La 'manovra elettorale' di Matteo Renzi
Assunzioni a valanga nel pubblico, l’accordo con i sindacati sulle pensioni, la testa di ariete dell’inutile abolizione di Equitalia. Ecco la finanziaria che dovrebbe consentire a Renzi di vincere il referendum. Dovrebbe. L'opinione
Che la legge finanziaria di Matteo Renzi fosse finalizzata non alla saggia ricostruzione di un’economia provata da una lunga crisi di cui non si riesce a predire con certezza la fine ma alla brutale costruzione del consenso in vista del referendum del 4 dicembre, non si potevano avere dubbi.
La vocazione cinica e utilitaristica del premier non si è smentita nemmeno questa volta. Nè poteva accadere dal momento che la sopravvivenza di Renzi alla guida di palazzo Chigi, per quanto il diretto interessato possa affermare il contrario, dipende proprio dall’esito del voto sulla riforma della costituzione.
Un voto che di giorno in giorno diventa sempre più incerto. Il quadro complessivo si va sempre più negativo per il segretario del Pd tanto che i ‘No’, secondo gli ultimi sondaggi, avrebbero superato i ’Sì’.
Se questo fosse il risultato definitivo, tale da essere ratificato ad urne chiuse, per Renzi non ci potrebbe essere altra strada se non quella di rassegnare le dimissioni da capo del governo.
Un passaggio indispensabile per un premier che non è stato eletto dai cittadini e che è stato imposto dalle trame di potere che ha impeccabilmente orchestrato l’ex presidente della repubblica Giorgio Napolitano.
Non si spiega in nessun altro modo l’infornata di assunzioni che riguardano il settore pubblico: 25mila nella scuola, 10mila nelle forze armate e nella sanità. Nè si spiega altrimenti l’abolizione di Equitalia che non modifica di una virgola il carico fiscale su famiglie e imprese. Si tratta infatti di una semplice modifica in merito al ‘come’ vengono salassati gli italiani e non in merito al ‘quanto’ sono costretti a pagare per tenere in piedi la baracca di uno Stato iniquo e inefficiente.
La manovra, in tutto, cuba 27 miliardi. Secondo i calcoli del ministro dell’Economia Padoan porterà il rapporto deficit-Pil al 2,3% e un livello di crescita del Pil pari all’1%.
Un rialzo netto quello del deficit-Pil che certamente non piacerà alla Commissione europea che ora dovrà pronunciarsi sul Def e che era disposta a tollerare quotazioni inferiori di almeno tre punti. Il dato licenziato dalla legge di bilancio ha il difetto plateale di non arginare minimamente l’entità del debito pubblico. Sulle stime di crescita del Pil, invece, si è già espresso con una secca bocciatura l’Ufficio di bilancio del parlamento giudicando poco realistici i programmi del governo.
Sul versante delle tasse la diminuzione dell’Ires, il canone Rai a 90 euro e il taglio dell’Irpef che viene rinviato al 2018 appaiono una magra cosa rispetto agli annunci trionfalistici di Renzi. Anzi, c’è grande preoccupazione per gli aumenti sul fronte di Iva, evasione, giochi. E in ogni caso, come sempre accade con i conti pubblici, tanto si elargisce e tanto si toglie. L’abbassamento dell’Ires dal 27.5% al 24%, per esempio, è compensato da una sensibile contrazione dell’Ace, l’aiuto alle crescita delle imprese, che finora era pari alla deduzione del 4,75% sul reddito per gli utili reinvestiti.
All’interno di una disponibilità che annovera misure per sostenere la competitività delle imprese in merito a ricerca, sviluppo e innovazione ci sono provvedimenti ridicoli come i 500 milioni di euro per l’Africa e l’una tantum da 500 euro a migrante da destinare ai comuni per le spese sostenute nella fase dell’accoglienza. I 600 milioni che dovrebbero andare a vantaggio della famiglia si rilevano macroscopicamente inadeguati davanti all’urgenza di dare fiato ai nuclei con genitori e figli che vivono ormai in gravi difficoltà e che, ancora una volta, sono stati dimenticati.
L’accordo con i sindacati, che mira a ricompattare il fronte della sinistre in vista della prova titanica del referendum, ha fruttato 7 miliardi per l’Ape, la misura rivolta ai lavoratori con 30 anni di contributi, e la quattordicesima ai pensionati che percepiscono un assegno mensile di 752 euro.
Renzi, a commento della finanziaria, ha detto che «l’Italia non sta ancora bene, ma va meglio di due anni fa», utilizzando una strategia retorica che rivela più cautela e un’inversione di tendenza rispetto ai messaggi lunari e propagandistici che ha lanciato in modo martellante nell’ultimo anno.
Messaggi che, offendendo l’intelligenza degli italiani, dichiaravano una realtà fatta di miracoli quali le centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro creati grazie al Jobs Act e una ripresa già rigogliosa.
Ma i dubbi sulla risposta dell’Europa davanti agli sforamento del Def e la necessità di trovare le coperture per portare a compimento il piano delle assunzioni di massa indeboliscono ulteriormente l’impianto di una finanziaria che ha spinto l’acceleratore sulla spesa. Obbiettivo che viene perseguito senza dotarsi delle necessarie certezze di far quadrare i conti tanto che, solo dall'incognita della voluntary disclosure, il governo spera di recuperare due miliardi di euro sanando l'evasione di attività non dichiarate all’estero. Ma si tratta di mere previsioni che potrebbero anche non avverarsi.
Renzi, inoltre, ha fatto tabula rasa della spending review ormai relegata ad elemento assolutamente marginale.
La sua è manovra tutta proiettata verso le assunzioni nel pubblico e che punta a persuadere l’opinione pubblica con furbizie demagogiche quali l’abolizione di Equitalia.
La legge di bilancio ha come scopo prioritario la creazione di sacche tangibili di consenso per consentire al premier e al Pd di non rimanere falcidiati dalla trappola elettorale del referendum. E’ questa la ragione che l’ha vista nascere e questo ne è il criterio dominante che, agli occhi di chi ha concepito la manovra, è da interpretare come il vero punto di forza dell'intera operazione.
La strategia è chiara: un po’ di mance alle imprese e ad una addomesticata Confindustria, iniezioni di denaro fresco nel pubblico impiego per ammorbidire i target elettorali della sinistra, una soluzione di forte impatto comunicativo come l’annullamento degli odiati riscossori di Equitalia.
Ma in politica le cose non sempre vanno come dovrebbero andare. E molto spesso accade che ciò che viene interpretato all’inizio come un elemento di vantaggio si trasformi, e anche in tempi piuttosto rapidi, nel suo esatto contrario.
La finanziaria elettorale di Matteo Renzi potrebbe rivelarsi, alla fine, del tutto sterile ai fini della durata di un’esperienza di governo minata dal ricatto del referendum.
(Roberto Bettinelli) 17 ottobre 2016
fonte: http://www.inviatoquotidiano.it
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