Da almeno trent’anni, il copione è sempre o stesso: per revocare diritti e conquiste sociali è necessaria la piena complicità di quella sinistra che nel dopoguerra aveva lottato per il welfare,
cioè per l’estensione orizzontale del benessere. Il grande capitale
finanziario e oligarchico utilizza partiti e sindacati di cui la gente è
abitutata a fidarsi – chi meglio di loro? Dunque non devono più
combattere contro le riforme strutturali, destinate a demolire la
struttura dell’economia sociale. E in più devono collaborare pienamente all’erosione della società dei diritti,
che oggi culmina con l’attacco storico alla Costituzione democratica.
Attraverso il famigerato memorandum di Lewis Powell, la destra economica
statunitense aveva dettato la linea già all’inizio degli anni ‘70:
radere al suolo in tutto l’Occidente la sinistra radicale e
addomesticare la sinistra riformista, letteralmente “comprando” i suoi
leader per ottenere la smobilitazione di partiti e sindacati. Detto
fatto. E quindi che senso ha, oggi, protestare contro Renzi dopo essersi
piegati per decenni ai peggiori diktat?
E’ stato il centrosinistra guidato dai tecnocrati a consegnare gli
italiani all’euro-sistema, massima espressione della fine dei diritti, condannando il paese alla crisi: non c’è più “benzina” per le politiche sociali, perché Maastricht – revocando la sovranità
monetaria – ha prosciugato le casse dello Stato, costretto a svendere
prima i servizi pubblici e poi il sistema-paese, le aziende e le
tecnologie, i risparmi, i giovani talenti. Tutto travolto dal taglio
della spesa pubblica, che fa crollare anche l’economiaprivata
fondata sui consumi. Dov’èra, Susanna Camusso, mentre tutto questo
accadeva? Se lo domanda Giorgio Cremaschi, già leader della Fiom, di
fronte al tardivo soprassalto di orgoglio esibito dalla Cgil dopo la
rottamazione forzata della repubblica dei lavoratori, il Jobs Act
renziano. «In questi decenni – scrive Cremaschi su “Micromega”
– il principale sindacato italiano da un lato è stato l’attore sociale
della sinistra, perfettamente collaterale al Pd, dall’altro ha
ripetutamente tentato un patto dei produttori con l’impresa, per agire
di concerto con essa rispetto al potere politico. Entrambi questi
capisaldi della strategia della Cgil ora franano clamorosamente e il suo
gruppo dirigente non sa letteralmente che fare».
Nessuna mobilitazione di piazza, dice Cremaschi, riuscirà a chiarire
dove si sta andando, «perché la rivoluzione reazionaria di Renzi si
combatte non solo rompendo con le sue manifestazioni estreme, ma anche
con le ragioni e con il percorso che ad essa ci hanno portato». Il
governo Renzi? «Lo potremmo chiamare il governo Renzi-Marchionne, almeno
per quel che riguarda il lavoro». Rappresenta «l’ultimo e più
intelligente tentativo delle classi dirigenti italiane ed europee di
imporre da noi le politiche liberiste che hanno distrutto la Grecia».
Intelligente, certo, «perché si è capito che la pura brutalità dei
diktat della Troika alla lunga non paga: per questo le politiche
liberiste oggi devono essere accompagnate o addirittura precedute da
cambiamenti politici e culturali che rendano accettabile o persino
condivisibile l’accentuazione delle già così esplosive diseguaglianze
sociali». Niente di nuovo: «Per fare questo non basta la destra
tradizionale, bisogna occupare il campo della sinistra e portare la
parte più grande di essa a sostenere politiche più a destra della
destra tradizionale». Questo è il renzismo, dice Cremaschi. Ma è anche –
alla lettera – l’applicazione della dottrina di Lewis Powell contro i
lavoratori.
In Italia, secondo Cremaschi, siamo di fronte all’ultima versione «di
quel trasformismo politico che nella storia del nostro paese è sempre
partito dalla mutazione genetica della sinistra». Ma il fenomeno non è
certo un’esclusiva del made in Italy: in Gran Bretagna provvide Tony
Blair, il maestro di Renzi, a far piazza pulita di quel po’ di sinistra
laburista che era sopravvissuta a Margaret Thatcher. In Germania, la
patria della socialdemocrazia europea, la Spd fu suicidata dal
cancelliere Gerhard Schroeder, l’uomo che fece storici sconti alla
Russia per poi ottenere un ingaggio miliardario dalla Gazprom come
super-consulente. Proprio Schroeder varò le micidiali riforme
strutturali ispirate dal boss della Volkswagen, Peter Haartz, che comprò
– corrompendoli – i leader sindacali dell’azienda, perché tradissero i
lavoratori che si fidavano di loro. In Francia, l’eclissi della sinistra
raggiunse caratteri mostruosi col monarca finto-socialista Mitterrand:
fu lui, il massimo architetto politico dell’euro-regime, a inoculare il
virus letale dell’austerity nello Stato europeo, proiettando micidiali
tecnocrati – da Jacques Delors a Jacques Attali – al vertice del nuovo
super-potere di Bruxelles, da cui impartire le direttive che avrebbero
trasformato la fiorente Europa nella “terra desolata” di oggi, ricattata dalle banche e devastata dalla recessione e della disoccupazione.
