Nel
1911 l’Italia commossa e piagnona di Pascoli e De Amicis, un’Italia da
Sanremo mosse guerra alla Libia. Anzi no, alla Turchia. Nemmeno,
all’Impero Ottomano. Era questo, l’ultima vestigia in terra d’Europa di
un’idea allora molto fuori moda, ormai anacronistica: l’idea dell’impero
multirazziale. (Per quanto nei propri territori orientali, anche il
Reich tedesco e lo “Stato dell’Est” austriaco ne mantenessero alcune
caratteristiche). Seguendo il modernismo degli Stati nazionali europei,
l’Italia giolittiana si avventò su Istanbul dove già Sublime porta e
giovani turchi s litigavano il potere. Con spirito cavouriano, l’Italia
sabauda si mosse, con mentalità di regno minore parafrancese, guardando
più alle capitali europee che alle terre d’Africa. L’Italia piemontese
aveva scatenato l’emigrazione meridionale ed una diversa razza di
italiani, i siciliani, si erano ammassati nella prospiciente Tunisia
dove godevano di sostanziale extraterritorialità. Nella “piccola
Sicilia” di Tunisi, 100mila italiani, di cui il 70% siciliani
costituivano l’etnia europea più numerosa. Per vent’anni dall’Unità,
Roma aveva accarezzato l’idea di annettersi questa Sicilia
transmediterranea, finché nell’1881 la Francia l’occupò. Gli
italo-tunisini o siculotunisini, quasi “piednoir” italiani, entrarono
nel tunnel di un mito negativo combinato delle repressioni francese,
colonialista, postcolonialistafino a quella islamista che in un secolo
li ha decimati. E fu in nome loro, o meglio dell’orgoglio ferito per
quanto loro capitato, che la grande proletaria giolittiana cercò
riscatto nella vicina terra africana della Cirenaica e Tripolitania.
Insomma nel 1911 l’Italia mosse guerra alla Turchia, pensando di
farla contro la Francia ed il cinico destino. Senza sapere degli eventi a
catena prodotti: nell’immediato, la cacciata dei turchi dall’Europa e
la destabilizzazione balcanica; nel lungo periodo la permanente
destabilizzazione mediorientale e nordafricana. 2011 Un secolo dopo, nel
2011, rieccoci. Un’Italia stravolta e divisa di Busi e Rodotà,
un’Italia da vaffaday, l’Italia degli ex comitati della pace di Stalin
muove guerra alla Libia. Di soppiatto. Non lo fa per la Cirenaica e la
Tripolitania, ma per ragioni interne. L’odiato Berlusconi, dopo decenni
di litigi diplomatici ha stretto alleanza con il dittatore libico. Anzi
gli ha affidato il compito di bloccare l’emigrazione africana destinata
via Libia all’Europa. Se nel 1911 l’assalto era strabico rivolto a
Parigi, stavolta è indemoniato, a occhiaie rovesciate verso i propri
incubi interni. Nel 1911 la guerra giolittiana inserì Roma
nell’orchestrato europeo della Germania bismarkiana; nel 2011 l’assalto
alla Libia è forse l’unica cosa che sfugge all’orchestrato europeo della
Germania merkeliana. Francesi, inglesi, americani vogliono conquistare
Tripoli. Per farlo, passano con le scarpe chiodate sull’Italia, il cui
governo di destra, già umiliato dai suoi partner di partito e di governo
europei, non ha la forza di dire di no. La sua sinistra brinda invece
alla costruzione mediatica della primavera araba, un misunderstandig che
fa da incubatore alla nascita dell’ondata Isis, braccio armato dei
fratelli musulmani frustrati per l’annullamento delle vittorie
elettorali ottenute in Algeria, Tunisia, Irak.
È una guerra, che malgrado il calore filoamericano di Napolitano,
non produce un clima di gioiosa propaganda; neanche una canzone o un
libretto per il letterario nome (Tramonto dell’Odissea) dell’operazione
militare occidentale con cui la Libia venne prima bombardata,
rivoluzionata ed infine lasciata ad un destino di anarchia. D’altronde
dopo la disastrosa gestione del caso Somalia, la tradizione storica
della politica democratica americana sulle colonie italiane ha ribadito
il proseguimento, via Clinton e Obama, del primigenio razzismo
antitaliano del presidente Wilson. Non c’è gioia per la guerra alla
Libia del 2011. Anche i sassi capiscono che si tratta di una guerra non
amara, ma suicida per l’Italia. Il tempo di mezzo Nel 1911 molta
grancassa era stata fatta attorno alla Tripoli bel suol, cantata dalla
ugola di Gea della Garisenda sui versi del freakettone dell’epoca
Corvetto: Sai dove s’annida più florido il suol? più magico il sol? Un
secolo fa nessuno pensava che ci fosse veramente un tesor nello
scatolone di sabbia. Invece c’era, il tesoro, nero ed oleoso. Il
postcolonialismo, amaro per i francoinglesi, aveva permesso però, in 50
anni di (prima) repubblica, all’Italia dell’Eni di Mattei di rifarsi.
