino a quella islamista che in un secolo li ha decimati. E fu in nome loro, o meglio dell’orgoglio ferito per quanto loro capitato, che la grande proletaria giolittiana cercò riscatto nella vicina terra africana della Cirenaica e Tripolitania. 

Insomma nel 1911 l’Italia mosse guerra alla Turchia, pensando di farla contro la Francia ed il cinico destino. Senza sapere degli eventi a catena prodotti: nell’immediato, la cacciata dei turchi dall’Europa e la destabilizzazione balcanica; nel lungo periodo la permanente destabilizzazione mediorientale e nordafricana. 2011 Un secolo dopo, nel 2011, rieccoci. Un’Italia stravolta e divisa di Busi e Rodotà, un’Italia da vaffaday, l’Italia degli ex comitati della pace di Stalin muove guerra alla Libia. Di soppiatto. Non lo fa per la Cirenaica e la Tripolitania, ma per ragioni interne. L’odiato Berlusconi, dopo decenni di litigi diplomatici ha stretto alleanza con il dittatore libico. Anzi gli ha affidato il compito di bloccare l’emigrazione africana destinata via Libia all’Europa. Se nel 1911 l’assalto era strabico rivolto a Parigi, stavolta è indemoniato, a occhiaie rovesciate verso i propri incubi interni. Nel 1911 la guerra giolittiana inserì Roma nell’orchestrato europeo della Germania bismarkiana; nel 2011 l’assalto alla Libia è forse l’unica cosa che sfugge all’orchestrato europeo della Germania merkeliana. Francesi, inglesi, americani vogliono conquistare Tripoli. Per farlo, passano con le scarpe chiodate sull’Italia, il cui governo di destra, già umiliato dai suoi partner di partito e di governo europei, non ha la forza di dire di no. La sua sinistra brinda invece alla costruzione mediatica della primavera araba, un misunderstandig che fa da incubatore alla nascita dell’ondata Isis, braccio armato dei fratelli musulmani frustrati per l’annullamento delle vittorie elettorali ottenute in Algeria, Tunisia, Irak.
È una guerra, che malgrado il calore filoamericano di Napolitano, non produce un clima di gioiosa propaganda; neanche una canzone o un libretto per il letterario nome (Tramonto dell’Odissea) dell’operazione militare occidentale con cui la Libia venne prima bombardata, rivoluzionata ed infine lasciata ad un destino di anarchia. D’altronde dopo la disastrosa gestione del caso Somalia, la tradizione storica della politica democratica americana sulle colonie italiane ha ribadito il proseguimento, via Clinton e Obama, del primigenio razzismo antitaliano del presidente Wilson. Non c’è gioia per la guerra alla Libia del 2011. Anche i sassi capiscono che si tratta di una guerra non amara, ma suicida per l’Italia. Il tempo di mezzo Nel 1911 molta grancassa era stata fatta attorno alla Tripoli bel suol, cantata dalla ugola di Gea della Garisenda sui versi del freakettone dell’epoca Corvetto: Sai dove s’annida più florido il suol? più magico il sol? Un secolo fa nessuno pensava che ci fosse veramente un tesor nello scatolone di sabbia. Invece c’era, il tesoro, nero ed oleoso. Il postcolonialismo, amaro per i francoinglesi, aveva permesso però, in 50 anni di (prima) repubblica, all’Italia dell’Eni di Mattei di rifarsi.


