Il fronte scettico dell’Est si allarga e alza la voce: «Una volta eravamo sotto la supervisione di Mosca. Oggi cos’è cambiato?»
Dalla Polonia all’Ungheria
Allora si capisce che cosa hanno oggi in comune un primo ministro socialdemocratico post-comunista come lo slovacco Robert Fico e un ultraconservatore anticomunista che governa di fatto il suo paese pur non ricoprendo alcuna carica pubblica come il polacco Jaroslaw Kaczynski per parlare la stessa lingua in materia di profughi, cioè per rigettare la possibilità di accogliere nei loro paesi profughi di religione musulmana. Se la fisionomia nazionale diventa indeterminata, a causa dell’ingresso di immigrati di cultura diversa da quella che ha preso forma nel corso di una storia secolare, l’esistenza stessa dei loro popoli come entità distinte rischia di collassare. La cessione parziale di sovranità all’Unione Europea diventa rinuncia all’indipendenza se si lascia decidere a Bruxelles chi ha il diritto di entrare nel proprio territorio. Undici anni fa, quando otto paesi ex comunisti entravano in un colpo solo a far parte dell’Unione Europea, c’era un solo personaggio pubblico euro-orientale che osava paragonare quell’Unione all’Unione Sovietica: il russo Vladimir Bukovski. Quattro anni fa Viktor Orban, primo ministro ungherese, fece scandalo quando si appropriò del paragone. Adesso è diventato moneta corrente in molti ambienti politici dell’Est. Concetti simili si possono ascoltare da un parlamentare ceco la cui formazione è affiliata al Partito popolare europeo (Ppe): «Una volta ci trovavamo sotto la supervisione di Mosca», ha dichiarato il presidente della Commissione per gli affari europei del parlamento ceco, il democristiano Ondrej Benesik. «Ora molta gente ha l’impressione che la stessa cosa stia accadendo con Bruxelles».
A Ovest i giudizi negativi e sommari sui fratelli orientali sono una cascata: li si accusa di essere egoisti, razzisti, xenofobi, ritardatari della storia, ma soprattutto ingrati. Fra il 2007 e il 2013 l’Unione Europea ha messo a bilancio 176 miliardi di euro (di cui effettivamente erogati 131 al 2014) di fondi europei destinati allo sviluppo di dieci paesi dell’Est. La Polonia è stata la destinataria di 67 miliardi di aiuti. Il vicecancelliere tedesco Sigmar Gabriel è stato sferzante: «Ci sono paesi dell’Unione che vedono l’Europa come una comunità di benefici alla quale si partecipa solo quando ci sono soldi da spartire», ha commentato. I pochi osservatori benevoli propongono l’attenuante degli effetti depressivi prodotti dalla crisi finanziaria del 2008 sulle economie dei paesi membri. Ma se guardiamo le statistiche, il Fondo monetario nazionale (Fmi) ha da poco comunicato che l’area economicamente più dinamica dell’Unione Europea nel 2016 sarà quella che comprende i tre paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) e i quattro del cosiddetto Gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria). Con un aumento medio del Pil del 2,9 per cento, questa che è l’Europa sul banco degli imputati per le frizioni con Bruxelles sarà anche quella con la crescita economica maggiore. Tendenza che dovrebbe proseguire nel periodo 2017-2020.
I sensi di colpa occidentali
No, i problemi economici non c’entrano. Con i migliori tassi di crescita del Pil a livello europeo e con tassi di disoccupazione che sono simili a quelli dell’Italia nei peggiori dei casi (10,8 per cento in Slovacchia e 10 in Lettonia) e che sono la metà dei nostri nei migliori dei casi (4,6 per cento nella Repubblica Ceca e 6,4 in Ungheria), l’unica questione socio-economica che i paesi dell’Est possono invocare per tenere chiuse le frontiere ai migranti è la presenza sul loro territorio di minoranze etniche svantaggiate di antica data che rappresentano un problema niente affatto risolto e che hanno per natura la precedenza: parliamo dei rom, particolarmente numerosi in Ungheria (6 per cento degli abitanti) e in Slovacchia (10 per cento). La vera ragione delle incomprensioni fra Est e Ovest e della crescente volontà di allentamento dei legami da parte dei paesi del Gruppo di Visegrad sta nel décalage storico e culturale fra Est e Ovest e nel giudizio che l’Est sta dando di quello che succede a Ovest.