In Italia, con Renzi, siamo agli spiccioli finali: «La cancellazione
dell’articolo 18 ha il valore simbolico dell’abbattimento dell’ultima
bandiera dell’uguaglianza e serve a rendere accettabili provvedimenti
ben più immediatamente sostanziosi, come il via libera ai licenziamenti
di massa dato alla ThyssenKrupp, o il regalo alla Confindustria della
riduzione delle tasse sui profitti pagata con i ticket dei malati»,
scrive Cremaschi. «Abbiamo realizzato un sogno, ha detto Squinzi, mentre
lavoratori e precari vivono nell’incubo». Ma la sceneggiatura è
invariabile: la promozione della rovina non può procedere senza il pieno
consenso dei leader dell’ex sinistra. «Un governo così sfacciatamente
filopadronale – insiste Cremaschi – non poteva che nascere da una
operazione culturale e politica che
si accampasse e giustificasse nel Pd». Il governo Renzi? «Riassume
trenta anni di politiche liberiste contro il lavoro e le conduce al
punto estremo», rendendo palese «la doppia contraddizione della Cgil».
La prima è la più
evidente: «Il rapporto del primo sindacato italiano con il Pd sta
diventando sempre più insostenibile, ma allo stesso tempo resta
inscindibile».
Il guaio è che la Cgil, con i suoi gruppi dirigenti, ha sinora avuto il
Pd come referente istituzionale fondamentale: «Rompere con esso
significherebbe praticare un mare aperto nelle relazioni politiche che
fa paura». Imbarazzante, quindi, che con la Cgil si schierino esponenti
Pd dell’area anti-renziana, come Stefano Fassina, che poi però restano
«disciplinati nel votare la legge sul lavoro». Anche qui, nulla di
originale: le più importanti manomissioni della legislazione del lavoro
in Italia furono introdotte da esponenti del centrosinistra, primo fra
tutti Tiziano Treu con l’omonimo “pacchetto” di riforme, poi sviluppato
da Massimo D’Antona (governo D’Alema) a aggiornato da Marco Biagi,
consulente del governo Berlusconi ma proveniente dalla sinistra
socialista, come D’Antona poi barbaramente assassinato dalle “Nuove Br”.
La loro “colpa”, agli occhi dei killer? Aver cercato di demolire lo
Statuto dei Lavoratori, precarizzando l’impiego. E i sindacati
dov’erano? Dalla stessa parte, ovviamente: tacevano, approvando in
silenzio le norme padronali che avrebbero sottratto diritti un tempo intangibili.
Un’acquiescenza tacita, mai interrotta. La Cgil oggi si oppone al Jobs
Act, contesta Cremaschi, ma in questi trent’anni «ha sempre finito per
accettare tutti i patti e i provvedimenti che hanno portato ad esso».
Ultimi esempi: «La legge Fornero sulle pensioni e il primo attacco
all’articolo 18 del governo Monti son passati tranquillamente». E se ora
la Camusso si oppone alla legge-delega, «non fa certo altrettanto con
quei Job Act diffusi che vengono definiti in accordi che riducono diritti e
salario», da ultimi «l’accordo del 10 gennaio con la Confindustria
sulla rappresentanza e alcuni pessimi contratti». Lo scatto d’orgoglio
contro Renzi? Meglio tardi che mai. Ma non è sufficiente «né a fermare
l’offensiva di un governo che le contraddizioni del sindacato ben le
conosce ed usa,
né tantomeno a invertire la tendenza al degrado delle condizioni di chi
lavora». Perché tutto questo cambi, conclude Cremaschi, «è necessaria
una rottura di fondo della Cgil con la linea politica e le pratiche sindacali di questi trenta anni. Ma di questo, al momento, non si vede alcuna traccia».
http://www.libreidee.org/2014/10/complici-del-massacro-sociale-e-ora-contestano-renzi/
tramite: http://alfredodecclesia.blogspot.it/
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