Mentre infuria l’assedio dei
terroristi del califfo a Kobane, confine Siria-Turchia, Ankara non
sembra intenzionata ad abbandonare la sua ambigua politica di sostegno
ai jihadisti
Creazione di una no-fly zone lungo il confine fra Turchia e Siria e di enclave protette per gli sfollati dei combattimenti dentro al territorio siriano, controllate da truppe turche. Sono queste le condizioni che il presidente Recep Tayyip Erdogan ha posto per il coinvolgimento del suo paese nella coalizione a guida americana contro lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil), dopo che al termine del summit dei capi di Stato alle Nazioni Unite la settimana scorsa aveva annunciato che, ottenuta la liberazione dei 49 ostaggi del consolato turco di Mosul sequestrati dall’Isil il 10 giugno, ora la Turchia avrebbe fatto la sua parte interpretando un ruolo «sia militare che politico». È evidente che al governo islamista di Ankara più che combattere il califfato di al Baghdadi interessa influire sull’esito finale della guerra civile siriana.
Dopo avere favorito per quasi tre anni l’afflusso di guerriglieri jihadisti in Siria attraverso le sue frontiere, avere chiuso un occhio sulla rete logistica che gli stessi hanno costituito sul suo territorio, aver lasciato passare armi a loro destinate e curato i loro feriti negli ospedali di tutto il paese, avere fatto da retrovia ai jihadisti di Jabhat al Nusra alla fine del 2012 e a quelli dell’Isil nel settembre scorso quando avevano attaccato la città curda siriana di Ayn al Arab/Kobane, la Turchia cambierà veramente politica nei loro confronti solo se riconoscerà nella coalizione voluta da Obama l’entità politico-militare la cui creazione da tre anni Erdogan invoca: una coalizione di arabi e di paesi Nato che permetta di abbattere il regime di Assad in Siria e di sostituirlo con un governo islamista sunnita infeudato alla Turchia e ai paesi arabi del Golfo Persico.
Se ciò apparirà impraticabile come lo è stato in questi anni di guerra civile siriana internazionalizzata, la Turchia continuerà la sua pericolosissima politica consistente nel giocare all’apprendista stregone. Cioè continuerà ad appoggiare segretamente i gruppi jihadisti, Stato islamico compreso, ritenendo di essere in grado di manovrarli per i suoi scopi. Che non si limitano all’obiettivo di far cadere Assad in Siria. A questo, che resta il principale, se ne è aggiunto da tempo un altro ugualmente importante per Ankara: impedire che la Rojava, – la regione della Siria a forte presenza curda controllata per larghi tratti dalle milizie armate del Pyd, il partito autonomista curdo siriano che è una gemmazione del Pkk che opera dal 1980 in Turchia –, diventi una regione autogovernata dai curdi locali al modo del Kurdistan iracheno.
Il 9 agosto scorso, nel pieno della crisi scatenata dall’offensiva dello Stato islamico che aveva occupato le cittadine cristiane e yazide della piana di Ninive e dintorni e causato l’esodo di 300 mila profughi, il ministro della Difesa turco Ismet Yilmaz dichiarava che la Turchia non aveva fornito alcun sostegno agli attacchi aerei americani appena iniziati, e che a causa dei 49 ostaggi detenuti dall’Isil a Mosul «è impossibile per noi fare qualcosa di diverso». Con quale logica allora l’Isil si è privato dell’asso che aveva in mano per tenere sotto scacco la Turchia? I sequestrati non sono stati liberati con un blitz militare, ma al termine di una trattativa che ha comportato il loro trasferimento a Raqqa in Siria e poi il rilascio alla frontiera turca di Akcakale. Le autorità negano che sia stato pagato un riscatto, ma qualche contropartita l’Isil deve averla ottenuta, altrimenti il rilascio degli ostaggi risulterebbe da parte sua totalmente illogico. Il sospetto che la liberazione degli ostaggi sia avvenuta sulla base di un impegno da parte del governo turco a continuare a non alzare un dito contro i jihadisti è legittimo. La Turchia è, per ragioni geografiche, il paese più esposto a eventuali rappresaglie dell’Isil, e se queste nelle prossime settimane non arriveranno nonostante le parole di Erdogan all’Onu sull’imminente «cooperazione militare» con gli Stati Uniti, vorrà dire che Ankara non sta dando un contributo effettivo alle operazioni della coalizione anticaliffato, ma sta facendo altro.
