Quando il 18 gennaio del 2013 la Corte Suprema indiana si espresse a New Delhi in merito al ricorso di parte italiana per ottenere l’annullamento del procedimento giudiziario contro Latorre e Girone tirammo un sospiro di sollievo. Perchè se è vero che in quella occasione la CS respinse la richiesta italiana, è anche vero che essa pose almeno dei punti fermi che definivano un perimetro di accettabilità giuridica relativamente ad un procedimento sul quale l’India alla luce delle norme, delle leggi e delle convenzioni internazionali non potrebbe rivendicare nessuna giurisdizione. In altri termini, nessun processo dovrebbe essere celebrato in India, ma se proprio non si riesce a togliere i due Marò dalle sgrinfie degli indiani, che almeno si ottengano garanzie in merito all’imparzialità ed alla trasparenza del giudizio, con piena facoltà di controdeduzione della difesa, tutte cose che nel Kerala sarebbe stato impossibile ottenere ed inimmaginabile persino prospettare.
La sentenza del 18 gennaio 2013 contiene alcune decisioni prese da due alti ed autorevolissimi magistrati della Corte Suprema che da quelle parti chiamano Apex Court o solo Apex, ovvero Altamas Kabir e J.J Chelameswar, con il primo che aveva addirittura rivestito la carica di presidente della Corte stessa qualche anno fa. Quindi una delibera attendibile e fondata, cui tutti in India avrebbero dovuto attenersi. In quella sentenza si stabilivano alcuni punti fermi: il primo, come accennato, era che il procedimento giudiziario dovesse proseguire e che l’opposizione allo stesso dei Marò era respinta. Ma subito di seguito si precisava letteralmente che :
“Kerala government had no jurisdiction to prosecute the foreigners over the alleged crime arising from the February 15, 2012 incident, claimed by Italy to have occurred on the high seas”. Cioè, che “lo Stato del Kerala non aveva competenza giuridica per perseguire gli stranieri per il presunto reato scaturito dall’incidente del 15 febbraio del 2012 che l’Italia dichiara essersi verificato in alto mare (si intende in acque extraterritoriali dell’India, ndr). Inoltre, si precisava a maggior ragione che :” only Indian federal government could persecute the alleged offenders, cioè che “solo il governo federale dell’India può perseguire i presunti colpevoli “. Infine, e non ci pare cosa da poco, si fissavano i criteri per condurre il processo, che avrebbe dovuto essere affidato ad un “tribunale ad hoc creato in consultazione con il Chief of Justice (il presidente della Corte Suprema che, come riportato in un precedente articolo da Qelsi, attualmente è il giudice Rajendra Mal Lodha, il costituzionalista che aveva sempre criticato e denunciato come “al di fuori delle regole” il trattamento giudiziario riservato ai Marò nel Kerala). In particolare, si indicava come tale processo “dovesse essere condotto nell’ambito della legislazione indiana con l’applicazione del Codice Criminale indiano, e della Convenzione dell’ONU Unclos del 1982. Infine, veniva stabilito che alla luce di queste determinazioni, il fascicolo relativo ai Marò fosse trasferito dal tribunale di Kollam a quello ad hoc appena questo fosse costituito.
In realtà, quel documento contiene anche una considerazione introdotta e sottolineata da parte dell’Italia, ma che la Corte Suprema di New Delhi non critica, nè mette in discussione facendola così indirettamente propria e ponendola alla base delle sue decisioni sopra riportate, laddove si riferisce che “the two men, who belonged to the country’s armed forces, were acting bona fide when they fired, believing the fishermen to be pirates, cioè che “i due uomini, che appartengono alle forze armate del Paese, agirono in buona fede ritenendo che i pescatori fossero dei pirati”. Non per nulla, di lì in poi la dicitura sul frontespizio del fascicolo dei Marò divenne : “Procedimento contro due marines italiani accusati di aver causato la morte di due pescatori scambiati per pirati”. Con questa formulazione, la Corte intendeva anche porre qualche cautela per il fatto che si prospettava il rinvio a giudizio di due militari di un Paese amico, appartenenti ad un esercito alleato nella lotta internazionale al terrorismo, “catturati” in modo a dir poco discutibile nell’esercizio delle loro funzioni, e fatti oggetto di trattamento illegale, al punto di essere ancora oggi trattenuti senza che alcuna precisa accusa sia stata mai formulata nei loro confronti.
