Quattro
grafici e una cartina geografica per provare a comprendere le dinamiche
economiche in corso e stare alla larga da ciarlatani e pifferai magici,
di qualsiasi colore politico si ammantino. Il primo grafico confronta
il livello attuale (2015) di consumi e di PIL pro capite,
con base 2007=100 (fonte: elaborazioni su dati OCSE); si vede come per
l’Italia entrambi siano negativi, ma anche come il secondo sia inferiore
al primo. E si vede anche, seguendo la linea tratteggiata rossa, come
l’Italia sia il Paese peggiore del campione.
Il secondo grafico riporta l’andamento della spesa pubblica corrente (primaria, prima degli interessi), della pressione fiscale e della spesa pubblica totale
(fonte: elaborazione su dati Istat); si nota come l’avanzo primario
(tanto decantato da alcuni) poggi più sull’incremento delle entrate che
sulla riduzione della spesa (corrente). Le evidenze in rosso, di aiuto
per la lettura del grafico, ne evidenziano la deriva progressiva
intrapresa.
Il terzo grafico riporta (con base 2007=100) l’andamento di PIL, esportazioni, consumi e investimenti fissi
(fonte: elaborazione su dati Istat); si nota come le seconde
(nonostante molti guru affermino il contrario) non soffrano (se non al
momento dello scoppiare della crisi) e come il vero problema stia dato
soprattutto dal lato degli investimenti, piuttosto che da quello dei
consumi. La dinamica degli investimenti, evidenziata nell’area ovale
rossa, è quella che desta più preoccupazione, per le ricadute in termini
di competitività (sono gli investimenti che generano valore nel tempo) e
di stagnazione del credito industriale (il “cavallo che non beve”).
Il quarto grafico confronta alcuni Paesi sulla produttività del lavoro,
suddivisa in due decenni distinti (1995/2005 e 2005/2015; fonte:
Economist); si nota come l’Italia sia il fanalino di coda e come abbia
ulteriormente perso terreno nell’ultimo decennio. Occorre altresì
aggiungere, in tema, che questi dati (seppur in parte “sporcati” dai
dati del sommerso), se espressi come valore aggiunto sul numero di
addetti, sono enormemente legati al fattore dimensionale (circa 27 mila
euro per addetto, per le micro-imprese; circa 61 mila per addetto, per
le grandi), e che un sistema formato soprattutto da micro e piccole
imprese fatica oggi a reggere il passo con un’economia sempre più
globalizzata e interdipendente.
I dati contenuti nella cartina geografica sono infine la rappresentazione della disaggregazione per regioni delle stime del PIL 2016
(fonte: Prometeia); si nota con evidenza come l’Italia (industriale)
sia fatta a “macchia di leopardo” (e che quindi ragionare per slogan e
ricette magiche sia semplicemente errato) con forti squilibri
strutturali fra le diverse aree.
Tirare conclusioni non è mai facile,
certo; non lo è per fini economisti, figurarsi se chi (più
pedestremente) scrive queste brevi note a commento possa ritenersi
esente da errori. Ma qui appare (alquanto) evidente come alcune cose,
lette o sentite qua e là, tanto dai menestrelli dello storytelling
governativo quanto dai proclami economico-pescaresi o
economico-pentastellati, appaiano quantomeno discutibili (se non proprio
errate), alla luce dei dati qui presentati. Dati che, per inciso, non
sono poi di così difficile estrapolazione, partendo da quelli ufficiali,
non costituendo nemmeno, singolarmente, novità mediatica. Solo, spesso
più facilmente lasciati (colpevolmente) nel dimenticatoio, quando non
mistificati nella loro rappresentazione. Dati che, ancora, da soli non
spiegano poi gran ché; ma che, visti nel loro insieme, possono
costituire una cartina di tornasole con la quale leggere in controluce
ciò che alcuni si affannano a spiegare come rotta principe, vuoi per la
prua governativa o vuoi per scorciatoie (molto) alternative, fatte
proprie da contrapposte (sui banchi del parlamento) opposizioni.
Difatti, i leitmotiv principali che
animano le rappresentazioni economiche degli ultimi anni sono così
riassumibili: “il governo ha ridotto le tasse” e “bisognerebbe
rilanciare i consumi”, dal lato governativo; “l’euro ha danneggiato le
esportazioni” e “non serve tagliare la spesa perché siamo in avanzo
primario”, dal lato delle opposizioni. Nonché, da entrambe le sponde,
s’ode concorde il canto della spesa in deficit (rectius, nella versione
più elegante, “flessibilità” chiesta all’Europa “dell’eccessivo rigore”)
e del ricorso a maggiori investimenti pubblici.
Il fatto è che i numeri, come si vede dai grafici, dicono altro: negli ultimi anni la spesa primaria è in costante aumento e il deficit, comunque cresciuto, non è andato del tutto fuori controllo solo grazie all’incremento della pressione tributaria
(vedremo se in questa Legge di Stabilità, nei fatti, si invertirà la
tendenza o se gli annunci di questi giorni si riveleranno solo dei
fuochi fatui); non sono i consumi – seppur deboli – che soffrono più
d’ogni altra cosa, ma gli investimenti fissi (in particolar modo quelli
privati, a parere di chi scrive); le esportazioni non sono così
draconianamente condizionate dalla moneta unica, non almeno quanto
vorrebbe la vulgata no-euro.
Manca, continua a mancare, la spinta (o gli incentivi propri di un sistema economico efficiente) agli investimenti industriali
e le imprese restano deboli, sia in termini di solvibilità (da qui gli
NPL che, assieme a talune “patologie endogene” ben identificate,
generano le problematiche delle banche italiane) che di competitività
internazionale. Resta, sempre più pericolosamente evidente, la disomogeneità economico-produttiva tra le diverse aree macro-regionali.
La produttività del lavoro è (rectius, resta) argomento tabù sui banchi
della politica. L’alta (e squilibrata al suo interno) pressione fiscale
(cresciuta, negli anni di crisi) e l’alta (dannosa, anche in termini di
concorrenza sleale verso gli imprenditori onesti) propensione
all’evasione, assieme, impediscono il rilancio imprenditoriale del
Paese. Gli sprechi (e ve ne sono, basti leggersi i documenti prodotti
dai vari commissari alla spending review succedutisi in questi pochi
anni) e l’eccessivo peso (in termini di potere reale, prima ancora che in termini economici) di una burocrazia statale ancora (troppo) poco efficiente, assieme, ingessano il cambiamento del sistema-Paese.
Serve un cambiamento, che non c’è
(ancora) stato. O è stato troppo timido, a voler esser generosi di
giudizio (e ci si riferisce non solo all’attuale, ma ai molti governi
avvicendatisi nella cd. “euro-era”). Ma che pare stentare a rendersi
“bisogno condiviso dai più”. In molti cercano ancora rifugio in comode
(e sempre più ridotte) rendite di posizione; in molti cedono facilmente
al richiamo di ricette politiche salvifiche o di scorciatoie economiche
magiche. Non è, si badi bene, questione di politica, ma di
responsabilità. Non di partiti o di governo, questo o quello che sia, ma
di consapevolezza e di coraggio nell’affrontare le
scelte (e i sacrifici che queste impongono) necessarie per provare a
risollevare – per chi ancora ci crede, come chi scrive – le sorti del
nostro Paese.
di F. Renne - 8 novenbre 2016
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