La complicità dell’esercito
Per adesso l’Isil sembra più interessato a sfruttare le opportunità logistiche che la Turchia offre che non a punirla per le sue oscillazioni politiche. Il 16 settembre, tre giorni prima del rilascio degli ostaggi turchi, ha lanciato una grande offensiva contro la città curda siriana di Ayn al Arab/Kobane, controllata dalle forze dell’Ypg (l’ala militare del Pyd) dal luglio del 2012. Gli attacchi erano già cominciati il 2 luglio scorso, e ormai decine di villaggi del cantone di Kobane sono caduti nelle mani dei jihadisti mentre 100 mila civili sono dovuti fuggire in territorio turco. La località ha un’importanza strategica, perché si trova a ridosso della frontiera con la Turchia, in corrispondenza del principale posto di frontiera della regione, quello di Mursitpinar. L’Isil controlla già le regioni di confine con la Turchia ad est e ad ovest di Kobane, compresi i due posti di frontiera di Jarabulus e Tal Abyad. Se Ayn al Arab cade, l’Isil controllerebbe 100 chilometri di confine con la Turchia e tre posti di frontiera, e creerebbe una continuità territoriale con la sua “capitale” di Raqqa, 100 chilometri più a sud. Se i jihadisti ci tengono tanto ad allargare il loro controllo della frontiera con la Turchia, un motivo dovrà pur esserci…
Che in questi ultimi anni attraverso il confine turco-siriano il governo di Ankara abbia volontariamente lasciato passare jihadisti e armi a loro destinate non è solo l’opinione dei comandanti delle formazioni armate curde siriane. Anche giornalisti turchi e politici dell’opposizione puntano il dito contro le responsabilità delle autorità, con accuse circostanziate. Nel giugno scorso su tutti i giornali turchi è apparsa una foto risalente ad aprile di Abu Muhammad, uno dei più alti comandanti dell’Isil, ricoverato presso un ospedale della città turca di Hatay dopo essere stato ferito in una battaglia in territorio siriano. Nel settembre 2013 l’edizione inglese del giornale libanese Al Akhbar aveva pubblicato un servizio dalla Siria nord-orientale nel quale si leggeva: «Non è raro vedere l’esercito turco sovrintendere al trasferimento di combattenti di al Qaeda attraverso la regione di confine dalla Turchia nel territorio curdo in Siria. Alcuni giorni fa l’esercito turco ha permesso a 150 combattenti dell’Isil e di altre brigate islamiste di attraversare il villaggio di Alouk, a est di Ras al-Ayn, insieme a sei blindati e pick-up armati con mitragliatrici pesanti. Il motivo dell’operazione era chiaramente quello di bloccare la strada fra le città di Derbassiyeh e Ras al-Ayn e tagliare i rifornimenti ai combattenti dell’Ypg».
Negli stessi giorni in cui emergeva lo scandalo di Abu Muhammad e di altri combattenti dell’Isil curati negli ospedali turchi, un deputato dell’opposizione richiamava l’attenzione sul fatto che il governo ha favorito anche l’operatività di Jabhat al Nusra, il gruppo ribelle siriano affiliato ad al Qaeda. Si poteva leggere su Hürriyet: «Il deputato di Istanbul del Chp (il principale partito di opposizione turco, ndr) Ihsan Özkes ha affermato che a militanti di Jabhat al Nusra, gruppo affiliato ad al Qaeda, è stato permesso di risiedere nei pensionati del Direttorato degli affari religiosi (Diyanet) sotto la supervisione del Mit (i servizi segreti turchi, ndr) nella provincia meridionale dell’Hatay. Özkes, che è stato un mufti, ha anche affermato che l’ordine di ospitare i militanti è stato dato dal ministro degli Interni Muammer Güler in una circolare inviata all’ufficio del governatore dell’Hatay, nella quale si chiede apertamente di fornire assistenza ai combattenti di Jabhat al Nusra. Il presunto documento ufficiale mostrato da Özkes rivela che i combattenti di al Nusra sono stati portati dal Mit allo scopo di combattere contro il Partito democratico dell’unione (Pyd) della Siria settentrionale, affiliato al fuorilegge Pkk del Kurdistan turco. “È importante fornire il necessario sostegno agli ufficiali dell’intelligence per quanto riguarda l’assistenza ai combattenti di al Nusra, inclusi tunisini e ceceni, che sono stati condotti qui sotto la supervisione del Mit per combattere contro gli affiliati del Pkk che sono i curdi del Pyd, aiutandoli ad attraversare il confine con la Siria e trattando in modo confidenziale tutta la materia”, si legge nel documento».
