Il
rapporto tra Turchia e Iran nell’ultimo anno ha segnato il passo
dell’evoluzione magmatica del quadro regionale. Tutti i tradizionali
schieramenti del Medio Oriente sono in sommovimento. Il Califfato
dell’IS ha avuto l’effetto di rivedere antiche strategie e alleanze. E’
indubbio che la maggiore difficoltà risieda nel delineare una
prospettiva stabile che abbracci il medio periodo. Le variabili da
considerare sono molteplici sia dal punto di vista economico sia da
quello politico. Il reciproco interesse dei due Paesi a porsi come guida
della regione risente della necessità di normalizzazione della
situazione nell’area. Vari dossier imporrebbero ragionate scelte dei due
governi più cooperative mentre interessi più particolari sembrerebbero
allontanare in stringenti divergenze le due capitali.
Un tavolo a tre lati per la bilaterale –
Procedendo con un ordine cronologico occorre ricordare che lo scorso
gennaio Turchia e Iran hanno rafforzato le proprie relazioni attraverso
la firma di tre accordi di cooperazione bilaterale. Il Premier turco
Erdoğan, dopo una visita diplomatica a Teheran, sottoscriveva tali
accordi suggellando quello che a detta di molti analisti è stato
definito come un turning point per tutto il Medio Oriente. La
prospettiva di un possibile riavvicinamento politico tra i due Paesi
prendeva slancio da interessi economici mutuamente sostenibili. Un
tavolo di discussione a tre dimensioni. Da un lato il commercio,
dall’altro le questioni energetiche e nell’ultimo quelle più
propriamente politiche. Dal punto di vista commerciale l’accordo non ha
incontrato particolari intoppi. In pratica si è trovata una corsia
preferenziale per la riduzione delle tariffe doganali negli scambi di
merci tra i due Paesi (risorse energetiche e transizioni bancarie).
Spinose rimanevano però le posizioni della bilaterale sulla questione
siriana. In tal senso gli accordi di gennaio risultavano forieri di
buoni presagi per ciò che concerneva la rimodulazione degli equilibri
geopolitici dell’area mediorientale tra Ankara e Teheran. La prima
spinta verso il Mediterraneo, la seconda nel Medio Oriente continentale.
È bene rimarcare un altro passo di riavvicinamento tra i due governi.
Lo
scorso giugno, infatti, il Presidente iraniano Hassan Rouhani è stato
protagonista di una visita in Turchia. Una delegazione di alto livello
composta da oltre cento delegati è atterrata ad Ankara dopo 18 anni
dall’ultima visita di un rappresentante di vertice iraniano in suolo
turco. All’ordine del giorno ancora gli scambi commerciali, le politiche
energetiche e la persistente crisi siriana. Una bilaterale che in
un’ottica prettamente realista cerca punti d’incontro per garantire una
minima fiducia reciproca per affrontare questioni più spinose e
bisognose di cooperazione. Nella seconda metà di settembre, infatti, il
nuovo Ministro dell’Economia turco Nihat Zeybekci, in un’intervista
rilasciata alla radio iraniana IRNA ha sottolineato che l’espansione
delle relazioni economiche con Teheran rappresenta a tutt’oggi una
priorità per il governo di Ankara, visto che un accordo di cooperazione
tra i due Paesi ne aumenterebbe il comune interscambio. L’obiettivo è
raggiungere i 30 miliardi dollari. Le aziende maggiormente coinvolte
ricomprendono quelle turche impiegate nel settore edilizio. Pietra
angolare dell’incontro è considerata la decisione turca di eliminare le
sanzioni economiche gravanti sulla Repubblica Islamica. Un passo
importante, metro di una buona volontà negoziale dettata da interessi
contingenti. Le sanzioni imposte dall’evoluzione peripatetica della
questione nucleare iraniana avevano giocoforza impedito uno sviluppo
lineare dell’interscambio commerciale tra le due economie che per
vicinanza e forza propulsiva sembrano risultare complementari in molti
settori.
Dal punto di vista
energetico, molto si è discusso del prezzo del greggio d’importazione
iraniana. La questione è delicata. Tornando alla metafora del triangolo
pare corretto affermare che sia stato il lato più ruvido e che
maggiormente ha impegnato Erdoğan e Rouhani in una serrata discussione.
In buona sostanza Ankara dal 2012 lamentava una differenza di
trattamento nel prezzo delle importazioni provenienti dall’Iran rispetto
a quelle da Azerbaijan e Russia. In particolare il maggior nodo
risiedeva nell’allontanare la possibilità di procedere con un arbitrato
internazionale avanzato da Ankara alla Corte Internazionale di Arbitrato
e che avrebbe aperto una controversia internazionale di difficile
ricomposizione. La questione non è stata risolta ma entrambi gli
interlocutori sono giunti alla conclusione che la via di negoziati
diretti sia preferibile a quella che coinvolge un terzo giudicante.