Tutto chiaro, quindi, almeno all’apparenza, circa quelli che erano gli intendimenti del massimo organo giuridico dell’India in merito alla tortuosa vicenda umana e giuridica dei nostri due fucilieri. Ed invece pare proprio che non sia così. Sappiamo tutti come il tribunale ad hoc istituito dal governo fosse in realtà quello preposto a perseguire gravi fatti di terrorismo, manipolato dall’agenzia federale NIA in combutta con forze colpevoliste annidate nel governo e nelle istituzioni del Kerala, autorizzato per statuto istitutivo a comminare solo pene capitali, ignorando a bella posta la chiara indicazione circa l’applicabilità solo del Codice Criminale indiano e della Unclos 1982 al caso Marò. Ora che questa pericolosa china è stata risalita disinnescando una situazione pericolosissima e foriera di estreme conseguenze, ecco che si fanno apparire nel cielo dei nostri militari altre nuvole nerissime e minacciose. Lo Stato del Kerala non si è mai rassegnato ad accettare quella sentenza dell’Apex Court. Il primo ministro del locale governo, il famigerato Oomen Chandi, sostenuto da New Delhi dal keralese A.K. Antony, attuale ministro della difesa del governo centrale dell’India, tirato in ballo quest’ultimo dai suoi ricattati intermediatori nel processo di Busto Arsizio, presto replicato in India, per quella fornitura dei 12 superelicotteri AgustaWestland, per la quale è indagato per la mega-tangente da 51 milioni di dollari che volteggiava attorno a quell’affare, hanno continuato per mesi a tramare nell’ombra ed a tessere la tela del ragno per “recuperare” i Marò e poterli processare a modo loro nel Kerala.
Da giorni sulla stampa indiana circolavano articoli sarcastici sul
conto dei Marò e della loro “prigionia dorata”. Ospiti dell’ambasciata
italiana, lavorano, usano internet, telefonano con Skype, hanno piena
libertà di movimento, spesso si incontrano con i familiari in arrivo
dall’Italia. Si chiedono allora i giornali indiani a quali altri
accusati di omicidio viene assicurato un trattamento di favore del
genere. Ma questi giornali che fanno trasparire tutto il loro
ingiustificato livore ed un censurabile atteggiamento giustizialista,
nelle loro elucubrazioni dimenticano un piccolo, ma non trascurabile,
particolare : dopo 808 giorni di detenzione, nessuno in India è riuscito
a formulare un capo di accusa nei confronti di Latorre e Girone, lo
status giuridico dei quali è ancora quello di iscritti nel registro
degli indagati. Il fatto illegale e straordinario è che siano costretti
contro la loro volontà a restare in India senza che nessuno sia in grado
di giustificare il perchè, non che siano trattati meglio di assassini o
di veri criminali in attesa di giudizio. Non sono neppure indagati e
nessuno, ripetiamo, nè il tribunale di Kollam nel Kerala, nè la Corta
Suprema, nè il tribunale straordinario messo su dalla NIA a New Delhi,
con udienza fissata per il 31 luglio prossimo nel corso della quale si
mira a tradurre in carcere i Marò in attesa del processo, è riuscito a
congegnare un qualsivoglia castello accusatorio per criminalizzarli e
giustificarne una così lunga detenzione preventiva.
L’avvocato Usha Nandini, che assiste nel ricorso Freddy Bosco, ha affermato che “questa petizione mira a portare la causa nel suo luogo naturale, il Kerala, perchè se pure la Corte Suprema abbia stabilito che il Kerala non ha giurisdizione per intervenire nel caso, mentre tale giurisdizione è dello Stato centrale dell’India, è evidente che il Kerala è parte di questo Stato e che è naturale che il processo possa svolgersi in un luogo il più vicino possibile a dove è avvenuto l’incidente”. Siamo al delirio. Provate a sottrarre all’FBI un caso che è di competenza federale con la giustificazione che così a giudicare sarebbero magistrati geograficamente più vicini al luogo in cui è avvenuto il fatto. Noi contiamo molto sul fatto che Mal Lodha è un fustigatore dei vezzi più odiosi, come quello di permettere agli avvocati di trasferire cause nei distretti dove possono farsi forti dell’appoggio di togati amici o parenti. E anche sul fatto che lui abbia più volte affermato che nulla permette di incriminare i Marò, tutt’al più rubricabili come persone informate sui fatti. Speriamo che il ricorso sia respinto a fine giugno, quando alla fine delle vacanze giudiziarie il ricorso dovrebbe essere esaminato. Appare impossibile che la stessa corte che ha stabilito la non competenza del Kerala sul caso possa ora affermare il contrario. Ma con gli indiani non si sa mai e nei panni di Renzi ci preoccuperemmo e cercheremmo di dedicare più tempo alla vicenda dei Marò, che non ad avallare ricostruzioni improponibili e contraddette dai fatti circa la tormentata finale di Coppa italia.
di Rosengarten - 7 maggio 2014 - replica
fonte: http://www.qelsi.it
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