La Libia era economicamente riconquistata, una sorta di Dubai nostrano, buono per rifornire Roma di energia e di danari freschi prestati o investiti. Anche politicamente la Quarta sponda partecipava dell’incomprensibile politica italiana, producendone una sua variante anfetaminica e drogata. Se da una parte si diffondevano quaderni piacentini, autonomie operaie ed altri servizi per il popolo, dall’altra parte del Mediterraneo, la variante tragica del volto sofferente del comico siciliano Franco Franchi stralunava quei testi ora nel socialismo beduino del libretto verde, ora nella mezza ricostituzione dell’impero arabo (durata un lustro negli anni ’70) nell’unione sirio-egizio-libica, ora nella monarchia panafricana, ora con nei non allineati (Brics ante litteram), ora nella rivendicazione dell’antica jihad pronunciata dai deserti contro l’invasore piemontese, proprio dal gran Sanusso libico, zio del monarca beduino deposto. In fondo la maschera afrosicilianadel colonello Gheddafi proseguiva l’appeal mussoliniano panideologico: di tutto un po’.
Un po’ spada dell’Islam, un po’ Balbo, un po’ Charlie’s Angels araba. E soprattutto un bel po’ di ricchezza garantita ai pochi milioni di compatrioti come solo la Sicilia anteromana aveva potuto vantare nei secoli della Magna Grecia. Come tutti i freak di lusso, erano i soldi che permettevano al colonello di fare l’arabe c’est shick. E l’antiamericano, altro cliché preso all’intellighenzia italiana. L’Italia, però, incastrata nelle maglie della guerra fredda, era giustificata. Neanche questo d’altronde aveva risparmiato brutte conseguenze sui suoi leader, poco rispettosi di Washington, da Mattei a Caxi ad Andreotti. Il colonello, poi, da scavezzacollo aveva esagerato. Ed in tempo di pace, si era beccato diversi missili francoamericani improvvisi, di cui qualcuno fece molto piangere i nipoti di Franchi e dei piednoirs italotunisini. I vecchi risentimenti reaganiani si sono intrecciati con la nuova febbre nemica dei dittatori laici che da vent’anni ha ammorbato i nuovi americani repubblicani e democratici. Per abbattere Kabul e Saddam crearono Bin Laden. Per abbattere Assad e Mubarak hanno creato l’Isis. Per abbattere una maschera di Gheddafi ne hanno create molte. Forse sotto sotto l’impero globalizzante di Internet amerebbe, per analogia, un ritorno imperiale anche tra Medioriente e Nordafrica. Anche il pensiero islamico dominante può apparire migliore delle tante opinioni della rissosità pulviscolare degli stati nazionali. Oggi non forse ma sicuramente l’Italia dovrebbe fare guerra alla Libia. O meglio ai pirati della Libia. In fondo solo al suo bagnasciuga e\o battigia. Altro che Tramonto dell’odissea. L’intervento paraNatoha creato diverse odissee, dalla bomba umana dell’emigrazione, che da tutta l’Africa, si concentra nel deserto libico, allo stato di guerra civile permanente dove l’alleato degli occidentali in loco è quello destinato a perdere. 


In pochi anni il Tramonto si è trasformato nella nuova alba della proclamazione, più o meno credibile, della guerra santa musulmana di un secolo fa. L’aveva lanciata la Sanussia, sorta di Isis dell’epoca, nel bel mezzo del Sahara tra le località di Cufra e di Giarabub. Oggi nella stessa terra desertica di nessuno, tra Atlantico ed Egitto, c’è il grande mercato all’ingrosso di carne umana, la preparazione in container raffazzonati degli esseri umani, da far emigrare alla deriva verso l’Europa. Forse toccherà anche all’Italia dover spostare il mausoleo militare dei propri caduti in terra d’africa, come hanno fatto i turchi con i loro in terra siriana. Per evitare che vada perduto. Anche il Gran Senusso ed eredi erano sunniti, panarabi, estremisti dell’impero arabo; wannabiti come emiri, autorità religiosa, negli anni ’20 e poi come autorità politica in quanto casa regnante. Oltre il Mediterraneo non ci minacciano terroristi ma gli eredi del re Idris al-Mahdi al-Senussi, nipote dello Sceriffo fondatore. Contro di loro l’Italia ha già rinunciato a ogni velleità non offensiva, ma neanche difensiva. Non può tagliare il mar che ci lega con l’Africa d’or, perché quel filo è ben difeso dai capisaldi della globalizzazione che trova una sua colonna nei grandi movimenti di lavoratori da un continente all’altro. Una nuova guerra ai pirati come quella di Pompeo o degli americani del 1830 al Bey oggi non è ammissibile perché chiuderebbe l’unica valvola di sfogo del continente nero, gigante perduto. Non sono ammissibili ipotesi postcolonialiste, neanche nella variante newcon. Nella partita a scacchi tra i Nord e gli Est del mondo, non è chiaro quale sia il destino dei popoli arabi. E’ chiaro solo che la discarica almeno per i primi tempi è stata trovata in Italia, che tanto non sa dire né di no, né di sì, né di nì. Solo Israele avrebbe l’interesse, l’audacia e la forza per l’intervento di cui avrebbe bisogno l’Italia. Anche qui, il grande partito sostenitore della memoria ebraica, è lo stesso che si mobilita contro gli israeliti in vita. Un’altra strada preclusa. Per cui ci terremo i neoSanussi delle redivive Cufra e Giarabub, dove dormono i caduti che non volevano pane ma piombo per il loro moschetto. Tutti i danni indiretti che la guerra italiana del 1911 produsse ci tornano indietro nella guerra che il mondo ha deciso di fare alla Libia, cioè all’Italia del 2011. A Giarabub, comincia sempre solo e soltanto la fine della nostra terra, non di altre. 

di Giuseppe Mele - 8 marzo 2015
fonte: http://www.qelsi.it

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