Grecia, Libia, Egitto e ora Kiev.
Ogni volta che si muove compatta Bruxelles sbaglia. E paga. Una guerra
commerciale con Mosca può costarci fino a 1,5 punti di Pil
Se anziché offrire la miseria di 560 milioni di euro come misura di accompagnamento al trattato di associazione dell’Ucraina nel novembre scorso l’Unione Europea fosse stata un po’ più generosa e lungimirante, adesso non ci troveremmo a dover prestare a Kiev 11 miliardi tanto per cominciare, con la prospettiva di aggiungerne molti di più per evitare la bancarotta del paese.
Se con la spilorceria di allora non avessimo spinto Yanukovich a girarsi verso Mosca, che gli offriva 15 miliardi di dollari e tariffe scontatissime per il consumo del gas, non avremmo avuto tutti i guai che poi sono arrivati.
Se avessimo elaborato d’accordo con Mosca un’architettura istituzionale e degli scambi commerciali in grado di tenere assieme l’associazione dell’Ucraina all’Unione Europea e una sua qualche adesione all’Unione Euroasiatica alla quale Putin tiene tanto, adesso non staremmo qui a fare a braccio di ferro col leader russo.
Se nel febbraio scorso dopo aver concluso con Yanukovich e con le opposizioni di Maidan un accordo che prevedeva elezioni presidenziali anticipate, governo di coalizione, ripristino della costituzione del 2004 e riequilibrio dei poteri fra presidente e parlamento i ministri degli Esteri di Francia, Germania e Polonia lo avessero fatto rispettare, col supporto di lady Ashton e di tutta l’Unione, anziché permettere che i gruppi paramilitari di Maidan costringessero il presidente in carica alla fuga e che i parlamentari cambiassero gabbana, adesso non ci troveremmo a fare i conti di quanto potrebbe costare all’Europa imporre sanzioni alla Russia che ha sparso truppe in Crimea.
Quando si tratta di intraprendere azioni collettive, l’Europa sbaglia tanto, l’Europa sbaglia spesso, e i conti da pagare si allungano. È successo col tardivo salvataggio della Grecia, è successo con le Primavere arabe, potrebbe succedere con la Russia se questa storia delle sanzioni dovesse diventare una faccenda che sfugge di mano. I due nodi irrisolti dell’esperienza storica dell’Unione Europea continuano a venire al pettine: gli interessi di politica estera dei paesi dell’Europa unita non sono allineati, e in assenza di un vero controllo democratico dei processi decisionali da parte dei popoli a prevalere sono gli interessi lobbistici o quelli delle nazioni più forti.
Quanto ci costerà un’escalation di sanzioni con la Russia, che si sarebbe potuta evitare se Bruxelles avesse avuto cura di tradurre in realtà anche uno solo dei quattro “se” elencati in apertura? La Germania di Angela Merkel è il paese dell’Unione che ha più da rimetterci: la Russia fornisce a Berlino il 40 per cento del gas di cui ha bisogno, e al quale non può rinunciare, se vuole portare avanti il piano di uscita dal nucleare. Il 5 per cento di tutte le esportazioni manifatturiere della Germania ha per destinazione la Russia. L’interscambio russo-tedesco è pari a 76,4 miliardi di euro (40,4 miliardi di importazioni russe e 36 di esportazioni tedesche) e coinvolge 6.200 imprese germaniche. Le sanzioni metterebbero in discussione 300 mila posti di lavoro.
