Mentre le diplomazie internazionali e i governi
europei cercano di trovare un’intesa sui flussi migratori, il mondo nei
giorni scorsi è stato scosso dalla pubblicazione della foto del corpo,
senza vita, di Aylan, bimbo siriano annegato in mare e ritrovato sulla
spiaggia di Bodrum, in Turchia. E’ stato scritto tutto e il contrario di
tutto su quella foto, simbolo della disperazione di migliaia di
profughi che scappano da Paesi dilaniati da guerre fratricide o che
cercano semplicemente di costruirsi in Europa un futuro migliore e
guardano al Mediterraneo come ad un eldorado.
La retorica buonista ha dato in queste ore il meglio di sé,
quasi che quell’immagine disarmante di un corpicino abbandonato sul
bagnasciuga dovesse inchiodare tutti i governi europei alle proprie
responsabilità, che pure ci sono, quasi che quella commovente foto
dovesse annientare ogni considerazione razionale sulla gestione
dell’emergenza immigrati. Certamente Bruxelles e i governi dei singoli
Stati del Vecchio Continente hanno commesso i loro errori di
sottovalutazione e di disorganizzazione, ma la morte del povero Aylan
non può certo essere imputata al presunto rifiuto dell’accoglienza da
parte dell’Italia o degli altri Stati europei. Come hanno evidenziato
autorevoli opinionisti e politologi internazionali, se la Turchia di
Erdogan e le formazioni jihadiste non avessero gettato benzina sul fuoco
alimentando la guerra in Siria e offrendo sponde ad Al Qaida, quel
bimbo non sarebbe morto, semplicemente perché non sarebbe fuggito dal
suo Stato d’origine.
Ma al di là delle polemiche politiche sulle responsabilità dei singoli Stati
e sulla scarsa visione strategica da parte dell’Unione Europea in
materia di immigrazione, c’è un altro aspetto che ha accalorato gli
osservatori nazionali e stranieri: quello relativo all’eticità e alla
correttezza deontologica del mondo dell’informazione nel mostrare quella
foto del bimbo senza vita ripescato in Turchia.
Era giusto diffondere quella foto che, con la
frenetica internettizzazione del giornalismo, si è propagata in rete in
modo virale e incontrollato? Ci sono principi che vietano a chi fa
informazione di diffondere contenuti di qualsiasi tipo che possano
turbare la dignità delle persone e, a maggior ragione, dei minori?
Anzitutto va precisato che quella foto non è un “unicum” nella storia,
anche recente, del giornalismo mondiale. In tantissimi telegiornali, e
non da oggi, scorrono immagini dell’orrore della guerra in molti Stati
dell’Africa o dell’Asia o dell’America Latina, così come volti di bimbi
che muoiono di fame o di sete o di Aids o di malattie varie. Quelle
testimonianze finiscono nei circuiti internazionali anche per lanciare
moniti ai governanti affinché intervengano per evitare che altri bimbi
innocenti possano rimanere vittime di atrocità efferate o di povertà e
indigenza estreme.
E’ vero, quelle sono immagini massive, senza
l’identificazione con nome e cognome dei soggetti inquadrati, ma appare
evidente che qualcuno che eventualmente conoscesse i protagonisti dei
reportage potrebbe agevolmente riconoscerli. Chi difende la scelta di
diffondere la foto di Aylan ritiene che essa possa scuotere le
coscienze, anche quelle più insensibili, e accrescere la consapevolezza
della gravità di quanto sta accadendo in Siria e in altre zone calde del
pianeta. Chi si dice invece dubbioso circa l’opportunità di far vedere
quell’immagine teme che essa possa prestare il fianco a
strumentalizzazioni.
Ma su un piano strettamente deontologico, è lecito
pubblicare foto del genere? L’errore più diffuso nella categoria dei
giornalisti è quello di pensare che i morti non abbiano diritti nei
confronti del mondo dell’informazione. Il Garante della privacy, in anni
passati, quando furono violati palesemente i diritti di minori vittime
di tragedie, coniò una nuova espressione, “dignità della memoria”, per
identificare un dovere inderogabile dei giornalisti nei confronti di
soggetti non più in vita, ma comunque meritevoli di essere ricordati in
situazioni non traumatiche e lesive della loro dignità.
Sia la Carta di Treviso che altre carte elaborate dai giornalisti
come testimonianze di autodisciplina della categoria nel quotidiano
esercizio del diritto di cronaca vietano di rendere identificabili i
minori protagonisti di fatti di violenza o di morti tragiche. Il Codice
di procedura penale e il Testo Unico sulla privacy aggiungono altri
limiti giuridici in questo senso. I minori godono di una protezione
rafforzata, che si somma a quella riconosciuta a tutti gli esseri umani,
anche adulti, sia dalla Costituzione italiana che da numerose norme di
legge.
L’umano sentimento di pietas nei confronti di bimbi come Aylan
dovrebbe prevalere sempre e comunque sul diritto dei cittadini ad
essere informati. Nel caso di Aylan quella foto non aggiunge nulla al
dramma umano che si è consumato nelle acque turche. Sarebbe bastato
riferire che tra le vittime c’erano anche bimbi di tre e cinque anni.Sul piano strettamente formale, del rispetto dei precetti giornalistici dettati a tutela dei diritti della personalità altrui, quell’immagine non avrebbe dovuto essere pubblicata. Ma si sa che quando le violazioni riguardano fenomeni di portata mondiale le differenti griglie di valori adottate da giornalisti di diversi Stati determinano scelte che possono risultare giuste e quasi naturali in uno Stato e deplorevoli o inopportune in un altro. Anzi, perfino all’interno dello stesso Paese, come dimostra l’Italia, la categoria dei giornalisti si è divisa, tanto quanto l’opinione pubblica in generale.
- 07-09-2015
fonte: http://www.lanuovabq.it
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