La recente attenzione internazionale sull’Iraq e sui combattenti Peshmerga ha dato all’Occidente l’idea d’un Kurdistan iracheno
come entità del tutto indipendente e svincolata dal governo centrale di
Baghdad. Si tratta d’una mezza verità, d’una situazione che la guerra
degli ultimi mesi ha modificato, dando probabilmente forza all’entità
che vorrebbe diventare uno Stato indipendente. Per capire come si sia
arrivati allo scenario attuale, è necessario fare parecchi passi
indietro: comprendere che il Kurdistan iracheno non ha sempre goduto
d’uno status speciale e che, per conquistare i diritti che lo
caratterizzano, è dovuto passare attraverso collaborazioni con Stati
esteri, scontri violenti, genocidî.
Il punto da cui conviene partire è la prima guerra mondiale, momento d’estrema importanza nello scacchiere mediorientale. Nel 1916, Francia e Regno Unito
stipularono segretamente, senza darne notizia alla Russia alleata,
l’accordo Sykes–Picot, nel quale, prevedendo la capitolazione e
dissoluzione dell’Impero ottomano, le due potenze se ne
spartivano i territori. Con la fine della guerra e dell’Impero
ottomano, le rivendicazioni francesi e britanniche furono portate sul
tavolo delle trattative, ma si dovettero scontrare coi tanto acclamati
princípi wilsoniani concernenti l’autodeterminazione dei popoli e la
lotta alla spartizione «a tratto di penna» tipica del periodo coloniale.
Si giunse cosí agli accordi di Sèvres, nei quali fu riconosciuto alla
nazione curda il diritto di costituire uno Stato autonomo i cui confini
sarebbero stati decretati da una commissione nominata dalla neonata
Società delle Nazioni, parallelamente ai famosi «Mandati» attribuiti a
Francia (Libano e Siria attuali) e Regno Unito (Iraq, Transgiordania,
Palestina). Il trattato non entrò mai in vigore, in quanto mai
ratificato: il Parlamento ottomano, cui spettava il compito, era già
stato abolito. Le potenze mandatarie ebbero tuttavia la prontezza
d’insediarsi nei territori attribuiti loro. I britannici nominarono re
d’Iraq Faysal I, il quale, d’origine e famiglia
hascemita, non aveva alcun legame con la terra su cui era finito a
regnare. I rapporti tra curdi e britannici non furono facili:
insurrezioni curde iniziarono a manifestarsi dal 1919, sotto la guida di
Mahmud Barzani. Nel tentativo d’arginare le ostilità, i
mandatari britannici decisero di porre Barzani come governatore della
regione di Sulaymaniyya, situata nel Kurdistan iracheno meridionale,
credendo di poterlo cosí manipolare a proprio piacimento. Ma Barzani non
era disposto ad abbandonare la propria causa per una poltrona, e si
fece acclamare re del Kurdistan. Mentre in un primo momento gl’inglesi
accettarono il suo accresciuto potere, sempre in un’ottica
d’acquietamento della regione, dopoché il nuovo re iniziò a catturare
soldati britannici e a fomentare rivolte contro i mandatari, questi
ultimi usarono il pugno di ferro. Mahmud fu ferito, catturato e poi
rinchiuso in una prigione in India, dove rimase fino al 1922.
Coll’esilio del leader, la regione cadde nel caos. Rivolte
disorganizzate e tentativi da parte dei turchi — o, piú precisamente, di
Mustafa Kemal e seguaci — d’appropriarsi di territori britannici al
confine convinsero i mandatari a richiamare Barzani dall’esilio per
riportare ordine. Fu comunicato che sarebbe stata concessa l’indipendenza
al Kurdistan iracheno se esso fosse stato in grado di dotarsi d’una
costituzione e accordarsi sui confini. Nel 1923, con la scusa che questi
requisiti non erano stati soddisfatti, l’indipendenza fu negata.