La Turchia importa attualmente già 10 miliardi di metri cubi all’anno di gas naturale dall’Iran ed in caso di esito positivo della questione le forniture potrebbero raddoppiare. Non è mistero che Rouhani miri a sottrarre il Paese dal giogo delle sanzioni al fine di migliorare la bilancia commerciale con un incremento delle esportazioni energetiche. Per la Turchia, invece, la partnership con Teheran sarebbe un tassello ulteriore del progetto di diversificare l’approvvigionamento interno e continuare nel perseguimento dell’obiettivo di lungo periodo di trasformare il Paese in un hub per le risorse energetiche che dal Medio Oriente confluiscono verso l’Occidente.
La Turchia importa attualmente già 10 miliardi di metri cubi all’anno di gas naturale dall’Iran ed in caso di esito positivo della questione le forniture potrebbero raddoppiare. Non è mistero che Rouhani miri a sottrarre il Paese dal giogo delle sanzioni al fine di migliorare la bilancia commerciale con un incremento delle esportazioni energetiche. Per la Turchia, invece, la partnership con Teheran sarebbe un tassello ulteriore del progetto di diversificare l’approvvigionamento interno e continuare nel perseguimento dell’obiettivo di lungo periodo di trasformare il Paese in un hub per le risorse energetiche che dal Medio Oriente confluiscono verso l’Occidente.
L’Iran
invece potrebbe trarre vantaggio dalla questione ucraina per
sostituirsi o affiancare la Russia come fornitore di gas al mercato
europeo. Un’impressione rafforzata dalle dichiarazioni del Ministro del
Petrolio iraniano, Ali Majedi, che ha annunciato che la Repubblica
Islamica dell’Iran sarebbe pronta ad assicurare le forniture di gas ai
Paesi dell’UE. L’11 agosto Majedi dichiara: «nel momento in cui
l’Europa cerca di diversificare le forniture di idrocarburi, l’Iran, che
possiede risorse di gas tra le più ricche del mondo, potrebbe fornire
del gas all’Ue attraverso il gasdotto Nabucco». Il Nabucco
diventerebbe fondamentale e la normalizzazione dei rapporti con la
Turchia prioritario. Lo stesso Majedi infatti aggiunge: «esistono
diversi itinerari, quali quelli che passano per la Turchia, la Siria, il
Caucaso ed il Mar Nero. L’itinerario turco è di gran lunga il migliore».
Le potenzialità quindi di un Iran di nuovo protagonista al tavolo della finanza internazionale sono potenzialmente enormi. Muoversi per primi nel Paese condividendo con questo un mutuo vantaggio è per la Turchia segno di lungimiranza e di una profondità strategica che darebbe al Paese un vantaggio comparato rispetto a eventuali futuri competitors.
Le potenzialità quindi di un Iran di nuovo protagonista al tavolo della finanza internazionale sono potenzialmente enormi. Muoversi per primi nel Paese condividendo con questo un mutuo vantaggio è per la Turchia segno di lungimiranza e di una profondità strategica che darebbe al Paese un vantaggio comparato rispetto a eventuali futuri competitors.
In tal senso la nuova West-detente
iraniana si è particolarmente giovata del riconoscimento da parte della
Turchia del diritto allo sviluppo del proprio controverso programma
nucleare a fini pacifici. Il 24 novembre 2013 è la data del
raggiungimento dell’accordo ad interim di Ginevra, ufficialmente
intitolato piano d’azione comune e primo accordo formale tra Stati Uniti
ed Iran in 34 anni. L’attuazione dell’accordo tra Iran e i Paesi P5+1 a
Ginevra, inizia formalmente il 20 gennaio 2014 con una prima deadline
segnata al 20 luglio 2014. L’accordo interinale di Ginevra è in vigore
da un anno, alla data della firma, mentre un nuovo accordo dovrebbe
vedere la luce prima della fine di Novembre. Al momento però persistono
grandi divergenze. Giorni intensi anche su questo versante che rischiano
di avere un effetto a catena su tutta l’area.