Mosca vale più di Washington
L’altro grande paese europeo che ha molto da perdere da una messa in quarantena dei rapporti coi russi è il Regno Unito. Una massa di liquidità di vaste proporzioni dopo la caduta del muro di Berlino e dopo la privatizzazione di molti monopoli statali in Russia che ha beneficiato i cosiddetti oligarchi, si è riversata sulla city londinese. Gli oligarchi amano molto Londra, e si sono segnalati per i loro acquisti di grandi proprietà immobiliari e squadre di calcio. Non esiste una stima attendibile che quantifichi l’apporto finanziario russo ai bilanci delle banche londinesi e alla parcelle di avvocati, commercialisti, contabili e consulenti. Ma un punto di riferimento può essere il fatto che alla Borsa di Londra sono quotate 70 imprese russe le cui azioni attualmente hanno un valore di 82,6 miliardi di dollari. Un altro dato significativo è quello che riguarda le dispute presso i tribunali specializzati in diritto commerciale. La Law Society Gazette informa che nel solo 2012 il 60 per cento di tutte le cause discusse dalla Commercial Court britannica hanno riguardato controparti russe. Non è perciò strano che, mentre il primo ministro Cameron minaccia Mosca con toni simili a quelli della Merkel, nel suo ufficio circolino documenti ufficiali dove si afferma che Londra non appoggerà un boicottaggio commerciale né chiuderà le porte della city ai capitali russi o congelerà quelli già presenti.
Quanto all’Italia, nel 2013 abbiamo toccato il massimo storico dell’interscambio con Mosca e ci siamo confermati secondo partner dei russi in Europa dopo la Germania. I dati definitivi non sono ancora disponibili, ma si aggirano attorno agli 11 miliardi di euro di esportazioni e 17,5 di importazioni (energia principalmente). Se consideriamo tutta l’Unione Europea, scopriamo che l’interscambio supera i 360 miliardi di dollari: la Russia esporta verso l’Unione per 292 miliardi di dollari, e importa per 169. Al confronto, l’import-export russo-americano è quasi 10 volte meno importante: 27 miliardi di dollari di acquisti russi a Washington, contro un export di 11 miliardi. Insomma, l’eventuale guerra commerciale dell’Occidente contro Putin che si pappa la Crimea la pagherebbe quasi tutta l’Europa.
Naturalmente la pagherebbe cara anche la Russia. L’Europa comprerebbe il gas altrove, senz’altro a un prezzo più alto di quello attuale una volta tolto quello russo dal mercato, mentre la Russia non saprebbe a chi vendere la sua produzione. Secondo una proiezione del Dipartimento di economia dell’Università di Oxford, una guerra commerciale fra Bruxelles e Mosca causerebbe un aumento del prezzo del petrolio del 10 per cento e del gas del 15 per cento in Europa, con una flessione del Pil dell’Unione Europea dell’1,5 per cento da qui al 2015.
Per la Russia sarebbe molto peggio: con l’80 per cento del suo gas invenduto, Mosca si ritroverebbe un meno 10 per cento di Pil da qui al 2015. Un congelamento degli asset mobiliari e immobiliari di proprietà russa in Europa sarebbe un duro colpo soprattutto per quella nomenklatura e quegli oligarchi che hanno costituito grossi patrimoni a Londra, Parigi, Cipro, Costa Azzurra, eccetera. Inoltre l’export dell’Unione verso la Russia rappresenta solo il 7 per cento di tutte le esportazioni del blocco nel mondo, mentre l’export della Russia verso i paesi Ue rappresenta quasi il 50 per cento del suo totale.
Ma sottolineato questo, è anche vero che Mosca è in grado di compiere rappresaglie: le banche europee hanno investito 180 miliardi di euro in Russia, e se gli asset finanziari russi in Europa saranno congelati, a quelli europei nella terra di Putin toccherà la stessa sorte. Le sanzioni peggiorerebbero drammaticamente la qualità della vita in Russia, ma la scomparsa del mercato russo per i manufatti europei ucciderebbe nella culla la timida ripresa che, dopo cinque anni di crisi, ha cominciato ad affacciarsi sull’Europa. Economicamente la Russia, con 140 milioni di abitanti e un territorio vasto 57 volte quello dell’Italia, è ancora un nano: il suo Pil è praticamente identico al nostro, cioè di poco superiore ai 2 mila miliardi di euro. Però mentre il debito pubblico dei paesi dell’area dell’euro è mediamente pari al 92,7 per cento del Pil, quello russo è appena dell’11 per cento. Il governo russo può usare la leva della spesa pubblica come nell’Unione Europea non è più possibile fare. A ciò si aggiunga la storica disponibilità al sacrificio patriottico delle masse russe quando sono in gioco gli interessi vitali della nazione, ed ecco che le conseguenze delle sanzioni diventano più difficili da prevedere.