Il lavaggio del cervello
All’inizio di questo mese è stata la volta di un altro deputato del Chp di accusare il governo di sostegno all’Isil. Ha detto Attila Kart in una conferenza stampa ripresa dal quotidiano Zaman: «Per quanto riguarda la partecipazione di cittadini turchi ai ranghi dell’Isil (le stime giornalistiche oscillano fra le mille e le 5 mila unità, ndr), è chiaro che alcune associazioni, istituzioni caritative, scuole teologiche islamiche e molte altre organizzazioni locali svolgono un ruolo attivo nel convincere e nell’aiutare le persone a unirsi al gruppo terrorista. Ci sono gruppi attivi incaricati del lavaggio del cervello per farli aderire all’Isil. Queste entità sono perfettamente note sia al governo sia all’opinione pubblica. Dal momento che sono note pubblicamente, è impossibile che i dipartimenti di polizia non li conoscano. Questi gruppi stanno esplicitamente lavorando a favore dell’Isil nelle città della Turchia. Il governo deve spiegarci come e perché questi gruppi siano in grado di impegnarsi così facilmente nella propaganda per conto dei terroristi. Negli ultimi anni abbiamo visto molti turchi partecipare alle attività del Libero esercito siriano, oggi c’è un numero crescente di soggetti che aderiscono all’Isil».
Armi e aiuti umanitari
Di ritorno da una missione in Turchia lo scienziato politico e consulente del dipartimento di Stato americano David L. Phillips ha dichiarato: «Durante la mia visita membri del parlamento turco e altre personalità di primo piano mi hanno descritto i rapporti esistenti fra la Turchia e le organizzazioni sunnite militanti come l’Isil. Essi affermano che un ruolo di rilievo viene svolto dall’Ihh, la Fondazione per le libertà e i diritti umani e l’aiuto umanitario (responsabile della Freedom Flotilla per Gaza del 2010, ndr), una associazione filantropica islamica nota per fornire assistenza ai gruppi estremisti. Bilal Erdogan, figlio del presidente, ha rapporti col direttivo della fondazione e avrebbe sfruttato il network di amicizie del padre per raccogliere fondi per l’organizzazione». Nel gennaio di quest’anno casse di armi sono state trovate su di un camion della fondazione diretto in Siria per portare aiuti umanitari. Dopo tale episodio le autorità hanno compiuto arresti nelle file dell’organizzazione.
Perché Erdogan, il suo governo e il suo partito si sono compromessi fino a questo punto, mettendo in moto una macchina che non sanno più come fermare? Lo spiega il noto giornalista turco Burak Bekdil, editorialista di Hürriyet: «Tutto è cominciato quando i leader della Turchia hanno pensato che potevano creare una cintura di stati sunniti sotto egemonia turca. Perché ciò accadesse Tunisia, Libia, Egitto, Libano, Siria e Iraq dovevano essere governati da leadership sunnite subalterne ad Ankara, preferibilmente legate ai Fratelli Musulmani. Per qualche tempo anche gli Stati Uniti si sono baloccati con l’idea di creare una “mezzaluna moderata” di nazioni sunnite, con lo scopo di contenere l’Iran sciita, l’Iraq governato dagli sciiti e gli Hezbollah del Libano. Erdogan, fautore della supremazia sunnita, avrebbe stretto la mano anche al diavolo pur di veder cadere l’alawita Assad. E la Turchia presto divenne il mentore di tutti i gruppi di opposizione che, nella visione ideale, avrebbero prima sconfitto Assad, poi formato un governo islamista e si sarebbero offerti per diventare un protettorato di fatto dell’emergente Impero turco. All’inizio il sostegno turco era politico e organizzativo. In realtà Ankara stava lentamente trasformando il sud-est della Turchia in un hub per militanti islamisti radicali di ogni tendenza, provenienti da moltissimi paesi».
Il problema è che probabilmente Erdogan e Obama non hanno abbandonato le loro rispettive visioni nate al tempo della Primavera araba: il presidente turco non ha rinunciato al suo sogno neo-ottomano, il presidente uscente americano sembra ancora puntare sugli islamisti sunniti moderati per mettere alle corde l’Iran e i suoi alleati. Se dietro la coalizione anti-Isil ci sono questi programmi, il fallimento è garantito.
Rodolfo Casadei - 4 ottobre 2014
fonte: http://www.tempi.it
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