I nodi da sciogliere – La
questione siriana, il problema kurdo e lo Stato Islamico (IS). In
relazione alla Siria prima e all’IS poi, Turchia e Iran si ritrovano
invece a sostenere ruoli diversi. Erdoğan, pur avendo abbassato i toni
negli ultimi mesi, alla luce dell’evidente fallimento della propria
politica siriana, era e rimane uno dei più convinti sostenitori
dell’opposizione che si batte contro Bashar al-Assad. L’Iran, al
contrario, è il principale alleato del regime siriano. Le divergenze
riguardano anche l’Iraq. L’AKP [1], come l’Iran, desidera che l’Iraq
mantenga la propria integrità territoriale, anche perché l’eventuale
indipendenza del Kurdistan iracheno potrebbe avere conseguenze
destabilizzanti sulla stessa Turchia, vista la considerevole e minoranza
curda che vive entro i propri confini e il fatto che il processo di
pace in corso da ormai due anni sembra ora avviarsi su un binario morto.
In tutto questo quadro già di per se allarmante rientra l’ascesa
dell’IS. Lo Stato Islamico può alterare le dinamiche regionali e
spingere forze rivali a collaborare. La violenza e le dinamiche settarie
sia in Siria che in Iraq, insieme alla morfologia del territorio e ai
facili collegamenti transfrontalieri, hanno fatto sì che l’IS divenisse
una minaccia crescente per la sicurezza regionale. Probabilmente, Bashar
al-Assad ha contribuito a rafforzarne il fenomeno. In primo luogo, la
repressione brutale contro i civili siriani ha permesso all’IS di
giocare su un impianto propagandistico ben oleato ed in linea con i
moderni tempi della comunicazione per attirare combattenti dall’estero e
il sostegno finanziario degli esuli. In secondo luogo, fino a poco
tempo la strategia militare di al-Assad era orientata a confrontarsi
contro l’opposizione sunnita ma senza entrare in scontro diretto contro
IS. Corollario di tale scelta strategica è il fatto che proprio la
minaccia del Califfato avrebbe costretto gli oppositori del regime a
rivalutare le proprie posizioni. Allo stesso modo, le politiche settarie
dell’ex Premier iracheno al-Maliki hanno dato ossigeno a questo gruppo
e, indirettamente affidato ai curdi un ruolo regionale indispensabile.
Le
moderne relazioni internazionali sono segnate da un intreccio tra vari
dossier che non possono essere sottovalutati né trattati con sfasamenti
temporali.
La questione curda – Altri
problemi per il neo designato Premier Davutoğlu arrivano dai curdi. I
ribelli curdi hanno espresso dubbi sull’opportunità di continuare a
rispettare la tregua con le autorità turche, accusando il governo di
Ankara di aver avviato una guerra contro la minoranza, con le sue scelte
di fronte all’avanzata dell’IS in Siria. Il consiglio esecutivo del PKK
in una nota ha posto chiaro il proprio intendimento «di intensificare la lotta in ogni campo e con ogni mezzo per rispondere alla guerra avviata dall’AKP contro il nostro popolo».
La nota accusa il governo dell’AKP di approfittare degli sforzi di pace
del leader del PKK Abdullah Öcalan, affermando che la tregua in vigore
da marzo 2013 è ora “priva di senso”. A ciò si aggiunge che sono oltre 1
milione i rifugiati confluiti dalla Siria sul territorio turco. Il
massiccio esodo delle ultime settimane di settembre ha spinto l’UNHCR ad
organizzare un ponte aereo come parte di una vasta operazione per
portare aiuto in Turchia per l’ondata di profughi in fuga dal nord della
Siria. È bene ricordare che la Turchia si è dimostrata un membro
affidabile per la comunità internazionale nella gestione dell’afflusso
dei profughi. Il grande peso umanitario sulle sue frontiere ha però
imposto al governo di Ankara di investire nel 2013 più di un miliardo di
dollari per spese umanitarie, sottraendo risorse agli investimenti e
rallentandone dunque le ambizioni di crescita su scala regionale.
Secondo un punto di vista incline alla realpolitik è bene
ricordare che Erdoğan teme che il fiume di rifugiati verso il Kurdistan
turco faccia da cerniera tra curdi siriani e turchi, proiettando il
pericolo di una futura scissione indipendentista nel territorio.
