Dottore in Economia, docente presso l’Università Pierre Mendes
France di Grenoble, ricercatore indipendente specializzato in questioni
economiche e geostrategiche russe, Jean Geronimo è l’autore de Il
pensiero strategico russo, ed è in procinto di pubblicare un nuovo libro
sull’Ucraina. Propone un’analisi strutturale della crisi in Ucraina…
lungi dai discorsi dominanti.
La
battaglia per l’Ucraina è una questione geopolitica importante per le
due superpotenze della Guerra Fredda, nell’ambito del gioco strategico
giocato sulla scacchiera eurasiatica agendo sugli Stati-perno nella
regione quali pedine della partita. Il controllo dell’Ucraina, vista da
entrambi i lati come Stato chiave in questa scacchiera, rientra nel
perseguimento di due obiettivi, estendere le zone d’influenza ideologica
e conquistare la leadership politica nell’Eurasia post-comunista.
Associata alla capacità d’influenzare i principali attori della regione,
la natura strategica dell’Ucraina sul piano politico (al centro di
grandi alleanze) ed energetico (al centro della rete dei gasdotti) ne
spiega il ruolo fondamentale nella linea anti-russa di Z. Brzezinski
scelta dall’amministrazione Obama. La cooptazione dell’Ucraina, definita
da E. Todd “periferia russa”, dovrebbe infatti spezzare la strategia
della ricostruzione del potere eurasiatico adottata da Mosca dalla fine
degli anni ’90. Questa ricostruzione del potere russo avviene
recuperando il dominio regionale e verrà realizzata nel 2015 con la
nascita dell’Unione economica eurasiatica. Alla fine, questa
configurazione giustifica la terminologia di Brzezinski di “perno
geopolitico” dell’Ucraina, all’origine del conflitto avviato con un vero
e proprio colpo di Stato, secondo J. Sapir.
Un golpe nazional-liberale manipolato
In questo contesto, il golpe propedeutico per controllare la grande regione dell’ex-Unione Sovietica ha giustificato una strategia manipolativa basata su una disinformazione continua per compattare l’opinione pubblica internazionale e, soprattutto, sostenere un processo “rivoluzionario” ispirato al modello siriano, nella sua fase iniziale. L’obiettivo era far precipitare la caduta del presidente in carica Viktor Janukovich, fornendone una legittimazione confermata dall’assegno in bianco occidentale. In ciò, il colpo di Stato nazional-liberale, ufficialmente avvenuto il 22 febbraio 2014, rientra nella logica degli scenari “colorati” degli anni 2000 costruiti dall’occidente nello spazio post-sovietico con le sue proiezioni locali ed ONG “democratiche” basate sulle potenti reti politiche delle élite oligarchiche e dei principali oppositori al potere filo-russo di turno. Al momento, tali “manifestazioni” furono interpretate dal Cremlino come segnali di un’offensiva globale volta, infine, contro la Russia e le cui premesse, via interferenza occidentale, furono osservate nelle ultime elezioni russe (presidenziali) nel marzo 2012. Secondo una certezza inquietante e nonostante l’assenza di prove reali, l’ONG Golos, finanziata dagli USA (!) accusò Putin di “massicci brogli elettorali”. L’obiettivo di Golos era fomentare il malcontento nelle piazze per creare, in ultima analisi e invano, un’effervescenza “rivoluzionaria” per destabilizzare il nuovo “zar rosso”. Con una ridondanza mediatica, continua e manipolatrice, osservata poi durante Majdan. La visione “complottista” russa è meglio riassunta da H. Carrère d’Encausse nel suo libro del 2011 “La Russia tra due mondi”. Ricorda che per Putin c’è una “vasta operazione di destabilizzazione della Russia emergente in cui Stati e organizzazioni di tutti i tipi, dall’OSCE alle varie ONG straniere, averebbero unito le forze per indebolirlo“. Derivanti dalle tecnologie politiche occidentali volte a erodere l’influenza dell’ex-superpotenza sulla periferia post-sovietica, tali “rivoluzioni colorate” hanno dimostrato una straordinaria efficienza con l’eliminazione dei leader filo-russi in Georgia, Ucraina e Kirghizistan. Così si assistette alla nascita di una nuova ideologia implicita nella democrazia liberale, usata quale leva legale per interferire nella politica interna degli Stati presi di mira. Tale leva è considerata da Putin elemento essenziale del nuovo soft power occidentale per destabilizzare i regimi ‘nemici’ e, attraverso esso, potenziale minaccia al suo potere. Stranamente, come ricorda J. M. Chauvier, quella stessa democrazia ha ignorato il ruolo critico delle correnti estremiste nazionaliste, vicine al neo-nazismo, nel successo finale del processo “rivoluzionario” di Euromaidan, precipitato dai misteriosi cecchini. Catalizzato dall’odio ideologico anti-russo e anticomunista, tale risveglio in Ucraina del pensiero ultranazionalista d’ispirazione neo-nazista è parte di una tendenza generale in Europa, giustamente osservata da A. Grachev, ultimo portavoce e consigliere del presidente dell’Unione Sovietica Mikhail Gorbaciov. Nel suo libro del 2014 “La storia della Russia è imprevedibile”, Grachev dice “l’aumento della popolarità del nazionalismo di estrema destra e neo-fascista (…) dimostra i limiti e, in ultima analisi, il fallimento del nostro sistema democratico: E’ sempre più chiaro che il meccanismo ben oliato della democrazia (…) comincia a bloccarsi“. Una constatazione amara alla base, già, della Perestrojka di Gorbaciov, che mette in discussione la vera natura della “rivoluzione” di Kiev.
