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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

12/04/16

Caso Regeni, ma quali tabulati d’Egitto?!






Il rifiuto opposto per evidenti, e non limpide, ragioni di Stato dagli inquirenti del Cairo di consegnare sic et simpliciter ai loro omologhi italiani i tabulati e le eventuali registrazioni di telefonate intercettate nel quadro dell’inchiesta egiziana sull’omicidio del povero e compianto ricercatore universitario italiano Giulio Regeni rappresentano, a mo’ di eterogenesi dei fini, una sorta di lezione di civiltà giuridica alla magistratura italiana. Da parte di un Paese dittatoriale. E questo è il paradosso.
La magistratura italiota, abituata  come è a spadroneggiare ed a svillaneggiare su tutti gli esponenti della politica italiana a suon di conversazioni, anche private e irrilevanti dal punto di vista penale, spiattellate ai giornali amici, vedi “Il Fatto Quotidiano” e “la Repubblica”, al solo scopo di sputtanare questo o quel personaggio, politico e non solo, a patto che stia sui cosiddetti al pensiero unico del forcaiolismo made in Italy, è stata presa in contropiede dal “gran rifiuto”. Fatto non “per viltade”, ma per ovvi motivi di realpolitik, a maggior ragione in un regime che è nato da un colpo di Stato contro un precedente regime di tipo fondamentalista islamico, a sua volta nato dalle ceneri della nazione che fu governata (con il pugno di ferro per circa 40 anni) da Mubarak dopo le cosiddette rivolte arabe.
Per la serie “accà nisciuno è fesso”, i magistrati egiziani, che chiaramente dipendono mani e piedi dal potere esecutivo del Cairo impersonato pro tempore dal generale Abd al-Fattah al-Sisi, si sono guardati bene, dal loro comprensibile (ma non condivisibile) punto di vista, dal mettere nelle mani della Procura romana gli eventuali arcana imperi che potrebbero esserci dietro al caso dell’omicidio di Giulio Regeni. E ancora di più si sono guardati bene dal consegnare all’opinione pubblica italiana gli eventuali pettegolezzi che potrebbero risultare da intercettazioni fatte a strascico dalle autorità militari e giudiziarie egiziane. A quelle latitudini i segreti vengono custoditi mediante la fucilazione alla schiena e questo di certo non è un bene. Ma il disinvolto comportamento di gran parte dei Pm della penisola, coniugato con la geometrica potenza di giornali e giornalisti, non di certo con la “G” maiuscola, che vivono dell’effetto “merda nel ventilatore” ha dato il destro anche alle autorità giudiziarie di un Paese non democratico (che controlla tutto come in ogni stato di polizia che si rispetti) ad opporre un “no” diplomatico che eventualmente potrà essere facilmente giustificato anche nelle sedi internazionali che più o meno tutelano gli standard minimi di stato di diritto nei Paesi aderenti all’Onu.
Se è vero infatti che l’Egitto odierno è quello che è, cioè uno stato di polizia con decine se non centinaia o migliaia di desaparecidos e di morti ammazzati da polizia e servizi segreti, o “mukhabarat” che dir si voglia,  come erano il Cile o l’Argentina negli anni Settanta, è altrettanto certo che l’Italia che ha consegnato le chiavi di ogni palazzo del potere ai propri magistrati, che ormai sono diventati istituzionalmente “uber alles”, non può facilmente pretendere rispetto, “verità per Regeni” o per chicchessia mandando avanti questi Pm d’assalto che da soli officiano i riti giudiziari nostrani. La giustizia italiana è talmente un’anomalia mondiale che anche uno stato canaglia può farci le pernacchie quando chiediamo le estradizioni dei criminali, come è accaduto con Paesi del sud-est asiatico quando abbiamo reclamato trafficanti di eroina di grosso livello. Abbiamo, con buona pace del Guardasigilli Andrea Orlando, che fa quel che può, e quel che non può lo proclama, le carceri nel degrado più totale, appena un gradino sopra a standard come quelli dell’Egitto o di altri Paesi nordafricani; non abbiamo separate le funzioni né tantomeno le carriere dei pubblici ministeri da quelle di chi giudica; nessuno controlla che le intercettazioni siano filtrate prima di finire in pasto al pubblico secondo la scelta inappellabile di Pm protagonisti e cronisti d’assalto; non garantiamo neanche l’istituto del processo con la persona presente in aula, che ci aspettiamo?
Che gli egiziani si risveglino, il giorno dopo averci consegnato tabulati e intercettazioni, leggendo non solo con chi parlava questo o quel personaggio politico del Cairo, questo o quel poliziotto, ma anche se faceva o meno le corna alla moglie o se nel privato fosse stato un bisessuale, un ubriacone o un amante dell’hula hoop? Questo andazzo dell’”intercettateci tutti e poi sputtanateci democraticamente sui giornali” potrà valere forse in un Paese ormai abituato a vivere in maniera schizofrenica le istituzioni e la politica, come è diventato il nostro da “Mani pulite” in avanti. Ma al Cairo, al netto del loro stato di polizia, è chiaro che qualcuno può risponderci “ma quali tabulati d’Egitto!”. E il paradosso, lo ribadisco, è che ci tocca anche prendere lezione di stato di diritto da un Paese che uccide la gente nelle stazioni di polizia o negli scantinati dei servizi di sicurezza.

di Dimitri Buffa - 2 aprile 2016


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