(aggiornato ore 23.58)
Nonostante i tanti misteri e i dubbi circa l’attentato alla
metropolitana di San Pietroburgo è difficile immaginare una pista
diversa da quella islamica, cioè un attacco jihadista effettuato da
caucasici oppure da terroristi di una delle tante nazionalità che hanno
offerto volontari e “foreign fighters” allo Stato Islamico e ad altri
movimenti islamisti. Milizie a cui hanno aderito in questi anni 8 mila
cittadini dell’ex URSS tra i quali 4/5mila russi secondo le stime dei
servizi segreti di Mosca.
Pare improbabile al momento ipotizzare una relazione tra l’attentato e
i disordini di piazza che negli ultimi giorni hanno visto protagonisti
gli oppositori interni di Vladimir Putin, sia perchè tra di essi non vi
sono mai stati terroristi sia perché è impensabile che Putin (come
lasciano intendere alcuni osservatori in Occidente) abbia interesse a
provocare atti di terrorismo per sviare l’attenzione dall’opposizione
interna.
Le manifestazioni dei giorni scorsi hanno avuto un’eco più vasta
nell’Occidente russofobo che nella Russia stessa e in ogni caso la
popolarità di Putin continua ad essere elevata tra i suoi concittadini
da non creare allo “zar” problemi di consenso.
Sul piano politico l’attentato di ieri da un lato rafforza il
Cremlino perché consente a Putin di appellarsi al solido patriottismo
del popolo russo per far fronte alla minaccia terroristica contro la
sicurezza nazionale ma dall’altro lo indebolisce dimostrando
l’incapacità del governo di proteggere la popolazione.
Al momento va però rilevato che le notizie circa l’attentato sono
confuse e a tratti contraddittorie mentre molti aspetti restano da
chiarire.
La bomba posta nel vagone della metropolitana (dalle prime
indiscrezioni composta da 200 grammi di tritolo, avvolti da cuscinetti a
sfera e chiodi nascosti in una valigetta abbandonata sulla carrozza)
aveva il compito di mietere il maggior numero di morti e feriti.
Ben più potente sarebbe stata la seconda bomba, dissimulata come un
estintore, disinnescata in tempo dagli artificieri in una seconda
stazione e contenente, secondo fonti della BBC, un chilogrammo di Tnt
con chiodi e biglie di ferro. Fonti russe invece hanno resi noto che il
secondo ordigni era simile a quello esploso e conteneva “solo” due o tre
etti di esplosivo.
L’attentato, che ha causato almeno 14 morti e 49 feriti, è stato
effettuato proprio nel giorno in cui Putin si trovava nella sua città
natale per un media forum e un incontro, nel pomeriggio, con il
presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko.
L’atto terroristico e il giorno in cui è stato effettuato non sono
quindi casuali neppure sul piano mediatico poiché, come ha sottolineato
il presidente della Commissione Difesa del Senato, Viktor Ozerov, “in
città c’erano il presidente e tanti giornalisti”.
Le autorità russe hanno confermato il nome del kamikaze che si
sarebbe fatto esplodere: è Akbarjon Djalilov, 22enne kirghiso nato nella
regione di Och, i cui resti sono stati trovati nel terzo vagone del
treno.
Sulla borsa che conteneva la seconda bomba, non esplosa, trovata
nell stazione della metropolitana di Ploshchad Vosstania, sono state
trovate tracce del Dna del kamikaze. A quanto pare l’ordigno era
attivabile con l’impulso di un telefono cellulare.
L’ordigno “doveva essere attivato da un telefono cellulare e non da
un meccanismo a orologeria” ha spiegato una fonte vicina alle indagini
alla Tass. Circostanza che porta gli inquirenti a “non escludere” che
pure la bomba esplosa sul vagone della metro possa essere stata
innescata “a distanza” dai complici dell’attentatore, che forse
“controllavano i suoi movimenti”.
Dalla serata di lunedì l’antiterrorismo russo aveva concentrato le
indagini su un kamikaze (circostanza inizialmente esclusa), come aveva
riferito l’agenzia Interfax citando una fonte dei servizi di sicurezza.
Inizialmente i sospetti erano concentrati sul kazako Maksim Arishev che
probabilmente è solo una delle vittime dell’attentato tra le quali vi
siono russi, bielorussi, kazaki e uzbeki.
Fonti di polizia citate dalla TASS dicono invece che il terrorista
avrebbe avuto legami con combattenti siriani mentre il quotidiano
Kommersant cita “una fonte attendibile” rivelando che i servizi segreti
di Mosca sapevano della preparazione di attentati terroristici a San
Pietroburgo perché avvertiti da un russo che collaborava con l’Isis e
detenuto dopo il suo ritorno dalla Siria.
Non tutti i dettagli appaiono chiari. L’attentatore suicida avrebbe
celato l’ordigno in uno zaino ma anche questa versione non spiega chi e
come avrebbe dovuto far esplodere il secondo ordigno rinvenuto e
disinnescato dagli artificieri.
A quanto sembra, ma non è certo, i terroristi che hanno colpito a San
Pietroburgo disponevano di esplosivo di tipo industriale o militare,
peraltro non difficile da reperire nel Caucaso insanguinato da anni
dall’insurrezione islamista, non il TATP “fatto in casa” utilizzato
negli attentati in Belgio e Francia.
La definizione “ordigno artigianale” utilizzata dalle autorità russe
non specifica infatti se si tratti di un ordigno costruito
artigianalmente con esplosivo convenzionale (come le IED utilizzate dai
talebani afghani, dallo Stato Islamico e da altre milizie) o se si
tratti di esplosivo “prodotto artigianalmente”.
L’esplosione si è verificata tra due stazioni della metropolitana,
cioè proprio nel punto più difficile per far arrivare tempestivamente i
soccorsi, come avvenne per l’attentato del 22 marzo 2016 alla
metropolitana di Bruxelles.
In assenza di rivendicazioni la matrice cecena o caucasica è quella
più immediata per la lunga serie di attacchi e attentati verificatisi in
Russia negli ultimi 20 anni che hanno visto protagonisti miliziani e
terroristi di quelle regioni, ma attualmente sono davvero molti i gruppi
jihadisti ad avere conti in sospeso con Mosca.
A partire dal settembre 2015 l’intervento russo in Siria non solo ha
rovesciato le sorti del conflitto consentendo al regime di Bashar Assad
di sopravvivere e avviarsi a vincere la guerra civile ma ha sbaragliato
le milizie salafite dei Fratelli Musulmani, di al-Qaeda e dello Stato
Islamico.
Frange diverse tra loro ma accomunate dalla fede jihadista e dalla
volontà di vendicarsi dei russi che hanno sottratto loro l’opportunità
di porre la Siria sotto il tallone della sharia. Un sentimento di
vendetta diffuso anche tra gli sponsor delle milizie islamiche siriane
tra i quali il Qatar e l’Arabia Saudita, quest’ultima in particolare in
prima fila da anni nel finanziare i ribelli wahabiti ceceni.
Del resto Mosca ha già pagato un alto prezzo di sangue al terrorismo
islamico per l’intervento al fianco di Damasco. Nell’ottobre 2015 un
charter della Metrojet diretto proprio a San Pietroburgo esplose sul
Sinai a causa di una bomba posizionata a bordo dopo il decollo
dall’aeroporto di Sharm el-Sheik. Morirono in 224 e l’Isis rivendicò
l’attentato per punire l’intervento russo in Siria.
Foto Web
fonte: http://www.analisidifesa.it
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