L’ex direttore del servizio segreto interno: i politici parlano di guerra, ma non vogliono 'sporcarsi' con l'intelligence
IN QUESTO momento lo Stato italiano è impegnato su almeno due
fronti di guerra relativamente recenti: la lotta contro il
fondamentalismo islamico e la difesa degli interessi economici
nazionali, minacciati in questo caso non da nuovi nemici ma da vecchi
alleati. Due guerre non convenzionali, combattute con ogni mezzo dentro e
fuori i confini nazionali. Che l’Italia ne esca vittoriosa o sconfitta
dipende essenzialmente dalla qualità del servizio svolto dai nostri
apparati di intelligence e dalla capacità della politica di indirizzarne
e utilizzarne il lavoro. Ebbene, secondo il generale dei carabinieri
Mario Mori, fondatore dei Ros e già direttore del servizio segreto
interno, solo un miracolo ci potrà salvare. Lo testimonia anche la sua
storia personale, la storia di un uomo messo sotto processo per aver
servito lo Stato.
Generale Mori, andiamo al punto: in Italia ci sono le condizioni per fare efficacemente intelligence?
"Sono perplesso. Vede, i servizi segreti sono come un’auto sportiva
di lusso: non è obbligatorio averla, ma se decidi di comprarla poi devi
curarla in ogni dettaglio, devi proteggerla dalle intemperie, devi
affidarla alle cure di un meccanico competente e soprattutto devi
saperla guidare. In caso contrario, meglio farne a meno".
I politici italiani non sanno guidare l’auto dei servizi?
"Salvo rare eccezioni del passato, Aldo Moro e Francesco Cossiga, ad
esempio, i politici italiani non sanno né vogliono occuparsi dei servizi
segreti. Negli Stati Uniti, in Inghilterra o in Francia c’è un rapporto
strettissimo tra chi guida il governo e chi guida i servizi, Obama
incontra il capo della Cia tutte le settimane...".
In Italia, invece?
"In Italia non accade".
Come lo spiega?
"Con la mancanza di senso dello Stato e con la strutturale incapacità
strategica della politica. Siamo specialisti nel chiudere le stalle
quando i buoi sono già scappati. Prenda ad esempio le chiacchiere di
questi giorni sulla Libia...".
Cosa c’è che non va nella posizione del governo italiano?
"Il governo italiano non ha una posizione strategica. Non l’aveva
quando la Francia coordinò l’azione militare contro Gheddafi per mettere
le mani sul petrolio libico e non l’ha oggi. Nessuno sembra
preoccuparsi di quel che potrà o dovrà accadere dopo".
Dopo cosa?
"Dopo l’azione militare. I dilettanti sono sempre pericolosi, ignorano la realtà e affrontano i problemi in modo ideologico".
Ad esempio?
"La Libia non è uno Stato, è un territorio dove convivono a forza
tribù diverse che in comune hanno solo un elemento: del nostro concetto
di democrazia non sanno che farsene. Pensare che fosse sufficiente
cacciare Gheddafi perché la democrazia si affermasse è stato a dir poco
ingenuo".
Ora l’Italia ipotizza un intervento armato sotto l’egida dell’Onu.
"Mah, l’Onu... Stiamo cercando di mettere una pezza a colori su una
situazione deteriorata, ma tutto questo parlare di guerra senza dir
nulla su che tipo di Libia si ha in mente mi sembra, come dire, miope.
La guerra non è un fine, ma un mezzo: qual è l’obiettivo finale
dell’Italia in Libia? Personalmente, non l’ho capito".
Sembra che i politici diffidino dei servizi...
"I politici diffidano dello Stato. Quando ero al Sisde mi confrontavo
con la signora Manninger, capo del servizio britannico MI5. Era
bravissima anche perché nata e cresciuta all’interno del servizio. Vede,
questo non è un mestiere qualsiasi, per farlo bene devi acquisire una
forma mentis, un istinto. Occorre una vita. E infatti nei sistemi che
funzionano c’è continuità nei vertici dei servizi segreti".
Da noi, notoriamente, no.
"In Italia col cambiare dei governi cambiano anche i vertici dei
servizi e a capo mettiamo un prefetto, un questore o un generale dei
carabinieri che quasi sempre vengono da altre esperienze. Chiaro che
così non funziona".
A non far funzionare il sistema è anche l’azione giudiziaria...
"Vede, la sicurezza nazionale è un bene superiore che richiede la
possibilità di agire oltre la legge. Se questa possibilità esiste, i
servizi hanno un senso".
Da noi esiste?
"No. La mia tecnica operativa era quella del generale Dalla Chiesa,
perché per permeare la struttura della criminalità organizzata non si
può usare l’approccio che si usacon i ladri di polli. Il ladro di polli
lo arresti, e l’attività criminale cessa. Ma arrestare un mafioso non
vuole necessariamente dire fermare l’attività della mafia".
Dunque?
"Dunque per battere la mafia devi avere qualcuno che, da dentro, crei
un collegamento con lo Stato e ti dia le informazioni di cui hai
bisogno".
La procura di Palermo non l’ha capito?
"Ho trattato con le procure di tutt’Italia senza mai avere alcun
problema. Si vede che a Palermo non avevano capito la differenza tra
contrasto ai ladri di polli e contrasto alla mafia".
Lei ha detto che quand’era capo dei Ros fece «un baratto» con Cosa Nostra.
"Feci quello che fa normalmente un ufficiale di pubblica sicurezza
quando va a parlare con la controparte criminale: promisi qualcosa in
cambio di informazioni".
Cosa promise?
"Promisi a Vito Ciancimino che se mi avesse consegnato Riina e
Provenzano li avremmo trattati bene e avremmo protetto le loro
famiglie".
E lui?
"Si inferocì e mi mise alla porta".
Solo in Italia la magistratura pretende che i servizi segreti rispettino la legge.
"È vero, e questo è un problema che tocca anche la competitività
economica del Paese. Per tutelare gli interessi delle industrie
nazionali, i servizi degli Stati nostri concorrenti corrompono e usano
dossier. Se lo facciamo noi finiamo sotto processo".
Qual è l’operazione di cui va più fiero?
"Sono tante, le racconterò la più divertente. Quando la Cina decise
di avviare relazioni diplomatiche con l’Italia, scoprimmo in quale
immobile romano avrebbero aperto la loro ambasciata e prima che ne
prendessero possesso lo riempimmo di microspie. Ogni mattina ascoltavamo
un certo funzionario lamentarsi della difficoltà nel frequentare donne
italiane, così reclutai una professionista a Via Veneto, splendida
ragazza, in effetti, gliela lanciai tra le braccia e con le prove del
tradimento coniugale lo spinsi a tradire il suo Paese. Se lo facessi
oggi mi arresterebbero per sfruttamento della prostituzione".
di ANDREA CANGINI- 18 febbraio 2015
fonte: http://www.quotidiano.net
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