Il leader islamista Ghwell cerca il sostegno di
Tobruk per destituire il premier Serraj. Pensare di unificare la Libia
senza il generale Haftar è stato un errore dell’ONU e l’Italia
Nonostante il sostegno della comunità internazionale, il Governo di Accordo Nazionale di Fayez al Serraj
che dallo scorso mese di marzo tenta di riportare un minimo di ordine
nel caos libico appare sempre più in crisi, inadeguato e debole. Dopo il
colpo di stato del 15 ottobre, le milizie islamiste fedeli a quello che potremmo definire il “governo autonomo” di Tripoli retto da Khalifa Ghwell,
fomentate dalla massima autorità religiosa libica ossia il gran Mufti
della Capitale, hanno preso il controllo del Rixos Hotel, sede
dell’esecutivo Serraj, e di altri palazzi governativi. Da allora, la
situazione in Libia, per quanto riguarda le prospettive di pacificazione
del Paese, è tornata in alto mare.
Durante il golpe il premier Serraj si trovava a Tunisi, dove si era
riunito con i suoi più stretti collaboratori per tentare di elaborare
una proposta politica in grado di consentirgli di formare un esecutivo e
di riportare un minimo di stabilità nel Paese. Stando a quanto scrive Libya Herald,
il premier del Governo di Accordo Nazionale è rientrato a Tripoli solo
oggi, martedì 18 ottobre, poiché fino a ieri le condizioni di sicurezza
nella capitale non gli avevano permesso nemmeno di accedere alla base
navale di Abu Sitta, bombardata con razzi dalle milizie islamiste fedeli
al cosiddetto parlamento di Tripoli e allo stesso Ghwell, che ora si
proclama capo del “Governo di Salvezza Nazionale”.
La proposta di Ghwell
Nelle ore successive all’assalto degli edifici istituzionali, Ghwell ha dichiarato che “Il Consiglio Presidenziale (quello che Serraj chiama “Governo di Accordo Nazionale”, ndr) ha avuto molte possibilità di formare un governo, ma ha fallito trasformandosi in un esecutivo illegale”.
Il leader golpista ha ora intenzione di mettere in piedi una nuova
amministrazione, formata da rappresentanti del suo esecutivo e da
esponenti del parlamento di Tobruk (fino ad ora rivale
del parlamento di Tripoli) e ha dichiarato di aver già preso contatti
con il suo “collega” di Tobruk, l’altro primo ministro Abdullah Al Thinni.
(Khalifa Ghwell)
Si tratta di una mossa molto scaltra in quanto il parlamento di Tobruk è schierato con il generale Khalifa Haftar,
l’uomo forte della Cirenaica le cui truppe hanno assunto il controllo
delle principali installazioni petrolifere libiche nelle ultime
settimane e godono dell’aperto sostegno egiziano nonché del supporto
militare francese. È stata proprio l’incapacità del premier Serraj di
raggiungere un accordo con Al Thinni e con Haftar, infatti, ad
allontanare le prospettive della formazione di un governo unitario e
credibile. Così, la mossa di Ghwell scompiglia tutte le carte in tavola e
rende la posizione di Serraj ancora più precaria, nonostante il
sostegno ricevuto sinora dalle Nazioni Unite.
L’imbarazzo delle Nazioni Unite
L’inviato speciale in Libia per l’ONU, Martin Kobler, si è affrettato a condannare il golpe del 15 ottobre affermando che “quest’azione
è destinata a essere fonte di ulteriore disordine e insicurezza e deve
finire per garantire la salvezza del popolo libico”. Disordine e
insicurezza regnano però sovrani in Libia, mentre Al Serraj dal suo
esilio a Tunisi si è appellato alle milizie che ancora gli restano
fedeli affinché “mettano in carcere tutti quelli che hanno cospirato per il golpe e tutti coloro che tramano per costituire un governo parallelo”.
Un appello che ha scatenato alcuni isolati scontri nelle strade della
capitale ma che è sostanzialmente destinato a cadere nel vuoto, visto
che le milizie fedeli al suo governo non ricevono la paga da sei mesi e
sembrano voler restare alla finestra, per sfruttare eventualmente la
nuova situazione e possibilmente cambiare bandiera.
(Roma, conferenza sulla Libia del 13 dicembre 2015: da sinistra Kerry, Gentiloni e Kobler)
La posizione dell’Italia
L’Italia, che finora ha sostenuto il governo di Serraj e che con la cosiddetta “Operazione Ippocrate” ha inviato un contingente di medici, infermieri e soldati in Libia, com’era prevedibile (e come era stato previsto da Lookout News)
si trova ora in una posizione estremamente delicata. Perché un conto è
inviare aiuti umanitari a un governo stabile e legittimo, un altro è
schierarsi con una delle fazioni che si affrontano in un conflitto
civile. Roma ha puntato molto, forse troppo, su Fayez Al Serraj, così
ora ci troviamo alleati di un esecutivo che rischia di trasformarsi
rapidamente in un governo in esilio in Tunisia.
Intanto, l’ISIS è ancora presente a Sirte, dove i
jet americani hanno compiuto negli ultimi tre giorni 36 incursioni a
sostegno delle milizie di Misurata che da mesi tentano di espellere le
forze del Califfato dalla loro ultima roccaforte libica. Anche di fronte
a ciò, Tripoli e Tobruk intrecciano manovre politico-militari miranti a
eliminare il governo evanescente che l’Italia sostiene.
(Un’area di Sirte liberata dai miliziani di ISIS, 14 ottobre 2016)
Forse è giunto il momento per il governo italiano di riflettere sul
nostro impegno in Libia con più realismo e pragmatismo, evitando che
nostri contingenti si trovino d’ora in avanti al centro di un ginepraio
incontrollabile e siano considerati non più come un sostegno per tutto
il popolo libico (com’era nelle intenzioni che hanno portato all’avvio
della “Operazione Ippocrate”), ma sostenitori di una delle parti in
causa. Con le conseguenze che purtroppo è facile immaginare, nel ricordo
di quanto è successo ai nostri soldati in Libano negli anni Ottanta, e
in Somalia negli anni Novanta.
di Alfredo Mantici - 18 ottobre 2016
fonte: http://www.lookoutnews.it
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