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Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai.

(Bertrand Russell)

01/03/16

Parliamo di tutto tranne che delle cose serie


 


La maggioranza si è occupata per mesi di uteri in affitto, di unioni civili, di nomine in Rai, di canguri e lo ha fatto con dei metodi che, se fossero stati usati da altri, avrebbero suscitato moti di piazza con annesse agende rosse, petizioni dei soliti quattro costituzionalisti militanti e latrati alla volta degli autori di fantomatici editti bulgari. Invece qui siamo al cospetto di un governo quasi amico per cui va anche bene che si discuta dell’orrendo termine “petaloso” in quanto le armi di distrazione di massa non sono mai abbastanza ed il popolo ha bisogno di narrazioni cui attaccarsi visto che le cose serie sono noiose ed è bene, tra l’altro, che non se ne parli.
Adesso la ricreazione è finita e l’Unione europea nei prossimi mesi ci presenterà il conto dato che le cifre esposte da Renzi e Padoan fanno acqua da tutte le parti e la procedura di infrazione, salvo soluzioni politiche, è impietosamente dietro l’angolo. Il debito pubblico cresce al 132,4 per cento del Pil (portando il deficit al rialzo), il rapporto deficit/Pil viaggia verso il 2,5 per cento grazie ad una crescita che l’Ocse stima intorno all’1% (contro l’1,6% previsto dal Governo) ed all’appello mancherebbero circa 25 miliardi di euro per tamponare i buchi provocati da un’armata brancaleone che, invece di bloccare gli sprechi, li genera e chiede per giunta ulteriori margini di flessibilità da utilizzare per distribuire qualche altro fotti popolo.
Mai che nessuno nomini la spending review, sparita dai discorsi di Renzi (e dalle pagine di una stampa completamente azzerbinata), perché altrimenti rischierebbe di diradarsi la nebbia entro cui il popolo italiano ha scelto di vivere abbandonandosi ai racconti quotidiani del presuntuosetto di Rignano e dei suoi paggetti col papi nella banca popolare. E ci volevano proprio le parole del Presidente della Corte dei Conti per rompere l’incantesimo: la spending review è stata un parziale fallimento, ha detto con tono pacato ma lasciando trapelare dalla mimica facciale di volersi comportare come Ugo Fantozzi a proposito della Corazzata Potëmkin. Ma se fosse solo la revisione della spesa – con relativa moria di commissari succedutisi e dimessisi – ad essere un fallimento, ci si potrebbe anche stare. Qui invece parliamo di un più ampio sistema di riforme meramente annunciate (e per giunta brutte) a destare dei sentimenti che svariano dallo sdegno all’ilarità. Renzi appare in pubblico a parlare di Italia che cambia, che fa le riforme meritandosi il rispetto degli altri Paesi ma tutte le volte ci interroghiamo su quali diavolo siano questi cambiamenti a cui si riferisce: forse la riforma del Senato che non abolisce il Senato e che è subordinata ad un referendum (quindi inesistente)? Forse si riferisce all’abolizione delle Province, che non è un’abolizione ma una confusione senza precedenti? Premesso che per abolirle sarebbe necessaria una riforma costituzionale e che le competenze di tali enti non sono state ancora devolute alle Regioni (ed in alcuni casi alle Aree Metropolitane), va detto che le Province esistono ancora e buona parte dei dipendenti vaga spaesata senza sapere bene di cosa occuparsi e soprattutto con quali risorse.
Si tratta di una riforma incompiuta che ha come unico merito quello di aver cancellato 100 presidenti di Provincia, oltre 750 assessori e 3mila consiglieri (sono stati sostituiti da sindaci eletti dai sindaci), con un risparmio ridottissimo che incide solo per lo 0,9% (circa 100 milioni di euro). Per il resto siamo ancora all’istituzione di osservatori e Conferenze di servizi per il monitoraggio della riforma, mentre nel frattempo lo Stato si appropria delle entrate degli enti provinciali che, falcidiati dai tagli, continuano a fare debiti fuori bilancio per pagare le spese correnti, rasentando il dissesto e non assicurando alcun servizio (come ad esempio la manutenzione stradale). E tra un rimpallo burocratico e l’altro, i 550 centri per l’impiego restano appesi a questi enti territoriali evanescenti che si apprestano a costituire la cosiddetta “area vasta” in un sistema di confusione totale che moltiplica gli sprechi.
Intanto Gutgeld, l’ennesimo guru della spending review renziana, tace sull’argomento impegnato com’è a lanciare il nuovo slogan per placare gli animi nazionali che sono soliti infervorarsi al bar rigorosamente a cavallo tra una partita di calcio e l’altra. Adesso c’è la “turboriforma”, null’altro se non un nome ad effetto fatto apposta per far credere ai cittadini che il dimagrimento della macchina statale sia dietro l’angolo. La storiella del momento vorrebbe che delle 8176 (leggasi ottomilacentosettantasei) società partecipate dallo Stato Italiano, l’ultimo con una partecipazione statale degna dell’Unione Sovietica, un buon numero di carrozzoni possa essere abolito agevolmente.
Nessuno ricorda però che il provvedimento varato l’anno scorso, per abolirne 3570 di carrozzoni, fu mandato in vacca in Parlamento in data 31 ottobre 2015 nel silenzio più totale di un mondo politico che lo aveva dato per certo un attimo prima. Prevediamo che anche in questo caso si ciancerà ancora qualche giorno di turboriforme per poi mettere la turbomarciaindietro lasciando vivere questi pachidermi mangiasoldi ottimi per piazzare amici e politici trombati. D’altronde è la stessa finaccia che storicamente è toccata ai provvedimenti che si sono posti l’obiettivo di abolire i cosiddetti enti inutili. È dai tempi di Enrico Costa (ministro nel 1998) che si disegnano mappe dello spreco e soggetti pubblici da abolire. Costa fu il primo a contarne in maniera sistematica circa 500, anche se la prima generica legge per sopprimerli è datata 1956; da allora ogni tentativo è stato inghiottito nel vortice dei micro-emendamenti buttati lì nottetempo per tenerli in piedi arrecando un danno erariale di parecchi miliardi di euro. Ci provò anche il povero Calderoli (che ne contò addirittura 1612) ma invano visto che questi sopravvivono paffuti ed immobili articolandosi in enti sottoposti al controllo della Ragioneria generale dello Stato, enti controllati dal ministero dell’Economia, enti regionali, Enti controllati dai Comuni e via via sperperando. I nomi sono divertenti: si va dal Pio sodalizio Fornai, all’Opera Pia Bresciani in Roma, all’Ente per lo studio dei materiali plastici per i poteri di difesa dalla corrosione, all’Istituto per la conservazione della gondola e la tutela del gondoliere per finire con veri e propri carrozzoni come l’Arcus (società per lo sviluppo dell’arte), che nel 2014 ha fatto registrare uscite per 38 milioni di euro e 417mila euro di retribuzioni lorde. Qualcuno pensò bene di creare l’Iged, ovvero l’ente inutile nato per abolire gli enti inutili, costato 99 milioni dal 2000 al 2006, anno in cui se ne decretò l’abolizione. Fu veramente abolito? Che domande, in Italia non si butta niente. È stato solo accorpato nella Pubblica amministrazione sparendo nel porto delle nebbie.

di Vito Massimano - 01 marzo 2016
fonte: http://www.opinione.it

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