Il Trattato di Losanna, stipulato nello
stesso anno in sostituzione di quello di Sèvres, non prevedeva, infatti,
alcuno Stato indipendente a matrice curda. La sconfitta non quietò di
certo gli animi: le rivolte continuarono, e nel 1931 un gruppo di
personaggi curdi di rilievo mandò una petizione alla Società delle
Nazioni, chiedendo che uno Stato autonomo fosse riconosciuto — richiesta
che non ottenne soddisfacimento. Nello stesso anno si fece conoscere un
personaggio destinato ad avere un grande peso nel futuro del Kurdistan
iracheno: Mustafa Barzani. Egli iniziò a combattere contro i britannici a fianco del fratello Ahmed.
Mustafa fu imprigionato, ma nel 1943 riuscí a fuggire e nel 1945 a
raggiungere, insieme al fratello e un gruppo di seguaci, l’Iran, dove
partecipò — a fianco dei curdi iraniani, capeggiati da Qazi Muhammad — alla fondazione del Partito Democratico Curdo e all’esperienza della Repubblica di Mahabad, a matrice curda e sostegno sovietico. Nel 1946, decise di fondare il ramo propriamente iracheno del partito, il KDP.
Dopo il ritiro forzato dell’esercito sovietico in rispetto agli accordi
di Yalta, l’entità autonoma cadde, e Mustafa fu costretto a fuggire.
Riparò prima in Armenia e poi in Azerbaigian, dove riuscí a mettersi in
contatto coi vertici del Partito Comunista locale, incoraggiati da Mosca
a fornire supporto alla causa curda. Tra il 1946 e il 1958, non tornò
nella terra natale, ma furono anni destinati a contribuire enormemente
agli avvenimenti futuri.
Si riorganizzò, circondandosi di nuovo
sostegno e attendendo il momento propizio per tornar in scena.
L’occasione si presentò col colpo di Stato, noto come la Rivoluzione del
14 luglio, messo in atto per rovesciare la monarchia di Faysal I a
opera d’un gruppo di nazionalisti guidati da Abd al-Karim Qasim.
Ancor una volta, si ripeté lo schema consolidato: il governo centrale
(in questo caso, il neo-primo ministro Qasim) tenta di legare a sé
Barzani, assicurandosi la stabilità della regione del Kurdistan in un
momento d’agitazione generale; presto però si rende conto che la regione
e il suo leader stanno guadagnando troppo potere, col rischio
di volersi distaccare dallo Stato centrale. Cosí accadde, e Qasim,
ricorrendo a uno stratagemma già adottato, alimentò le faide interne ai
diversi clan del Kurdistan, mettendo a dura prova il loro comune senso
d’appartenenza. Dal 1961, ripresero le ostilità armate. Nel 1963 e nel
1968, lotte intestine al governo centrale e destituzioni portarono al
potere il partito Baath, d’orientamento ostile ai
curdi: gli scontri si fecero ancor piú sanguinosi. L’anno successivo, la
richiesta di giungere ad accordi si fece sentire da piú parti. Furono
intavolate negoziazioni che porteranno ad accordi ufficiali l’11 marzo
1970. Venivano riconosciute l’autonomia dell’Iraq settentrionale
coll’esclusione di Kirkuk, un’assemblea legislativa, l’esistenza del
popolo curdo, e la lingua curda come seconda lingua ufficiale dello
Stato accanto all’arabo. In cambio, la disponibilità ad accettare il
pieno controllo dell’esercito iracheno sul territorio curdo. L’accordo
non resse: Barzani accusò il governo centrale di continuare il processo
d’arabizzazione e di non garantire i margini d’autonomia previsti. Nel
1971, fu messo in atto un attentato per eliminare Barzani, che però
sopravvisse e identificò il mandante in Saddam Hussein,
colui che aveva negoziato gli accordi del marzo 1970 da parte del
governo. Il sostegno d’Iran, Stati Uniti e Israele non fu sufficiente a
tener in piedi un movimento che ormai da molti anni era afflitto da
conflitti interni, in particolare tra un’ala d’intellettuali cittadini
radicali e una piú disposta a scendere a patti, cui facevano riferimento
i famosi combattenti Peshmerga e lo stesso Barzani. L’accordo d’Algeri, momento centrale della guerra fredda, diede il colpo di grazia al leader
del movimento: in un ottica di pacificazione della regione, gli USA
decretarono la fine del sostegno materiale dell’Iran ai Peshmerga.