L’apertura dell’Europa occidentale al multiculturalismo e all’immigrazione di massa nasce dal suo senso di colpa per l’imperialismo e il colonialismo del passato, quando i popoli extraeuropei sono stati sottomessi con la giustificazione della missione civilizzatrice europea, ideologia di copertura degli interessi economici e finanziari delle grandi compagnie e della volontà di potenza degli stati. Oggi l’Europa occidentale espia le sue colpe relativizzando il valore della sua civiltà (accettazione del multiculturalismo al suo interno e del relativismo morale) e abiurando la realtà degli stati nazione storici per sostituirla con quella di uno spazio politico postnazionale definito soltanto dai diritti umani individuali e dalla solidarietà universale. Anche stavolta si tratta di coperture ideologiche di grandi interessi economico-finanziari: la cancellazione delle comunità nazionali e la loro sostituzione coi diritti/desideri degli individui è funzionale alla logica del consumismo e del profitto, l’apertura totale delle frontiere alle masse di migranti è funzionale alla globalizzazione dei mercati e al contenimento dei costi della manodopera.
Per gli europei dell’Est tutto ciò non ha senso: loro non hanno preso parte alle epopee colonialiste e imperialiste e quindi la loro autocoscienza non è afflitta dai sensi di colpa degli occidentali, né capiscono perché debbano rinunciare all’identità nazionale e alla sovranità senza averne fatto prima esperienza come hanno potuto farla i paesi dell’Europa occidentale. Non hanno vissuto le disillusioni degli occidentali e quindi non accettano ricette che non fanno al caso loro. Esprimono il loro dissenso con toni e argomenti diversi a seconda del loro orientamento politico e della loro biografia. «Pensano il mondo secondo un modello marxista e credono che si debba sviluppare automaticamente in una sola direzione», dichiara il nuovo ministro degli Esteri polacco, l’ultraconservatore Witold Waszczykowski. «Quella di una nuova mescolanza di culture e di razze, un mondo fatto di ciclisti e di vegetariani, che usano solo energie rinnovabili e combattono tutte le forme di religione». Invece il primo ministro slovacco Robert Fico, non dimentico del suo passato comunista e anti-imperialista, chiede retoricamente: «Abbiamo bombardato noi la Libia? Chi ha liquidato il regime in Iraq? Abbiamo destabilizzato noi la Siria? Che rapporto abbiamo noi con quei territori? Noi non abbiamo nessuna responsabilità per l’attuale situazione in quei paesi. Perciò non possiamo accettare che qualcuno ci obblighi a prenderci cura di quelle persone».
Le politiche che i governi del Gruppo di Visegrad assumono per difendere e promuovere l’identità nazionale contro i tentativi di omologazione di Bruxelles cominciano ad assomigliarsi e a convergere: rivalutazione del ruolo dello Stato nell’economia; stretto controllo del governo sulla banca centrale, sui media pubblici e sulla corte costituzionale; aumento dell’imposizione fiscale sui profitti delle banche e diminuzione di quella sui privati; precedenza alle imprese nazionali su quelle straniere anche europee; aumento della spesa sociale. A monte di questo ci sta l’idea che lo Stato è lo strumento organizzativo di una comunità nazionale, non di una somma di individui che rivendicano diritti.
La proposta di Orban
La formulazione più chiara della visione del mondo da cui emanano le suddette politiche l’ha data Orban, nel suo discorso di Baile Tusnad del luglio 2014, quello in cui propose il modello politico della «democrazia illiberale» e dello «Stato del workfare» in opposizione allo Stato del welfare. «Quello che stiamo facendo in Ungheria – disse in terra rumena davanti ai rappresentanti della minoranza magiara – può essere interpretato come un tentativo della leadership di armonizzare il rapporto fra gli interessi e le conquiste degli individui – che devono essere riconosciuti – e gli interessi e le conquiste della comunità, cioè della nazione. Questo significa che la nazione ungherese non è una semplice somma di individui, ma una comunità che ha bisogno di essere organizzata, rafforzata e sviluppata, e in questo senso il nuovo stato che stiamo costruendo è uno stato illiberale, uno stato non liberale. Esso non nega i valori fondativi del liberalismo, come la libertà e tutto il resto. Ma non fa di questa ideologia un elemento centrale dell’organizzazione dello stato, bensì applica al suo posto uno specifico, particolare approccio nazionale». Sul Financial Times queste posizioni, come quelle del nuovo governo polacco del PiS, vengono demonizzate come “autocratiche” e snobbate come “nativiste”, mentre si dà notizia che la Commissione europea ha messo sotto osservazione la Polonia per sospetta violazione dello Stato di diritto. Ma parecchi lettori non gradiscono: «La Commissione europea ha aperto un’indagine su di un governo “autoritario”? Questa sì che è satira!».
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