La storia di Antonio Morrone, ex carabiniere distaccato alla Consulta
e deceduto di tumore al fegato e ai polmoni senza neanche aver ottenuto
la causa della morte in servizio, nonostante le battaglie quasi epiche
della propria famiglia (che costarono a suo figlio anni di
discriminazione sul posto del lavoro, che era sempre la Corte
costituzionale) adesso è diventata un libro. Scritto dalla nuora, Rosa
Morrone. Con questo titolo: “Sotto la linea di tiro”. Ovvero: “Quando
una istituzione prende di mira il cittadino”.
Un libro che farà discutere. Anche perché la gente mai penserebbe che
si può morire di cancro a 61 anni per aver lavorato dal 1976 al 1989
nella stamperia della Corte costituzionale tra inchiostri, solventi,
vernici e materiali che oggi non si usano più. E il libro, oltre a
narrare l’odissea ospedaliera e giudiziaria del de cuius e dei suoi familiari, ripropone la vexata quaestio
dell’autodichia. Alias l’autonomia interna di alcuni organi
costituzionali quali la Camera dei deputati, il Senato e la stessa Corte
costituzionale, che negli anni si è trasformata in una sorta di
privilegio dietro cui può ripararsi qualunque arbitrio amministrativo o
peggio ancora. Dai palazzi di costruttori amici della sinistra affittati
alla Camera a peso d’oro, tanto che sarebbe stato meglio comprarli
direttamente, fino proprio alla storia di questo ex carabiniere deceduto
perché nella stamperia della Consulta per anni si sono stampate le
sentenze con inchiostri e solventi a base di benzolo, metilcloroformio,
ciclopropano e fenolo. Il famigerato “Centro di fotoriproduzione” di cui
tutti conoscevano la potenziale nocività ma nessuno osava parlarne
fuori dalle sacre mura della Consulta. I cui segreti non dovevano
varcarle. Pena ammonimenti e discriminazioni sul posto del lavoro.
Come, dopo la morte di suo padre, ne avrebbe subite a bizzeffe il
figlio Walter Morrone. Un impianto di areazione si degnarono di metterlo
solo nel 1995, quando Antonio Morrone era morto da ormai sei anni. Ai
dipendenti, tra cui due testi dell’accusa, e colleghi del Morrone dentro
quei locali, contro l’ex segretario generale della Consulta, Cesare
Bronzini (colleghi che in seguito morirono anche loro per cancro e
leucemia), veniva data ogni sera una bottiglia di latte per
disintossicarsi dai vapori respirati durante l’orario di lavoro. Ci fu
ovviamente anche un’inchiesta penale che i Pm romani condussero con
molta prudenza, benché il gip Otello Lupacchini per ben due volte
respinse l’istanza di archiviazione. Bronzini, che da segretario
generale aveva anche la responsabilità logistica della sicurezza di
tutti i locali della Consulta, compresa la stamperia, se la cavò così,
con un proscioglimento disposto dal gup Roberto Mancinetti nel febbraio
2002. Motivazione assolutoria che assicurava che “nelle organizzazioni
complesse non è sempre agevole individuare i destinatari degli obblighi
antinfortunistici, laddove il reato addebitato avrebbe natura di reato
proprio”.
Gli imputati secondo il gup, l’altro era il direttore generale pro
tempore del provveditorato, Alberto Giraldi, “non ebbero la percezione
del rischio cui erano esposti gli operatori del Centro stampa”.
Mancava la consapevolezza, quindi, anche se il fatto che agli
impiegati di quel settore e solo a loro venisse data la famosa bottiglia
di latte serale sembrava smentire questa motivazione. Morale? La storia
finisce in cavalleria, gli eredi di Antonio Morrone non ottengono il
riconoscimento della morte come causa di servizio e la pensione
relativa, e il figlio Walter per di più subisce per anni le ritorsioni
interne alla Consulta per aver osato alzare la testa. Il tutto all’ombra
della famigerata autodichia. Adesso però esce questo libro edito da
“Titani editori” che sicuramente non mancherà di rinnovare le polemiche
che all’epoca vennero tenute molto sotto traccia. Va detto infatti che
per quasi tre decenni i presidenti della Corte costituzionale che si
sono succeduti nell’incarico hanno cercato di evitare che questa storia
avesse troppo risalto sui giornali. E infatti a occuparsene negli anni
Novanta furono solo “La Padania” e “L’Opinione” e, molto più
recentemente, “Il Fatto quotidiano”. Ora, forse, dopo l’uscita del libro
della signora Rosa Morrone qualche altro giornalista prenderà il
coraggio a due mani.
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