Il rifiuto opposto per evidenti, e non limpide, ragioni di Stato dagli inquirenti del Cairo di consegnare sic et simpliciter ai loro omologhi italiani i tabulati e le eventuali registrazioni di telefonate intercettate nel quadro dell’inchiesta egiziana sull’omicidio del povero e compianto ricercatore universitario italiano Giulio Regeni rappresentano, a mo’ di eterogenesi dei fini, una sorta di lezione di civiltà giuridica alla magistratura italiana. Da parte di un Paese dittatoriale. E questo è il paradosso.
La magistratura italiota, abituata  come è a spadroneggiare ed a 
svillaneggiare su tutti gli esponenti della politica italiana a suon di 
conversazioni, anche private e irrilevanti dal punto di vista penale, 
spiattellate ai giornali amici, vedi “Il Fatto Quotidiano” e “la 
Repubblica”, al solo scopo di sputtanare questo o quel personaggio, 
politico e non solo, a patto che stia sui cosiddetti al pensiero unico 
del forcaiolismo made in Italy, è stata presa in contropiede dal “gran 
rifiuto”. Fatto non “per viltade”, ma per ovvi motivi di realpolitik, a 
maggior ragione in un regime che è nato da un colpo di Stato contro un 
precedente regime di tipo fondamentalista islamico, a sua volta nato 
dalle ceneri della nazione che fu governata (con il pugno di ferro per 
circa 40 anni) da Mubarak dopo le cosiddette rivolte arabe.
Per la serie “accà nisciuno è fesso”, i magistrati egiziani, che 
chiaramente dipendono mani e piedi dal potere esecutivo del Cairo 
impersonato pro tempore dal generale Abd al-Fattah al-Sisi, si sono 
guardati bene, dal loro comprensibile (ma non condivisibile) punto di 
vista, dal mettere nelle mani della Procura romana gli eventuali arcana 
imperi che potrebbero esserci dietro al caso dell’omicidio di Giulio 
Regeni. E ancora di più si sono guardati bene dal consegnare 
all’opinione pubblica italiana gli eventuali pettegolezzi che potrebbero
 risultare da intercettazioni fatte a strascico dalle autorità militari e
 giudiziarie egiziane. A quelle latitudini i segreti vengono custoditi 
mediante la fucilazione alla schiena e questo di certo non è un bene. Ma
 il disinvolto comportamento di gran parte dei Pm della penisola, 
coniugato con la geometrica potenza di giornali e giornalisti, non di 
certo con la “G” maiuscola, che vivono dell’effetto “merda nel 
ventilatore” ha dato il destro anche alle autorità giudiziarie di un 
Paese non democratico (che controlla tutto come in ogni stato di polizia
 che si rispetti) ad opporre un “no” diplomatico che eventualmente potrà
 essere facilmente giustificato anche nelle sedi internazionali che più o
 meno tutelano gli standard minimi di stato di diritto nei Paesi 
aderenti all’Onu.
Se è vero infatti che l’Egitto odierno è quello che è, cioè uno stato
 di polizia con decine se non centinaia o migliaia di desaparecidos e di
 morti ammazzati da polizia e servizi segreti, o “mukhabarat” che dir si
 voglia,  come erano il Cile o l’Argentina negli anni Settanta, è 
altrettanto certo che l’Italia che ha consegnato le chiavi di ogni 
palazzo del potere ai propri magistrati, che ormai sono diventati 
istituzionalmente “uber alles”, non può facilmente pretendere rispetto, 
“verità per Regeni” o per chicchessia mandando avanti questi Pm 
d’assalto che da soli officiano i riti giudiziari nostrani. La giustizia
 italiana è talmente un’anomalia mondiale che anche uno stato canaglia 
può farci le pernacchie quando chiediamo le estradizioni dei criminali, 
come è accaduto con Paesi del sud-est asiatico quando abbiamo reclamato 
trafficanti di eroina di grosso livello. Abbiamo, con buona pace del 
Guardasigilli Andrea Orlando, che fa quel che può, e quel che non può lo
 proclama, le carceri nel degrado più totale, appena un gradino sopra a 
standard come quelli dell’Egitto o di altri Paesi nordafricani; non 
abbiamo separate le funzioni né tantomeno le carriere dei pubblici 
ministeri da quelle di chi giudica; nessuno controlla che le 
intercettazioni siano filtrate prima di finire in pasto al pubblico 
secondo la scelta inappellabile di Pm protagonisti e cronisti d’assalto;
 non garantiamo neanche l’istituto del processo con la persona presente 
in aula, che ci aspettiamo?
Che gli egiziani si risveglino, il giorno dopo averci consegnato 
tabulati e intercettazioni, leggendo non solo con chi parlava questo o 
quel personaggio politico del Cairo, questo o quel poliziotto, ma anche 
se faceva o meno le corna alla moglie o se nel privato fosse stato un 
bisessuale, un ubriacone o un amante dell’hula hoop? Questo andazzo 
dell’”intercettateci tutti e poi sputtanateci democraticamente sui 
giornali” potrà valere forse in un Paese ormai abituato a vivere in 
maniera schizofrenica le istituzioni e la politica, come è diventato il 
nostro da “Mani pulite” in avanti. Ma al Cairo, al netto del loro stato 
di polizia, è chiaro che qualcuno può risponderci “ma quali tabulati 
d’Egitto!”. E il paradosso, lo ribadisco, è che ci tocca anche prendere 
lezione di stato di diritto da un Paese che uccide la gente nelle 
stazioni di polizia o negli scantinati dei servizi di sicurezza.
di Dimitri Buffa - 2 aprile 2016
fonte: http://www.opinione.it 

 
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