Recep-Tayyip-Erdogan-014 



L’avanzata dell’ISIS in Siria e in Iraq ha da un paio di mesi catturato l’attenzione dei media, ma un avvenimento piú degli altri sta tenendo col fiato sospeso i governanti e i cittadini di tutto il mondo: la possibile caduta della città di Kobanê in mano ai terroristi dalle bandiere nere e la non reazione della Turchia, a poche centinaia di metri dalla città sotto attacco. Le immagini dei carrarmati sui quali sventola la mezzaluna su sfondo rosso, immobili di fronte alla carneficina, hanno dato un’immagine forte riguardo alla posizione della Turchia, del vicino che potrebbe tendere una mano salvifica e invece se ne sta a guardare. Perché la Turchia temporeggia, cerca soluzioni di compromesso, insomma non ne vuol sapere d’intervenire a Kobanê e nel conflitto contro l’ISIS in generale?
In un primo momento, la «scusa» fu il non voler mettere a repentaglio la vita dei quarantanove diplomatici turchi catturati dall’IS a Mossul l’11 giugno. Dopo il loro rilascio il 20 settembre (alcuni sostengono siano stati scambiati con guerriglieri dell’IS detenuti dalla Turchia), le spiegazioni circa il non intervento si sono fatte piú nebulose. Quella portata avanti con fierezza dal presidente Recep Tayyip Erdoğan può essere cosí sintetizzata: «Non interverremo a meno che sia garantita la deposizione di Bashar al-Assad dalla carica di presidente della Siria». Il primo ministro Ahmet Davutoğlu ha affermato che limitarsi a combattere l’ISIS non condurrà alla fine delle ostilità, che vanno ricercate nel clima di radicalizzazione fomentato dall’intolleranza d’Assad nei confronti delle minoranze. L’avversione del governo turco al regime di Damasco è totale, e ha portato la Turchia a sostenere e finanziare indiscriminatamente qualunque gruppo vi s’opponesse, al-Nusra e ISIS compresi.


Questa primavera, destituire Assad costituiva la priorità delle potenze occidentali. L’obiettivo è passato in secondo piano a séguito delle vittorie dell’ISIS, arrivando a un tacito accordo che pone gli ex nemici nella condizione di combattere lo stesso nemico in un momentaneo lapsus di memoria circa i burrascosi trascorsi. Ma la Turchia (non dimentichiamolo, membro NATO) non ci sta a chiudere un occhio, e su questo sembra esser intransigente. Atteggiamento che deve aver irritato parecchio Joe Biden, vicepresidente USA, il quale, rispondendo alla domanda d’uno studente circa il mancato intervento statunitense in Siria, è uscito dai gangheri: «I nostri alleati nella regione sono stati il nostro problema piú grande in Siria. I Turchi erano amici, ho un buon rapporto con Erdoğan, coi sauditi, con gli Emirati, &c. E loro che cos’hanno fatto? Erano cosí determinati a destituire Assad da mettere in mano centinaia di migliaia di dollari e decine di tonnellate d’armi a chiunque combattesse contro Assad, senza badare al fatto che le persone che stavano finanziando appartenevano ad al-Nusra, al-Qaeda e altri elementi estremisti provenienti dal resto del mondo».
Strettamente intrecciata a questa prima motivazione è la questione curda, una costante nella politica della Turchia. Kobanê è una città a maggioranza curda, nel Kurdistan siriano, nella quale stanno combattendo i Peshmerga. Prendendo in considerazione quest’aspetto, sia l’intervento sia il non intervento costituirebbero una forte destabilizzazione per la Turchia. In caso di non intervento, la reazione della minoranza curda in Turchia sarebbe violenta e inficerebbe inesorabilmente un decennio di trattative per arrivare ad accordi di pace — un percorso che Erdoğan sbandiera come uno dei suoi massimi successi. Un rafforzamento e una radicalizzazione del movimento curdo, e del PKK in particolare, con la certezza d’una ripresa della lotta armata, s’accompagnerebbero a proteste generalizzate da parte dei numerosi cittadini che desiderano una politica estera davvero filoccidentale e dura nei confronti dell’Islam radicale e violento. Negli scorsi giorni, a pagare con la vita sono stati trentun manifestanti filo-curdi.