Il colpo da maestro di Obama
Non è la prima volta che l’Unione si trova nei guai per errori di valutazione di varia origine. Nel 2010 il salvataggio della Grecia costò all’Europa più del doppio di quello che sarebbe stato necessario perché la Merkel, timorosa di perdere voti nelle elezioni regionali, non accettò subito la richiesta greca di un pacchetto di aiuti pari a 60 miliardi di euro formulata all’inizio di aprile; la speculazione internazionale si scatenò, e il 2 maggio Bruxelles dovette annunciare un intervento pari a 145 miliardi di dollari. Il tatticismo della Merkel non servì a nulla nemmeno in termini di politica interna: il suo partito perse rovinosamente le elezioni in Renania settentrionale-Vestfalia.
Con le Primavere arabe è andata allo stesso modo. Quando, fra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, sono scoppiate le proteste che avrebbero portato alla caduta dei regimi dominanti in Tunisia ed Egitto e alla guerra civile in Libia e Siria, da 15 anni l’Unione Europea cooperava coi paesi della sponda sud del Mediterraneo attraverso il Processo di Barcellona e dal 2008 con l’ambiziosa formula dell’Unione Mediterranea. Aveva a bilancio per il 2011, nel capitolo della Politica europea di vicinato destinato al partenariato euro-mediterraneo, 843 milioni di euro. Nel periodo 2007-2010 la Tunisia si era vista assegnare aiuti per 300 milioni di euro, l’Egitto nello stesso periodo per 558 milioni. L’obiettivo degli aiuti era lo sviluppo economico e la progressiva democratizzazione dei paesi arabi.
La Commissione europea così presentava l’iniziativa: «Attraverso la sua Politica europea di vicinato, la Ue lavora coi suoi vicini meridionali e orientali per raggiungere la più stretta associazione politica possibile e il maggior grado possibile di integrazione economica. Questo fine si basa sugli interessi comuni e su valori: democrazia, Stato di diritto, rispetto per i diritti umani e coesione sociale. I paesi partner concordano con l’Unione Europea un piano d’azione che dimostra il loro impegno per la democrazia, i diritti umani, lo Stato di diritto, il buongoverno, i princìpi dell’economia di mercato e lo sviluppo sostenibile».
I fatti della Primavera araba hanno mostrato quanto poco efficace fosse stata quella politica e la sua pretesa condizionalità. Commentava l’Heritage Foundation americana all’indomani dei moti nei paesi arabi: «L’Unione Europea ha promosso una girandola di iniziative politiche fallite per l’avanzamento dei diritti umani e delle riforme democratiche in Libia e in altre parti del Nordafrica e del Medio Oriente. L’Unione Mediterranea, di cui la Libia era osservatrice, è stata introdotta per promuovere l’integrazione economica e la riforma democratica nell’Europa meridionale, nel Nordafrica e nel Medio Oriente. Ha fallito completamente nel realizzare progressi in queste aree».
Gli americani che hanno criticato l’Europa per i suoi insuccessi nei rapporti col mondo arabo e che oggi spingono per sanzioni contro la Russia «che mordano» sanno di poter prendere due piccioni con una fava: indebolire Mosca e sostituirla come fornitrice di energia all’Europa, esportando da noi lo shale gas che hanno sviluppato negli ultimi anni. Un colpo da maestro per Obama, dopo le scoppole prese da Putin nel 2013.
marzo 22, 2014
Rodolfo Casadei
fonte: http://www.tempi.it
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