Sostegno a dir poco vitale, tant’è che, deluso e senza prospettive,
Barzani s’auto-esiliò in Iran insieme a numerosi seguaci.
Nel 1975 fu fondata l’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK),
guidata da Jalal Talabani, talvolta alleata, talvolta in opposizione al
KDP, col quale, di fatto, condivideva gli obiettivi di base:
riconoscimento della minoranza curda e dei suoi diritti,
autodeterminazione, pace e democrazia non solo per il proprio popolo ma
per l’Iraq intero. Nel frattempo, il governo centrale si riappropriava
dei territori curdi ormai allo sbando, avviando un’ulteriore ondata
d’arabizzazione, che incontrò ancor una volta resistenza armata,
repressa con deportazioni di massa e distruzione d’interi villaggi. Nel
1983, in piena guerra Iran–Iraq, Saddam Hussein decise d’intavolare
trattative con la PUK, con la volontà di consolidare l’unità statale in
un momento tanto delicato. Dopo tredici mesi di discussione, tanta
diffidenza reciproca e numerose promesse, gli scontri ripresero. La PUK
riuscí a ottenere successi clamorosi e, invitando il rivale partito KDP a
unire le forze, a formare il Fronte del Kurdistan Iracheno,
coll’intento di togliere il potere a Saddam e stabilire uno Stato
iracheno democratico con un Kurdistan indipendente. L’Iran non tardò a
prendere contatti col gruppo: un certo numero d’operazioni congiunte fu
portato avanti con successo, ma l’infuriata reazione di Saddam non si
fece attendere. Autorizzò il governatore dell’Iraq del Nord nonché
cugino Ali Hassan al-Majid a ricorrere a ogni mezzo.
Dal 1986 al 1989, col momento piú aspro tra il febbraio e il settembre
1988, Saddam decise di mettere in atto la sua «soluzione finale»: la campagna d’al-Anfal,
che secondo Human Rights Watch provocò tra le 50.000 e le 100.000
vittime, inclusi civili, cui vanno sommate le vittime appartenenti ad
altre minoranze, come turcomanni, yazidi ed ebrei. Deportazioni in massa
in campi di prigionia, esecuzioni d’uomini in età «da combattimento»,
interi villaggi rasi al suolo e ricorso alle armi chimiche — gas
mostarda ma anche nervino. Il governo centrale, nel corso dei primi
attacchi, s’affrettò a puntar il dito contro l’Iran e ordinò agli
ospedali di non curare feriti che si rifiutassero di firmare una
dichiarazione in cui riconoscevano la responsabilità iraniana; in un
secondo momento, alle strutture fu ordinato di non accogliere del tutto
le vittime dei gas venefici. Nel 2006, Saddam sarà processato per genocidio in riferimento ai fatti d’Anfal, anche se la sua sentenza di morte sarà legata a un altro massacro, quello di Dujail, perpetuato in risposta a un tentativo d’omicidio del leader.
La guerra del Golfo nel 1991 diede ai
curdi e alle altre minoranze duramente represse l’occasione di
ribellarsi apertamente: in Kurdistan, PUK e KDP invitarono la
popolazione e i diversi partiti a unire le forze. Tutte le città tranne
Mossul riuscirono a liberarsi; manifestazioni ebbero luogo nelle città,
sostenendo l’esplicita richiesta di democrazia per l’Iraq e indipendenza
per il Kurdistan. La controffensiva dei lealisti non tardò ad arrivare,
portando una nuova carica di morte e il sospetto ricorso, ancor una
volta, a gas e armi chimiche. Si stima che un milione e mezzo di
profughi curdi fuggí sulle montagne, in Turchia e in Iran. La zona d’interdizione al volo
fu dichiarata dagli USA e alleati, accompagnata da aiuti umanitari alle
popolazioni in fuga. Fu proclamata la nascita della Repubblica Autonoma
del Kurdistan e, di risposta, il blocco da parte del governo Saddam del
passaggio di cibo, carburante e altri beni. Istituito nel 1992, il
Governo Regionale Curdo scelse come capitale dell’entità autonoma Arbil.