Il quadro non sarebbe piú felice qualora il Paese decidesse di dare il proprio contributo. Le conseguenze sono da valutare in base all’entità del sostegno eventualmente fornito, ma in generale si può dire che buona parte dell’opinione pubblica è contraria a qualunque tipo di collaborazione coi curdi, siano essi cittadini turchi o siriani. Significherebbe fornire sostegno a un nemico storico, legato al nome del PKK, gruppo terroristico che per decenni ha insanguinato il Paese con terribili attentati e, nella mente di molti, presidente Erdoğan incluso, da collocare sullo stesso piano dell’ISIS. Emrullah İşler, deputato dell’AKP, il partito di maggioranza al governo, ha scritto su Twitter che sí, l’ISIS uccide, ma almeno non tortura, come invece fa il PKK. Se in caso di non intervento a riempire le piazze sarebbero «pro curdi» e «pro Occidente», a farlo in caso d’intervento sarebbero coloro ostili ai curdi e a un rapporto subalterno della Turchia nei confronti degli USA in àmbito NATO (atteggiamento che nell’ultimo decennio è andato tuttavia scemando).
La scorsa settimana, un gruppo di poliziotti mandati a sedare una protesta di matrice curda ad Ankara ha manifestato la propria ostilità compiendo il gesto che i militanti ISIS fanno prima di decapitare i prigionieri: agitare gl’indici in aria. Come potrebbe la Turchia mandare in supporto ai curdi un esercito che riserverebbe loro lo stesso trattamento cui andrebbero in contro in caso di non intervento? È improbabile che Ankara decida di mandare propri soldati a combattere in Siria a fianco dei curdi; ma, se dovesse verificarsi, episodi d’ammutinamento anche clamorosi sarebbero assai probabili.
Qualunque strada decida di prendere, la Turchia si ritroverà di fronte a uno scenario nuovo in merito ai rapporti coi curdi. Essa teme che la forza e la notorietà acquisite dal Kurdistan iracheno, e in misura minore da quello siriano, possano stimolare rivendicazioni da parte del Kurdistan turco. Notizie delle ultime ore riferiscono che la Turchia non ha concesso nemmeno l’apertura d’un canale umanitario attraverso il confine. Chi teme una nuova Srebrenica potrebbe purtroppo avere ragione.
La questione dei rifugiati è un altro fattore da tenere in considerazione. Due anni fa, all’apice della guerra in Siria, quando la caduta del regime sembrava imminente, Davutoğlu, allora ministro degli Esteri, affermò che la Turchia non avrebbe permesso l’accesso di piú di 100.000 profughi, dopodiché sarebbe ricorsa a metodi drastici per bloccarne l’entrata. Il numero di rifugiati siriani in Turchia ammonta oggi a 2 milioni: la mancata fermezza che ha portato a una tale situazione, di destabilizzazione demografica ed economica, non vuol essere ripetuta. La colpa, ancor una volta, viene attribuita all’Occidente e al non aver fatto abbastanza per rimuovere l’apparente causa d’ogni male nella regione, Assad.


La Turchia, che sbandierando lo slogan «Zero problemi con tutti i vicini» ambiva a giocare il ruolo d’arbitro e potenza egemone e pacificata nel complicato quadro mediorientale, rischia col suo comportamento, da sommare ad anni d’atteggiamenti spesso lunatici in politica estera, di perdere la simpatia non soltanto dei vicini. Prima fra tutti quella della NATO e dell’Occidente, che di fronte a ulteriori passi falsi rinuncerebbe definitivamente ad affidarle la gestione degli equilibri regionali.
Aggiornamenti di questo pomeriggio riportano le dichiarazioni di Chuck Hagel, ministro della Difesa statunitense, circa un avanzamento positivo delle discussioni con la Turchia riguardo al suo contributo alla guerra all’ISIS. La settimana prossima, si terrà un vertice tra il Comando centrale statunitense e quello europeo, con la partecipazione d’una delegazione turca. A una domanda circa la situazione di Kobanê, Hagel ha risposto che «è una situazione pericolosa, e non ne facciamo mistero. Stiamo facendo il possibile attraverso i raid aerei per aiutare a ricacciare indietro le truppe dell’IS. Richiede il coordinamento di numerosi fattori, e ci stiamo lavorando. […] Ci vorrà un po’. Non se ne verrà a capo velocemente». In poche parole, la Turchia ha capito di non poter osare troppo con la NATO e gli USA, e perciò ha deciso di trattare, ma non si lascerà strappare facili concessioni. Il Sultano vuol far sentire la sua voce. Kobanê è considerata dalla Turchia ormai in mano alle bandiere nere e, comunque, la sua sorte sarà chiara ben prima che si giunga a eventuali accordi con la coalizione anti-ISIS.
La spavalderia fino a oggi mostrata può essere considerata il prodotto di tanta autostima, propaganda interna e consapevolezza che l’ISIS, sebbene al confine, ci penserà due volte ad attaccare uno degli Stati militarmente piú dotati al mondo. L’aver appoggiato l’ISIS in passato — sia stato consapevolmente o inconsapevolmente — e il continuare a non vederlo come una minaccia fanno parte di questo stesso gioco. Nell’ultimo decennio, la Turchia ha però giocato un po’ troppo, e questa potrebbe essere l’ultima mossa che le viene concessa


di G. Zunino - 16 ottobre 2014

fonte: http://thefielder.net