La maggioranza si è occupata per mesi di uteri in affitto, di
unioni civili, di nomine in Rai, di canguri e lo ha fatto con dei
metodi che, se fossero stati usati da altri, avrebbero suscitato moti di
piazza con annesse agende rosse, petizioni dei soliti quattro
costituzionalisti militanti e latrati alla volta degli autori di
fantomatici editti bulgari. Invece qui siamo al cospetto di un governo
quasi amico per cui va anche bene che si discuta dell’orrendo termine
“petaloso” in quanto le armi di distrazione di massa non sono mai
abbastanza ed il popolo ha bisogno di narrazioni cui attaccarsi visto
che le cose serie sono noiose ed è bene, tra l’altro, che non se ne
parli.
Adesso la ricreazione è finita e l’Unione europea nei prossimi mesi
ci presenterà il conto dato che le cifre esposte da Renzi e Padoan fanno
acqua da tutte le parti e la procedura di infrazione, salvo soluzioni
politiche, è impietosamente dietro l’angolo. Il debito pubblico cresce
al 132,4 per cento del Pil (portando il deficit al rialzo), il rapporto
deficit/Pil viaggia verso il 2,5 per cento grazie ad una crescita che
l’Ocse stima intorno all’1% (contro l’1,6% previsto dal Governo) ed
all’appello mancherebbero circa 25 miliardi di euro per tamponare i
buchi provocati da un’armata brancaleone che, invece di bloccare gli
sprechi, li genera e chiede per giunta ulteriori margini di flessibilità
da utilizzare per distribuire qualche altro fotti popolo.
Mai che nessuno nomini la spending review, sparita dai discorsi di
Renzi (e dalle pagine di una stampa completamente azzerbinata), perché
altrimenti rischierebbe di diradarsi la nebbia entro cui il popolo
italiano ha scelto di vivere abbandonandosi ai racconti quotidiani del
presuntuosetto di Rignano e dei suoi paggetti col papi nella banca
popolare. E ci volevano proprio le parole del Presidente della Corte dei
Conti per rompere l’incantesimo: la spending review è stata un parziale
fallimento, ha detto con tono pacato ma lasciando trapelare dalla
mimica facciale di volersi comportare come Ugo Fantozzi a proposito
della Corazzata Potëmkin. Ma se fosse solo la revisione della spesa –
con relativa moria di commissari succedutisi e dimessisi – ad essere un
fallimento, ci si potrebbe anche stare. Qui invece parliamo di un più
ampio sistema di riforme meramente annunciate (e per giunta brutte) a
destare dei sentimenti che svariano dallo sdegno all’ilarità. Renzi
appare in pubblico a parlare di Italia che cambia, che fa le riforme
meritandosi il rispetto degli altri Paesi ma tutte le volte ci
interroghiamo su quali diavolo siano questi cambiamenti a cui si
riferisce: forse la riforma del Senato che non abolisce il Senato e che è
subordinata ad un referendum (quindi inesistente)? Forse si riferisce
all’abolizione delle Province, che non è un’abolizione ma una confusione
senza precedenti? Premesso che per abolirle sarebbe necessaria una
riforma costituzionale e che le competenze di tali enti non sono state
ancora devolute alle Regioni (ed in alcuni casi alle Aree
Metropolitane), va detto che le Province esistono ancora e buona parte
dei dipendenti vaga spaesata senza sapere bene di cosa occuparsi e
soprattutto con quali risorse.
Si tratta di una riforma incompiuta che ha come unico merito quello
di aver cancellato 100 presidenti di Provincia, oltre 750 assessori e
3mila consiglieri (sono stati sostituiti da sindaci eletti dai sindaci),
con un risparmio ridottissimo che incide solo per lo 0,9% (circa 100
milioni di euro). Per il resto siamo ancora all’istituzione di
osservatori e Conferenze di servizi per il monitoraggio della riforma,
mentre nel frattempo lo Stato si appropria delle entrate degli enti
provinciali che, falcidiati dai tagli, continuano a fare debiti fuori
bilancio per pagare le spese correnti, rasentando il dissesto e non
assicurando alcun servizio (come ad esempio la manutenzione stradale). E
tra un rimpallo burocratico e l’altro, i 550 centri per l’impiego
restano appesi a questi enti territoriali evanescenti che si apprestano a
costituire la cosiddetta “area vasta” in un sistema di confusione
totale che moltiplica gli sprechi.
Intanto Gutgeld, l’ennesimo guru della spending review renziana, tace
sull’argomento impegnato com’è a lanciare il nuovo slogan per placare
gli animi nazionali che sono soliti infervorarsi al bar rigorosamente a
cavallo tra una partita di calcio e l’altra. Adesso c’è la
“turboriforma”, null’altro se non un nome ad effetto fatto apposta per
far credere ai cittadini che il dimagrimento della macchina statale sia
dietro l’angolo. La storiella del momento vorrebbe che delle 8176
(leggasi ottomilacentosettantasei) società partecipate dallo Stato
Italiano, l’ultimo con una partecipazione statale degna dell’Unione
Sovietica, un buon numero di carrozzoni possa essere abolito
agevolmente.
Nessuno ricorda però che il provvedimento varato l’anno scorso, per
abolirne 3570 di carrozzoni, fu mandato in vacca in Parlamento in data
31 ottobre 2015 nel silenzio più totale di un mondo politico che lo
aveva dato per certo un attimo prima. Prevediamo che anche in questo
caso si ciancerà ancora qualche giorno di turboriforme per poi mettere
la turbomarciaindietro lasciando vivere questi pachidermi mangiasoldi
ottimi per piazzare amici e politici trombati. D’altronde è la stessa
finaccia che storicamente è toccata ai provvedimenti che si sono posti
l’obiettivo di abolire i cosiddetti enti inutili. È dai tempi di Enrico
Costa (ministro nel 1998) che si disegnano mappe dello spreco e soggetti
pubblici da abolire. Costa fu il primo a contarne in maniera
sistematica circa 500, anche se la prima generica legge per sopprimerli è
datata 1956; da allora ogni tentativo è stato inghiottito nel vortice
dei micro-emendamenti buttati lì nottetempo per tenerli in piedi
arrecando un danno erariale di parecchi miliardi di euro. Ci provò anche
il povero Calderoli (che ne contò addirittura 1612) ma invano visto che
questi sopravvivono paffuti ed immobili articolandosi in enti
sottoposti al controllo della Ragioneria generale dello Stato, enti
controllati dal ministero dell’Economia, enti regionali, Enti
controllati dai Comuni e via via sperperando. I nomi sono divertenti: si
va dal Pio sodalizio Fornai, all’Opera Pia Bresciani in Roma, all’Ente
per lo studio dei materiali plastici per i poteri di difesa dalla
corrosione, all’Istituto per la conservazione della gondola e la tutela
del gondoliere per finire con veri e propri carrozzoni come l’Arcus
(società per lo sviluppo dell’arte), che nel 2014 ha fatto registrare
uscite per 38 milioni di euro e 417mila euro di retribuzioni lorde.
Qualcuno pensò bene di creare l’Iged, ovvero l’ente inutile nato per
abolire gli enti inutili, costato 99 milioni dal 2000 al 2006, anno in
cui se ne decretò l’abolizione. Fu veramente abolito? Che domande, in
Italia non si butta niente. È stato solo accorpato nella Pubblica
amministrazione sparendo nel porto delle nebbie.
di Vito Massimano - 01 marzo 2016
fonte: http://www.opinione.it
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