L’ultimo premier insediatosi a Tripoli, l’imprenditore miliardario Ahmed Miitig improvvisamente entrato in politica lo scorso 4 maggio con l’appoggio dei Fratelli Musulmani e altri fondamentalisti islamici, non è riuscito a portare alcuna soluzione alla crisi accentuando al contrario i contrasti tra islamisti e laici. Del resto la nomina di Mitiig con una votazione quasi clandestina al Parlamento e con un numero di consensi inferiore a quello richiesto dal regolamento aveva indotto molti a gridare al “golpe” orchestrato dai Fratelli Musulmani del partito “Giustizia e Costruzione” ben determinati a prendere il controllo del Paese conquistando alla loro causa molti deputati eletti come indipendenti. La nomina di MItiig ha fatto perdere ogni credibilità residua alla classe politica almeno agli occhi dei militari. Non a caso poco dopo il comunicato governativo un altro comandante militare, Wanis Abu Khamada, capo delle forze speciali libiche, ha dichiarato che gli uomini della sua unità sono “pronti a combattere contro il terrorismo” e ad affiancare soldati e ufficiali già schierati con Haftar al quale hanno portato in dotazione aerei, elicotteri e pezzi d’artiglieria pesante. Due basi aeree, Tobruk e Benina (Bengasi), erano passate nella notte con il generale.
La comunità internazionale per ora tace, forse aspettando gli eventi o in attesa di capire quali schieramenti si muovano oggi nella crisi libica. Hatfar ha vissuto molti anni negli Stati Uniti e alcuni lo considerano al soldo della CIA. Certo dalla sua parte sembra schierato l’Egitto del generale al-Sisi prossimo presidente che da tempo vuole spazzare via gli islamisti dalla confinante Cirenaica. Facile immaginare anche il supporto algerino alle milizie di Zintan e alla sollevazione militare non solo per le affinità con il governo di Algeri (i militari sono il baluardo della laicità delle istituzioni) ma anche perché l’anarchia libica ha consentito ampi collegamenti tra i qaedisti libici e quelli attivi in Algeria nell’ambito del movimento al-Qaeda nel Maghreb Islamico. Bisogna poi comprendere se il Qatar continuerà a sostenere i Fratelli Musulmani libici anche dopo la dura crisi diplomatica dei mesi scorsi che l’ha opposto ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti che nel caso di ingerenza di Doha sono pronti a sostenere (se non lo stanno già facendo) il generale Hatfar così come hanno sostenuto al-Sisi in Egitto.
In Libia tira quindi aria di restaurazione con un regime di tipo militare che “protegga la democrazia” da derive islamiste? Presto per dirlo perché se l’obiettivo del pronunciamento militare è chiaro non è altrettanto certo che la guerra possa essere vinta in breve tempo. Qaedisti e fratelli Musulmani potrebbero saldarsi per opporre una resistenza che troverebbe supporto nelle rivalità tribali, ad esempio a Misurata le cui milizie sono da sempre rivali di quelle di Zintan. Senza contare le difficoltà di controllo del territorio specie nel Fezzan, la vasta regione desertica meridionale.
Il silenzio di Washington, Londra e Parigi potrebbe indicare un ruolo di questi Paesi negli sviluppi recenti in Libia così come le dichiarazioni di Matteo Renzi sembrano testimoniare come l’Italia sia stata colta ancora una volta di sorpresa dagli eventi in atto nella ex colonia.
“La Libia è una priorità assoluta ma la vicenda si risolve solo per via internazionale, nessun Paese da solo può pensare di risolvere una situazione così drammatica” ha detto ieri auspicando ancora una volta il coinvolgimento dell’Onu e dell’Ue. E poi ha espresso la consueta “profonda preoccupazione”, appelli “a tutte le parti a fermare il bagno di sangue e a evitare ulteriori violenze” e “a lavorare insieme” per “una democrazia stabile”.
Insomma, la solita aria fritta che cerca di nascondere l’assoluta mancanza (anche in questo governo) di una politica estera persino nei confronti di un Pese così vicino e dal peso così strategico in termini energetici, di coinvolgimento delle nostre aziende e di esposizione all’immigrazione clandestina. Come nel febbraio 2011, quando col supporto diretto di “consulenti” di Qatar, Francia e Gran Bretagna, prese il via a Bengasi la “rivoluzione” contro il regime di Muammar Gheddafi, anche di fronte al “pronunciamiento” militare del generale Hatfar a Roma sembrano cadere dalle nuvole. Washington invece segue “minuto per minuto” l’evolversi della situazione “estremente fluida” in Libia. Non solo.
