Roma,
28 ago – Un matrimonio da dieci milioni di euro, con oltre 800
invitati, decine di hostess, star internazionali e perfino due elefanti.
Non si può certo dire che Pramod Agarwal, il magnate indiano del
settore siderurgico, sia uno dal “braccino corto”, visto quanto messo
sul piatto per lo sposalizio/circo della terza figlia, che dal 3 al 6
settembre si celebrerà in tre super resort di lusso nei pressi di
Fasano, in provincia di Brindisi.
Roba da far passare per frugali le tende da beduino del fu Gheddafi a
Villa Pamphili o le lezioni di Corano impartite a 500 hostess.
Riflettendoci, tra baciamano e fotografie appiccicate sul petto, ci
sarebbe quasi da rimpiangerli quei tempi, dove almeno i salamelecchi al
leader della Jamahìriyya servivano a far fare alle nostre aziende la
parte del leone nell’ex colonia libica. Oggi tra la militarizzazione
dell’area ordinata dal ministro dell’Interno Alfano per il timore di
manifestazioni in sostegno dei due marò (che proprio durante il
matrimonio “celebreranno” i 30 mesi di ingiusta reclusione in India), la
minaccia di impedire gli incontri nazionali di Forza Italia e CasaPound
Italia che si terranno negli stessi giorni a poche decine di km dai
luoghi del matrimonio e la preoccupazione del sindaco di Fasano per il
rischio di rovinare “una festa di centinaia di miliardari che da soli
rappresentano il 20% del Pil indiano”, il ruolo dell’ex colonia pare
giocarlo proprio l’Italia. Altro che sovranità nazionale.
Tra i partiti di governo regna un silenzio assordante, alternato al
fastidio per il polverone sollevatosi attorno ad una vicenda che doveva
passare in sordina. Se poi tra i principali partiti italiani gli unici a
chiedere a Renzi “un sussulto di orgoglio ed un minimo di coraggio nei
confronti dell’India per far ritornare in Italia i due marò” sono i
grillini Luis Alberto Orellana e Lorenzo Battista, il segno del trapasso
è evidente. Per avere un’idea dell’imbecillità, o forse dovremmo dire
dell’asservimento o della collusione, con cui viene trattata la vicenda
da un partito come il Pd, basta la riflessione del presidente della
Commissione Difesa Nicola Latorre (conterraneo tra l’altro dei due
fucilieri), secondo il quale il tappeto rosso srotolato di fronte “ad un
autorevole industriale indiano può essere un’occasione per chiarire che
noi non vogliamo dichiarare guerra all’India ma trovare una soluzione
diplomatica”. Non fa una piega: tu detieni ingiustamente due miei
soldati da quasidue anni, io per tutta risposta ti invito ad organizzare
più feste possibili da me garantendoti il massimo dell’ospitalità.
Ma più che alle sorti dei due marò la super festa dei rampolli
indiani sembra legata ad un’altra vicenda: quella dell’Ilva. Il futuro
dello stabilimento di Taranto, e quindi del comparto italiano
dell’acciaio, non è ancora stato chiarito. Il piano industriale dei
nuovi “capitani coraggiosi” che Renzi aveva provato a mettere in piedi
coinvolgendo di Marcegaglia, Gozzi e altri pezzi da novanta della
siderurgia italiana è fallito miseramente, non riuscendo a trovare un
accordo tra i Riva, il commissario Bondi e i sindacati. Ancora più
difficile ottenere dalle banche le coperture finanziarie necessarie,
praticamente impossibile trovare chi sarebbe disposto ad accollarsi 1,8
mld di euro per la bonifica ambientale degli stabilimenti di Taranto più
altri 3mld di euro per realizzare l’ammodernamento entro il 2020.
Ed ecco qui che entrano in gioco gli indiani, con il gruppo Arcelor
Mittal che sembrerebbe intenzionato a rilevare la fabbrica e al quale lo
stato italiano vorrebbe accollare le spese per la bonifica ambientale
degli impianti (che invece spetterebbe all’Italia e ai Riva). Non è
chiaro se Mittal sarà presente al sontuoso matrimonio organizzato
(guarda caso in Puglia) da Agarwal, il quale potrebbe entrare in partita
sull’Ilva da collaboratore/competitor di Mittal.
Con l’ingresso degli indiani la produzione verrebbe spostata in India
(dove dell’inquinamento e della sicurezza sul lavoro non frega un cazzo
a nessuno) che metterebbe così le mani sulle 27 mln di tonnellate del
mercato italiano dell’acciaio. E così senza un piano industriale, senza
investire per l’ammodernamento come fatto ad esempio dalla Germania,
senza una minima strategia, l’Italia rinuncerà alla produzione
dell’acciaio sperando però al tempo stesso di tirare a campare mangiando
le briciole dei soldi per la bonifica. Già che ci siamo a questo punto
presentiamoci fuori i cancelli del resort di Fasano: chissà magari tra
una hit di Shakira e un giro sull’elefante non è detto che un paio di
ciotole di riso al curry non escano fuori anche per noi.
Davide Di Stefano - 28 agosto 2014
fonte: http://www.ilprimatonazionale.it
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