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di Aldo Cazzullo (nella foto d’apertura) da Il Corriere della Sera del 7 luglio 2016
Nel novembre 1961, tredici aviatori italiani di una missione Onu furono trucidati a Kindu, in Congo, e sepolti in una fossa comune. Probabilmente erano stati confusi con mercenari belgi. Tra i reporter che fecero luce sul massacro si distinse un giovane inviato: Alberto Ronchey.
Oggi una lapide all’ingresso dell’aeroporto di Fiumicino è tra i pochi segni che ricordano un lutto quasi del tutto assente dalla memoria nazionale. Rimosso. Dimenticato. Non possiamo accettare che la stessa sorte di oblio avvolga la tragedia di Dacca.
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Purtroppo, le premesse ci sono tutte. Sabato sera l’ottimo speciale del Tg3 in diretta ha avuto uno share dell’1,22% (è vero che c’era la partita, ma hanno avuto share più alti i film «Ti va di ballare?», «Beethoven 2», «Look again. Inganno mortale» e il telefilm «Ncis. Unità anticrimine»).
I l giorno dopo, i discorsi per strada e sui social erano tutti sul balletto di Zaza e sull’errore di Pellè. Nove italiani assassinati, alcuni sgozzati dopo che gli assassini avevano verificato che fossero proprio italiani, non hanno scosso la coscienza del Paese.
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Certo, ci sono stati anche segnali in controtendenza. Il presidente Mattarella ha interrotto il suo viaggio in America Latina per andare a ricevere le bare dei connazionali.
C’è un’Italia attenta al mondo, al sociale, al volontariato, che ha reagito con commozione e indignazione.
Però, evitiamo ipocrisie: mentre l’assassinio di Valeria Solesin e di Giulio Regeni avevano suscitato profonda emozione, qui si discute al più se un marito avrebbe dovuto essere più coraggioso.
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Come se il massacro di Dacca non rappresentasse una svolta nella storia del Paese: l’ingresso dell’Italia nella guerra che scuote il mondo, o meglio la conferma che questa guerra coinvolge anche noi.
Non si tratta di stabilire se gli attentatori, attaccando un locale vicino alla nostra ambasciata, volessero colpire specificamente italiani o genericamente occidentali. La lezione che viene da Dacca è chiara: l’Italia non è al riparo. Il fatto che il Bangladesh sia lontano non può essere motivo di autoconsolazione o di indifferenza.
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Questa idea strisciante per cui chi va all’estero per lavoro o per turismo in qualche modo se la va a cercare, mentre a chi resta a casa non può accadere nulla, prima che essere cinica è un’idea ingenua.
La guerra ci riguarda, grida il nostro nome, interpella la nostra coscienza. A ben vedere, è più che una guerra; è un’epoca. È il tempo che ci è dato in sorte. E dobbiamo attrezzarci, non solo con l’intelligence e gli apparati di sicurezza, ma anche culturalmente.
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La consapevolezza è più dolorosa ma anche più utile dell’ignavia. Se da una parte è importante tenere i nervi saldi, evitare reazioni sciocche come prendersela con i poveri ambulanti bengalesi, badare a non equiparare l’Islam al fondamentalismo e le migrazioni al terrorismo, dall’altra parte la discussione deve essere aperta e libera dai ricatti ideologici.
Si deve essere liberi di porre questioni senza essere tacciati di razzismo o di islamofobia.Ci si può domandare se un Paese in cui in un solo giorno sbarcano 4.500 migranti — senza contare quelli arrivati per terra o per aria — è un Paese che sta proteggendo le sue frontiere, senza sentirsi chiamare xenofobi.
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Si può chiedere ai musulmani d’Italia di prendere posizione e impegnarsi in concreto contro l’estremismo, senza sentirsi rispondere che non c’entra niente e il problema è sempre un altro.
È possibile affrontare le prove durissime che ci attendono senza perdere l’umanità che da sempre contraddistingue il nostro popolo, e di cui siamo giustamente orgogliosi. Ma far finta di nulla, girare la testa dall’altra parte e trattare chi pone il problema come un importuno non ci aiuterà.
Foto: Ansa, AP, Sky TG24 e Reuters
fonte: http://www.analisidifesa.it
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