La Libia era economicamente riconquistata, una sorta di Dubai
nostrano, buono per rifornire Roma di energia e di danari freschi
prestati o investiti. Anche politicamente la Quarta sponda partecipava
dell’incomprensibile politica italiana, producendone una sua variante
anfetaminica e drogata. Se da una parte si diffondevano quaderni
piacentini, autonomie operaie ed altri servizi per il popolo, dall’altra
parte del Mediterraneo, la variante tragica del volto sofferente del
comico siciliano Franco Franchi stralunava quei testi ora nel socialismo
beduino del libretto verde, ora nella mezza ricostituzione dell’impero
arabo (durata un lustro negli anni ’70) nell’unione sirio-egizio-libica,
ora nella monarchia panafricana, ora con nei non allineati (Brics ante
litteram), ora nella rivendicazione dell’antica jihad pronunciata dai
deserti contro l’invasore piemontese, proprio dal gran Sanusso libico,
zio del monarca beduino deposto. In fondo la maschera afrosicilianadel
colonello Gheddafi proseguiva l’appeal mussoliniano panideologico: di
tutto un po’.
Un po’ spada dell’Islam, un po’ Balbo, un po’ Charlie’s Angels araba. E soprattutto un bel po’ di ricchezza garantita ai pochi milioni di compatrioti come solo la Sicilia anteromana aveva potuto vantare nei secoli della Magna Grecia. Come tutti i freak di lusso, erano i soldi che permettevano al colonello di fare l’arabe c’est shick. E l’antiamericano, altro cliché preso all’intellighenzia italiana. L’Italia, però, incastrata nelle maglie della guerra fredda, era giustificata. Neanche questo d’altronde aveva risparmiato brutte conseguenze sui suoi leader, poco rispettosi di Washington, da Mattei a Caxi ad Andreotti. Il colonello, poi, da scavezzacollo aveva esagerato. Ed in tempo di pace, si era beccato diversi missili francoamericani improvvisi, di cui qualcuno fece molto piangere i nipoti di Franchi e dei piednoirs italotunisini. I vecchi risentimenti reaganiani si sono intrecciati con la nuova febbre nemica dei dittatori laici che da vent’anni ha ammorbato i nuovi americani repubblicani e democratici. Per abbattere Kabul e Saddam crearono Bin Laden. Per abbattere Assad e Mubarak hanno creato l’Isis. Per abbattere una maschera di Gheddafi ne hanno create molte. Forse sotto sotto l’impero globalizzante di Internet amerebbe, per analogia, un ritorno imperiale anche tra Medioriente e Nordafrica. Anche il pensiero islamico dominante può apparire migliore delle tante opinioni della rissosità pulviscolare degli stati nazionali. Oggi non forse ma sicuramente l’Italia dovrebbe fare guerra alla Libia. O meglio ai pirati della Libia. In fondo solo al suo bagnasciuga e\o battigia. Altro che Tramonto dell’odissea. L’intervento paraNatoha creato diverse odissee, dalla bomba umana dell’emigrazione, che da tutta l’Africa, si concentra nel deserto libico, allo stato di guerra civile permanente dove l’alleato degli occidentali in loco è quello destinato a perdere.