V’è un Parlamento elettivo con 111 membri, e la Repubblica ha un corpo
di rappresentanza presso il Parlamento iracheno: essa intrattiene
relazioni diplomatiche con alcuni Stati e organizzazioni, inclusi UE e
ONU.
La Repubblica riuscí a espandersi nel
2003, in occasione del secondo intervento statunitense in terra
irachena, proprio grazie al supporto concordato a questi ultimi: 70.000
Peshmerga combatterono a fianco di statunitensi e alleati. L’entità
territoriale autonoma fu finalmente riconosciuta dal nuovo governo
stabilitosi dopo la caduta di Saddam: il leader della PUK ne
divenne presidente, mentre quello del KDP diventò presidente del Governo
Regionale del Kurdistan. Gli screzi col governo centrale non erano
tuttavia terminati: la Repubblica autonoma annetté territori a suo
parere a maggioranza curda, azione contestata da Baghdad. Un problema
noto riguarda l’autonomia della regione nella commerciabilità del
petrolio ivi estratto: Baghdad ritiene illegittimo che il Kurdistan
stipuli i contratti di vendita indipendentemente dal suo parere e dalla
sua autorità.
Un fattore che deve far riflettere è che
la regione, nonostante le rivolte, le guerre e i genocidî che l’hanno
caratterizzata, sia la piú ricca d’Iraq: nel 2009, il reddito pro capite era il 50% piú alto di quello d’un cittadino iracheno. Con la scusa di difendersi dall’ISIS, nel giugno di quest’anno la Repubblica autonoma è riuscita ad annettere l’area di Kirkuk,
una delle piú ricche di petrolio del Paese (20% delle riserve irachene)
nonché «capitale storica» dei curdi iracheni. Quest’annessione,
paventata da tempo, ha costituito un grosso scacco nei confronti del
governo centrale.
L’attuale situazione, col Kurdistan come
unica regione nell’area di crisi che è riuscita a tenere testa all’ISIS
(che anzi, come detto, è riuscita ad ampliare il proprio territorio),
promette ulteriori cambiamenti di status della Repubblica autonoma. A
giugno, il presidente Mas’ud Barzani ha annunciato che nel giro di
qualche mese si sarebbe tenuto un referendum circa la totale
indipendenza della regione. Il Kurdistan iracheno potrebbe finalmente
diventare «casa» per la piú grande nazione senza uno Stato presente nel mondo.
Un gioco delicato, riguardo al quale è
difficile fare pronostici, vista la complessità e l’oscurità
dell’attuale situazione nell’area. Certo è che qualora l’Iraq tornasse
coeso, previa eliminazione del Califfato, tutto farebbe pur di non
perdere la sua regione piú ricca. S’impegnerebbe inoltre a non
permetterle di comportarsi in modo del tutto autonomo dal punto di vista
economico, come ha fatto in passato e come continua a fare. Da parte
sua, il Kurdistan rinfaccerebbe il grande contributo (morale e non solo)
nell’aver tenuto testa alla nera ondata dell’ISIS, nel sostenere le
proprie istanze d’indipendenza. Si cadrebbe in una nuova spirale di
violenza, un copione già visto e rivisto. Qualora invece l’Iraq non
riuscisse a sopravvivere come Stato, diventando uno Stato fallito,
allora sí, il Kurdistan iracheno potrebbe guadagnarsi l’agognata
indipendenza, provocando quella catena di reazioni che solo la
geopolitica — quella del Medio Oriente in particolare — è capace di regalare.
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