Il
governo turco ha in un primo momento rifiutato agli USA l’uso delle
basi per i raid anti-IS, dichiarando di essere pronto ad accogliere
altre migliaia di profughi; contestualmente però il 22 settembre
autorevoli media internazionali hanno dato informazioni riguardanti la
chiusura della frontiera di sei degli otto punti aperti vicino a Kobane
in seguito a scontri esplosi tra le forze turche e dimostranti curdi e
per bloccare il flusso di combattenti verso la Siria, segnale di un
atteggiamento attendista o quantomeno prudente. Risalta il timore turco
per una sorta di snowball effect della questione siriana. In
poche parole, i combattimenti in corso si svolgono troppo vicini al
confine turco. La Turchia teme che senza una strategia a lungo termine
le forza alleate siano incapaci di gestire sia la fase operativa che i
possibili futuri scenari. Nondimeno, eventuali prevedibili vuoti di
potere, potrebbero riflettersi sugli equilibri confessionali, generando
fasi cicliche di radicalizzazione e instabilità che la Turchia teme di
dover fronteggiare in solitudine. Più in particolare il timore è che il
PKK possa uscire più forte e sicuro dalla lotta contro l’IS. Tra le sue
file, secondo autorevoli stime, combattono centinaia di jihadisti turchi
e parte del greggio siriano transita in Turchia per essere venduto,
fornendo una notevole forza di finanziamento al Califfato.
Nei giorni scorsi Öcalan
ha fatto sentire la sua voce con un comunicato in cui esprime
impazienza nel conoscere la posizione dell’AKP nel processo di pace e
non tralasciando invettive contro il governo di Ankara, reo a suo dire,
di essere più disposto a negoziare con l’IS che con i curdi. Il
riferimento ai 49 ostaggi turchi rilasciati dall’IS attraverso
l’attivazione di canali diplomatici appare evidente. La chiusura del
processo di pace con i curdi – acclamato da vari leader militari del PKK
– vanificherebbe non solo un percorso ormai biennale che sembrava
avviato, secondo molti analisti, a buoni risultati ma creerebbe un
pericoloso vulnus nell’azione esterna del neo Presidente Erdoğan.
La strategia turca contro l’IS – La
strategia turca è nondimeno rischiosa. Nel suo discorso presso il
Council on Foreign Relations di New York il Presidente Recep Tayyip
Erdoğan ha attirato a sé l’attenzione con queste parole: «Quando diciamo la parola “operazione”, la gente pensa alle (…)
bombe; ma un’operazione non è solo questo. Le operazioni sono politiche
e diplomatiche. E coinvolgono discussioni, i tanti contatti». Le
osservazioni di Erdoğan rinforzano l’ipotesi di uno scambio di ostaggi
con l’IS. Da notare come il termine “diplomazia” sia normalmente
associato ad un negoziato per la liberazione di ostaggi in mano ad uno non-state actor
dato che l’IS è formalmente definito un gruppo terroristico. Con
“diplomazia” si presupporrebbe un riconoscimento seppur tacito dell’IS a
livello politico che minerebbe la linea ferrea tenuta dall’Occidente
sulla questione e alla quale l’Iran pare essersi perfettamente
allineato. Dal punto di vista turco, dunque, l’unico modo per combattere
l’IS è quello di sostenere i jihadisti sunniti moderati recuperando il
corpo politico sunnita, ora isolato, nel processo politico presente e/o
futuro in Siria e in Iraq.
La Turchia
avverte inoltre che qualsiasi intervento militare contro il blocco
sunnita da forze esterne di curdi, milizie sciite o occidentali non può
che radicalizzare i sunniti spingendoli nelle mani di IS. La linea di
demarcazione tra interessi turchi e occidentali passa sempre per
Damasco. Dall’inizio della crisi in Siria, la Turchia è stata
irremovibile nel suo intento di regime change, premendo per la
creazione di una zona cuscinetto in Siria, sotto forma di una zona
cuscinetto che aiutasse a gestire l’afflusso di rifugiati. Entrambe
queste richieste sono obiettivi strategici per Ankara, mentre per
l’attuale coalizione guidata dagli Stati Uniti, ipotesi irrealizzabili.
Quanto detto ben misura da un lato il peso delle difficoltà di
recuperare Ankara ad uno sguardo d’insieme con la coalizione
dell’Occidente e dall’altro un atteggiamento quanto meno ambiguo tenuto
dal governo turco.
L’Iran e l’IS – D’altro canto, l’Iran si è de facto
dimostrato disponibile a collaborare con l’Occidente contro l’IS. Molti
media sono stati solerti a chiosare gli ultimi sviluppi dei rapporti
diplomatici con la definizione di un Iran nuovo alleato dell’Occidente.
Se è indubbio un tentativo di accomodamento e riavvicinamento di Teheran
con l’Arabia Saudita, le operazioni congiunte condotte sul campo con
l’Occidente sia in Siria che in Iraq dalle forza filo-iraniane sono
state organizzate da contatti a livello di intelligence. Una circostanza lontana dal poter essere definita alleanza.