Un po’ spada dell’Islam, un po’ Balbo, un po’ Charlie’s Angels araba. E soprattutto un bel po’ di ricchezza garantita ai pochi milioni di compatrioti come solo la Sicilia anteromana aveva potuto vantare nei secoli della Magna Grecia. Come tutti i freak di lusso, erano i soldi che permettevano al colonello di fare l’arabe c’est shick. E l’antiamericano, altro cliché preso all’intellighenzia italiana. L’Italia, però, incastrata nelle maglie della guerra fredda, era giustificata. Neanche questo d’altronde aveva risparmiato brutte conseguenze sui suoi leader, poco rispettosi di Washington, da Mattei a Caxi ad Andreotti. Il colonello, poi, da scavezzacollo aveva esagerato. Ed in tempo di pace, si era beccato diversi missili francoamericani improvvisi, di cui qualcuno fece molto piangere i nipoti di Franchi e dei piednoirs italotunisini. I vecchi risentimenti reaganiani si sono intrecciati con la nuova febbre nemica dei dittatori laici che da vent’anni ha ammorbato i nuovi americani repubblicani e democratici. Per abbattere Kabul e Saddam crearono Bin Laden. Per abbattere Assad e Mubarak hanno creato l’Isis. Per abbattere una maschera di Gheddafi ne hanno create molte. Forse sotto sotto l’impero globalizzante di Internet amerebbe, per analogia, un ritorno imperiale anche tra Medioriente e Nordafrica. Anche il pensiero islamico dominante può apparire migliore delle tante opinioni della rissosità pulviscolare degli stati nazionali. Oggi non forse ma sicuramente l’Italia dovrebbe fare guerra alla Libia. O meglio ai pirati della Libia. In fondo solo al suo bagnasciuga e\o battigia. Altro che Tramonto dell’odissea. L’intervento paraNatoha creato diverse odissee, dalla bomba umana dell’emigrazione, che da tutta l’Africa, si concentra nel deserto libico, allo stato di guerra civile permanente dove l’alleato degli occidentali in loco è quello destinato a perdere.
In pochi anni il Tramonto si è trasformato nella nuova alba della
proclamazione, più o meno credibile, della guerra santa musulmana di un
secolo fa. L’aveva lanciata la Sanussia, sorta di Isis dell’epoca, nel
bel mezzo del Sahara tra le località di Cufra e di Giarabub. Oggi nella
stessa terra desertica di nessuno, tra Atlantico ed Egitto, c’è il
grande mercato all’ingrosso di carne umana, la preparazione in container
raffazzonati degli esseri umani, da far emigrare alla deriva verso
l’Europa. Forse toccherà anche all’Italia dover spostare il mausoleo
militare dei propri caduti in terra d’africa, come hanno fatto i turchi
con i loro in terra siriana. Per evitare che vada perduto. Anche il
Gran Senusso ed eredi erano sunniti, panarabi, estremisti dell’impero
arabo; wannabiti come emiri, autorità religiosa, negli anni ’20 e poi
come autorità politica in quanto casa regnante. Oltre il Mediterraneo
non ci minacciano terroristi ma gli eredi del re Idris al-Mahdi
al-Senussi, nipote dello Sceriffo fondatore. Contro di loro l’Italia ha
già rinunciato a ogni velleità non offensiva, ma neanche difensiva. Non
può tagliare il mar che ci lega con l’Africa d’or, perché quel filo è
ben difeso dai capisaldi della globalizzazione che trova una sua colonna
nei grandi movimenti di lavoratori da un continente all’altro. Una
nuova guerra ai pirati come quella di Pompeo o degli americani del 1830
al Bey oggi non è ammissibile perché chiuderebbe l’unica valvola di
sfogo del continente nero, gigante perduto. Non sono ammissibili ipotesi
postcolonialiste, neanche nella variante newcon. Nella partita a
scacchi tra i Nord e gli Est del mondo, non è chiaro quale sia il
destino dei popoli arabi. E’ chiaro solo che la discarica almeno per i
primi tempi è stata trovata in Italia, che tanto non sa dire né di no,
né di sì, né di nì. Solo Israele avrebbe l’interesse, l’audacia e la
forza per l’intervento di cui avrebbe bisogno l’Italia. Anche qui, il
grande partito sostenitore della memoria ebraica, è lo stesso che si
mobilita contro gli israeliti in vita. Un’altra strada preclusa. Per cui
ci terremo i neoSanussi delle redivive Cufra e Giarabub, dove dormono i
caduti che non volevano pane ma piombo per il loro moschetto. Tutti i
danni indiretti che la guerra italiana del 1911 produsse ci tornano
indietro nella guerra che il mondo ha deciso di fare alla Libia, cioè
all’Italia del 2011. A Giarabub, comincia sempre solo e soltanto la fine
della nostra terra, non di altre.
di Giuseppe Mele - 8 marzo 2015
fonte: http://www.qelsi.it
Nessun commento:
Posta un commento