Un mio amico, che ha la fortuna di non essere impegnato a dover
capire qualcosa di diritto, di leggi e di processi, sentendo parlare
della condanna dell’Italia a pagare a Contrada per l’illegittima
condanna a dieci anni di reclusione, diecimila euro di risarcimento dei
danni ha esclamato: adesso ci si mette anche l’Europa a farsi beffa di
quel pover’uomo.
Beati gli ignoranti, ai quali è dato talvolta (vi pare poco?) di
capire l’essenza delle cose al di là delle complicazioni astruse ed
inconcludenti costruite dai sapienti.
Queste belle “questioni di principio” sulle quali la Corte Europea
ci ammannisce il distillato del sapere dei suoi componenti, hanno il
difetto (non certo secondario) di “sorvolare” sul fatto che i diritti di
cui si discute sono di uomini e non di cavie. Ora tutti possiamo
cercare di bearci prendendo atto della affermazione del principio, che,
al di là di quella beffarda cifra del risarcimento di 10.000 euro è
intervenuta in quella disgraziata vicenda.
Ma ha ragione quel mio amico: la beffa della cifra irrisoria liquidata quale risarcimento dei danni e “pretium doloris” è l’unica cosa chiara e certa in questa sentenza.
Ma ha ragione quel mio amico: la beffa della cifra irrisoria liquidata quale risarcimento dei danni e “pretium doloris” è l’unica cosa chiara e certa in questa sentenza.
Perché ancora una volta i giornalisti italiani, insuperabili nella
abilità di nascondere episodi importanti ed eclatanti al pubblico dei
loro lettori (è di questi giorni la “soppressione” che solo “Il
Garantista” ha “bucato”, della piena assoluzione dei duecento e passa
abitanti di Platì, in Calabria fatti arrestare una dozzina di anni fa
dall’attuale Ministro della Giustizia “de facto” Gratteri (essendo ogni
giorno più chiaro che il povero Orlando, voluto al suo posto da
Napolitano conta a Via Arenula quanto il due a briscola) la loro
attenzione per la sentenza della Corte Europea sul caso Contrada è stata
scarsa, se non assai “lenta” e la loro esposizione del contenuto
piuttosto approssimativa ed indulgente. Una confusione solo in parte
giustificata dal fatto che le sentenze sui ricorsi di Contrada erano più
di una.
Diecimila euro a parte, un’altra beffa si è aggiunta a quelle che
hanno segnato la tragedia di Bruno Contrada. Ha vinto la parte, la causa
di principio del diritto penale dei paesi civili, ma per averlo
l’Italia ha violato violando la violazione che sembra, invece essere
stata “legittimata” dalla sentenza europea.
Per cercare di chiarire il pasticcio, che, ignorato da giornalisti
e, per quel che mi risulta, da luminari più o meno luminosi del diritto
in circolazione abituale anche nelle redazioni dei giornali e negli
studi televisivi, qualcuno potrà pensare essere il frutto triste della
mia vecchiaia, bisogna ricordare che Contrada è stato condannato per
“concorso esterno in associazione mafiosa”, il famoso (cioè famigerato)
reato fantasma, che i magistrati hanno fabbricato “in casa”,
inventandolo nelle loro sentenze, in un primo tempo negando che si
trattasse di altro che di una sottospecie del reato di partecipazione ad
associazione di stampo mafioso, poi sempre più disinvoltamente facendo a
meno di tale camuffamento.
Anche nel caso Contrada, dunque, era stato violato il principio
che, quando si parlava più in latino che in inglese, si riassumeva nel
brocardo “nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali”.
Principio recepito e conclamato dall’art. 7 della Convenzione Europea
dei diritti dell’Uomo.
Ingroia, il grande giurista della Palermo dell’Era di Crocetta e
del processo dello Stato imputato di aver tentato di subire i ricatti
della mafia, già P.M. nel processo a Bruno Contrada, ha sfoderato un
commento inviperito contro la sentenza che avrebbe “male applicato
l’art. 7 della Convenzione Europea”, perché “anche senza il reato di
concorso esterno Contrada, colpevole, colpevolissimo, avrebbe dovuto
“comunque” essere condannato per favoreggiamento” (un “lottatore” come
Ingroia non bada a certe piccolezze).