Ad
ogni modo il discorso di Hassan Rouhani alle Nazioni Unite sublima la
svolta interventista della Repubblica islamica in Medio Oriente. Una
svolta che non ha perso il leitmotiv rivoluzionario e in cui non
sono mancate le asprezze. Il problema sono le sanzioni. È bene ricordare
infatti che l’Iran sta sperimentando un sostenuto momento d’inflazione
dei prezzi dei beni di prima necessità, sta corrodendo il potere di
acquisto della moneta. Nel medio periodo la tenuta stessa del regime
potrebbe essere minata. Il buon esito del dossier nucleare è quindi
prioritario per il Paese ed un alleviamento delle sanzioni
indispensabile. L’effetto a breve termine di un risultato positivo delle
negoziazioni potrebbe dare una grande spinta psicologica per i
principali attori economici iraniani. L’impulso per l’economia
consoliderebbe un percorso di crescita che si stima possa attestarsi
intorno al 5% nel 2015, producendo una conseguente spinta per le
importazioni di merci e servizi occidentali, soprattutto per colmare le
lacune generate dal regime sanzionatorio. Nel medio termine (da tre a
cinque anni), l’Iran potrebbe gradualmente spostarsi verso
l’importazione di materie prime e prodotti intermedi che incrementino la
sua produzione interna monetizzando dall’interscambio di risorse
energetiche. Allo stesso tempo, la crescita dell’industria nazionale
iraniana potrebbe attivare un circolo virtuoso di crescita basata sulle
esportazioni con un tasso annuo del 6-7%.
Da
un punto di vista del quadro politico regionale l’Iran pare abbia
attraversato e superato un momento di ripiegamento. L’IS è certamente un
nemico: ha preso di mira le popolazioni sciite nel nord dell’Iraq,
messo in serio pericolo il governo stesso a Baghdad forzando alle
dimissioni il loro uomo più fidato, Nouri al-Maliki. In Siria poi, gli
uomini del Califfato hanno combattuto duramente contro al-Assad,
uccidendo sul campo anche molti iraniani arruolati nelle file
dell’esercito lealista.
Conclusioni –
Un’analisi corretta dell’attuale posizione e stato di sviluppo dei
rapporti bilaterali tra Turchia e Iran non può che riservarsi un angolo
di visuale attendista. Una mutua diffidenza di fondo e strategie
contrastanti verso obiettivi condivisibili però potrebbe creare più di
un’incomprensione e minare la tenuta della rete commerciale che ad oggi
parrebbe essere mutualmente benefica. Risulta altresì particolare che
nel momento forse peggiore per le relazioni turco-statunitensi (Siria,
finanziamento IS, etc.) si assiste forse al momento migliore per le
relazioni tra Teheran e Washington. Certo la situazione dei due Paesi è
all’opposto. I contorni della contingenza attuale risentono della
magmatica evoluzione dei rapporti nell’aerea mediorientale e molte
questioni si aprono. Da un lato la Turchia potrebbe aver abbandonato la
strategia dello zero problems with neighbours convogliando verso una posizione più attendista che ricerchi nuove partner di pace e per la pace in un’ottica di breve periodo.
Nel
lungo periodo, invece, un Iran fuori dall’isolamento aprirebbe per la
Turchia un gioco competitivo per accaparrarsi investimenti diretti
esteri da parte delle imprese multinazionali. Questo è il maggior collo
di bottiglia che potrebbe intervenire nei rapporti economici tra i due
Paesi. In tale dinamica il vantaggio che l’Iran potrebbe vantare è la
sua diaspora, che aspetta un ambiente privo di sanzioni per ritornare ad
investire. Va notato che un tal sviluppo della situazione è in linea
con la Resistence Economy, progetto della Repubblica islamica per
lo sviluppo economico del presente e futuro. Un tale scenario potrebbe
trovare però oppositori sia tra le Guardie della rivoluzione che
all’esterno. Il 17 settembre il comandante della Guardia Rivoluzionaria,
Mohammad Ali Jafari, ha dichiarato, «Al momento, c’è una buona cooperazione e interazione con il governo».
E’
importante notare infine che attraverso un accomodamento spaziale
Turchia e Iran potrebbero nel breve futuro trovare più occasioni di
cooperazione che conflitto (flussi energetici, import/export di beni e
servizi). L’ottica di perseguire una crescita sostenuta delle rispettive
economie presuppone però un Medio Oriente pacificato o comunque
stabilizzato e ciò non può che intrecciare i destini dei due più grandi player regionali nel bene e nel male.
di Francesco Minici - 17 ottobre 2014
Francesco Minici è Dottore in Relazioni Internazionali (Università per stranieri di Perugia)
fonte: http://www.bloglobal.net
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