Nell’eventualità di dover ordinare un’evacuazione d’emergenza degli americani nel Paese ha inviato altri 4 aerei da trasporto militari V-22 Osprey nella base siciliana di Sigonella (a 530 chilometri da Tripoli) dove da mesi ne stazionano altri 4 con 200 marines. E’ quanto riferisce la Cnn citando fonti del Pentagono. I Bell-Boeing V-22 Osprey (convertiplani, velivoli che decollano come elicotteri e poi effettuano una transizione dei due motori ad elica per volare come aerei con una velocità massima di 510 km/h con un’autonomia di 1.650 km) possono trasportare fino 24 passeggeri e possono decollare con un preavviso di 6 ore. In totale la flotta di Osprey con i marines di scorta sarà in grado di evacuare oltre 200 persone dall’ambasciata americana a Tripoli.
I duecento marines inviati dalla base Usa di Moron, in Spagna, sono a Sigonella “a causa della situazione di instabilità in Nordafrica” e “sono addestrati per rispondere a ogni tipo di crisi” che metta a rischio gli interessi degli Stati Uniti. Lo ha detto ieri all’Adnkronos l’addetto stampa della base militare, il tenente Usa Paul Newell. In relazione alle notizie che giungono dalla Libia, Newell spiega di non poter fornire indicazioni “specifiche” sulla situazione nel Paese ma l’area di “instabilita’” per la quale e’ stato deciso l’invio del contingente di Marines nella base siciliana, sottolinea Newell, riguarda tutto il “Nordafrica”.
Stessa risposta da Alberto Lunetta, il vice di Newell nella Stazione Aeronavale della US Navy di Sigonella. “Al momento nessuna novità” in relazione alle notizie di scontri armati che giungono dalla Libia, spiega. “Li posizioniamo in modo più avanzato a Sigonella, in modo che possano rispondere piu’ velocemente ad ogni crisi”, aveva detto nei giorni scorsi il portavoce del Pentagno, Steve Warren, annunciando il trasferimento dei marines dalla base spagnola dove è stato istituito il quartier generale Marine Air-Ground Task Force Crisis Response.Questa è l’unità di intervento rapido creata dopo l’attacco al consolato di Bengasi, quando, l’11 settembre del 2012, l’ambasciatore Christopher Stevens ed altri 3 americani furono uccisi prima che riuscissero ad arrivare i marines. Il trasferimento è stato richiesto dal dipartimento di Stato, aveva confermato Warren, pur senza precisare se esistono minacce specifiche contro interessi Usa.
Anche se al momento non vi sarebbero piani imminenti di un’evacuazione dell’ambasciata di Tripoli è evidente che il Dipartimento di Stato non può permettersi di esporsi ad un possibile nuovo, tragico, errore di valutazione dei rischi per la sicurezza di cittadini ed interessi americani nel paese nordafricano. Soprattutto in questo momento in cui i repubblicani appaiono intenzionati a rilanciare la mai sopita polemica sui tragici fatti di Bengasi avviando l’ennesima indagine al Congresso, che ne ha condotte in questi due anni altre sette. Ancora una volta saranno lanciate accuse all’amministrazione, ed in particolare all’allora segretario di Stato, Hillary Clinton – ora probabile candidata alla Casa Bianca – di non aver adeguatamente protetto prima i diplomatici americani e poi di aver cercato di ingannare il paese sulla natura dell’attacco. democratici da giorni denunciano il fine prettamente elettorale, a pochi mesi dalle elezioni di mid term e già in vista della battaglia per la Casa Bianca, di questa nuova inchiesta, e alcuni di loro vorrebbero addirittura boicottare i lavori della commissione.
La concomitanza dell’avvio della nuova inchiesta con il precipitare della situazione di instabilita’ politica, e quindi di sicurezza, a Tripoli ha fatto tornare di attualità a Washington la situazione della Libia, ed anche le critiche alla gestione dell’intervento e soprattutto del post intervento libico. Secondo il quotidiano la Casa Bianca e la Nato “hanno la responsabilità del disastro in Libia, perché sono intervenuti per aiutare i ribelli a rovesciare Gheddafi e poi sono ne usciti rapidamente senza fare un serio sforzo di aiutare i libici a ristabilire la sicurezza e costruire un nuovo ordine politico” scriveva nei giorni scorsi il Washington Post, stigmatizzando sia l’amministrazione Usa che gli alleati europei per quella che veniva definita “l’azione raffazzonata” in Libia.
“Il Congresso dovrebbe indagare sul perché l’amministrazione ha permesso che un Paese in cui aveva avviato un’operazione militare scivolasse nel caos” invece di “continuare a cercare lo scandalo su Bengasi” a scopi elettorali, concludeva l’editoriale che non ha risparmiato critiche neppure ai repubblicani.
con fonti Ansa e Adnkronos
Foto: faisalalshrafi, Reuters, AFP, AP, stripe
di Gianandrea Gaiani -20 maggio 2014
fonte: http://www.analisidifesa.it
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