In realtà i bravi giudici europei, si dovrebbe dire, sulla
questione chiara e semplice dalla violazione dell’art. 7 della
Convenzione “se ne sono disinvoltamente lavate le mani”.
Ma adottando un metodo che noi Italiani ci ostiniamo a chiamare “all’italiana”, hanno cercato di “svicolare” con un pasticcetto.
Hanno affermato che, data per scontata (e perdonata) la violazione
dell’art. 7, l’Italia aveva però violato tale perdonabile violazione,
non tenendo conto che la “creazione” del nuovo reato da parte nongià del
Parlamento, ma degli stessi giudici era avvenuta solo nel 1994, dopo i
fatti contestati al povero Contrada.
Anzi, ad esser precisi (si fa per dire) sono stati ancor più
viscidi ed ambigui: hanno rilevato che sì, il “concorso esterno” era
stato inventato dai giudici prima di quella data, ma era ancora “molto
confuso ed impreciso”.
Un reato inventato da un Organo non Legislativo ma giudiziario, che
per un certo periodo era “confuso”. E la giurisprudenza “creativa” non
doveva essere “retroattiva”.
Sì certo, molto confuso è questo (si fa per dire) ragionamento.
Ed allora? Dobbiamo dire che sulla testa di Contrada è piovuta, dopo molte baggianate “nazionali”, anche un’”eurocazzata”?
Al mio paese correva il proverbio “tempo di carestia pane di veccia”.
Già. Questo marchingegno (io non vorrei chiamarlo proprio
eurocazzata) trova infatti critici più severi che noi. E per opposti
motivi.
Antonio Ingroia, avvocato, manager pubblico e commissario regionale
alla ex provincia (regionale) di Trapani, ex candidato alla Presidenza
del Consiglio dei Ministri ed ex P.M. della Procura di Palermo che, a
suo tempo, trattò l’inchiesta ed il processo contro Bruno Contrada ha
espresso il suo illuminato giudizio: “La Corte Europea ha preso una
solenne cantonata… i giudici parlano di una violazione dell’art. 7 della
Convenzione Europea, ma tutto nasce da un fraintendimento: hanno
pensato che i fatti contestati a Contrada non fossero punibili in
assenza di reato di concorso esterno in associazione mafiosa, ma non è
così perché sarebbero stati comunque punibili per favoreggiamento…”.
Per questo campione del “giure lottatorio”, purché ci sia una legge
penale, un imputato può benissimo essere condannato per un reato
qualsiasi diverso da quello a lui attribuito. Tanto più se esso, in
realtà non c’è e non è conforme a norme sovraordinate (europee o
costituzionali). Da un Ingroia non c’era da attendersi di meglio.
La sentenza (anzi, le sentenze) Contrada hanno creato un putiferio.
Altri campioni del giustizialismo antigarantista si sono mostrati meno disinvolti di Ingroia: hanno ingoiato il rospo.
E, poi, persone serie e giuristi autentici hanno finito per farsi
trascinare dal loro compiacimento a dire qualche mezza cavolata.
Fiandaca ha dichiarato che ora il legislatore deve intervenire per
“meglio definire il reato di concorso esterno”. Cosa che è un pochetto
di più della metà di una cavolata, perché, in sostanza significa:
“miglioriamo l’abuso…”.
E già, perchè tutti gli altri più o meno astrusi ragionamenti
girano intorno alla “legittimazione” che, sia pure con l’avvertimento
che si trattava di una questione che le parti avevano data per pacifica
(!!??) per la creazione giurisprudenziale di un reato (e che reato!) la
sentenza Contrada non si può negare che costituisca una forma più o meno
esplicita di legittimazione dello strapotere del “giudice legislatore”.
Una vittoria anch’essa “all’italiana”, viscida e contorta del “diritto
libero” contro cui Piero Calamandrei spezzava una lancia nel suo
coraggioso discorso del 15 gennaio 1940, quando esso era la teoria
ufficiale del diritto penale nazista.
Io sarei un po’ meno portato, quindi, all’entusiasmo ed
all’ottimismo. Auguri a quanti confidano che queste sentenze aprano le
porte delle galere a questo o quel condannato.
Attenzione: anche in Europa, di fronte alle più manifeste
baggianate, si cerca un compromesso. Magari si afferma che le baggianate
non devono avere effetti retroattivi.
Che Iddio ce la mandi buona.
di Mauro Mellini - 15 aprile 2015
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