In questo contesto, il golpe propedeutico per controllare la grande regione dell’ex-Unione Sovietica ha giustificato una strategia manipolativa basata su una disinformazione continua per compattare l’opinione pubblica internazionale e, soprattutto, sostenere un processo “rivoluzionario” ispirato al modello siriano, nella sua fase iniziale. L’obiettivo era far precipitare la caduta del presidente in carica Viktor Janukovich, fornendone una legittimazione confermata dall’assegno in bianco occidentale. In ciò, il colpo di Stato nazional-liberale, ufficialmente avvenuto il 22 febbraio 2014, rientra nella logica degli scenari “colorati” degli anni 2000 costruiti dall’occidente nello spazio post-sovietico con le sue proiezioni locali ed ONG “democratiche” basate sulle potenti reti politiche delle élite oligarchiche e dei principali oppositori al potere filo-russo di turno. Al momento, tali “manifestazioni” furono interpretate dal Cremlino come segnali di un’offensiva globale volta, infine, contro la Russia e le cui premesse, via interferenza occidentale, furono osservate nelle ultime elezioni russe (presidenziali) nel marzo 2012. Secondo una certezza inquietante e nonostante l’assenza di prove reali, l’ONG Golos, finanziata dagli USA (!) accusò Putin di “massicci brogli elettorali”. L’obiettivo di Golos era fomentare il malcontento nelle piazze per creare, in ultima analisi e invano, un’effervescenza “rivoluzionaria” per destabilizzare il nuovo “zar rosso”. Con una ridondanza mediatica, continua e manipolatrice, osservata poi durante Majdan. La visione “complottista” russa è meglio riassunta da H. Carrère d’Encausse nel suo libro del 2011 “La Russia tra due mondi”. Ricorda che per Putin c’è una “vasta operazione di destabilizzazione della Russia emergente in cui Stati e organizzazioni di tutti i tipi, dall’OSCE alle varie ONG straniere, averebbero unito le forze per indebolirlo“. Derivanti dalle tecnologie politiche occidentali volte a erodere l’influenza dell’ex-superpotenza sulla periferia post-sovietica, tali “rivoluzioni colorate” hanno dimostrato una straordinaria efficienza con l’eliminazione dei leader filo-russi in Georgia, Ucraina e Kirghizistan. Così si assistette alla nascita di una nuova ideologia implicita nella democrazia liberale, usata quale leva legale per interferire nella politica interna degli Stati presi di mira. Tale leva è considerata da Putin elemento essenziale del nuovo soft power occidentale per destabilizzare i regimi ‘nemici’ e, attraverso esso, potenziale minaccia al suo potere. Stranamente, come ricorda J. M. Chauvier, quella stessa democrazia ha ignorato il ruolo critico delle correnti estremiste nazionaliste, vicine al neo-nazismo, nel successo finale del processo “rivoluzionario” di Euromaidan, precipitato dai misteriosi cecchini. Catalizzato dall’odio ideologico anti-russo e anticomunista, tale risveglio in Ucraina del pensiero ultranazionalista d’ispirazione neo-nazista è parte di una tendenza generale in Europa, giustamente osservata da A. Grachev, ultimo portavoce e consigliere del presidente dell’Unione Sovietica Mikhail Gorbaciov. Nel suo libro del 2014 “La storia della Russia è imprevedibile”, Grachev dice “l’aumento della popolarità del nazionalismo di estrema destra e neo-fascista (…) dimostra i limiti e, in ultima analisi, il fallimento del nostro sistema democratico: E’ sempre più chiaro che il meccanismo ben oliato della democrazia (…) comincia a bloccarsi“. Una constatazione amara alla base, già, della Perestrojka di Gorbaciov, che mette in discussione la vera natura della “rivoluzione” di Kiev.
Le nuove minacce rivoluzionarie “colorate”
In questo contesto geopolitico sensibile, le “rivoluzioni colorate” sono considerate le principali minacce alla stabilità dei presunti Stati democratici dell’area post-sovietica, in particolare della Russia di Putin strutturalmente presa di mira e che teme una “sceneggiatura ucraina”. L’universalizzazione della democrazia nel mondo con il soft power, o la forza se necessario, sembra essere oggi un “interesse nazionale” degli Stati Uniti e della loro funzione di regolamentazione prioritaria da unica superpotenza legittimata dalla storia. Tale postulato scientificamente (molto) dubbio fu proclamato nel 2000, con euforia condiscendente, dall’ex-segretaria di Stato di George W. Bush Condoleezza Rice, convinta della funzione messianica del suo Paese: “è compito degli USA cambiare il mondo. La costruzione di Stati democratici è ormai componente importante dei nostri interessi nazionali”, una forma di autolegittimazione neo-imperiale in nome, ovviamente, degli ideali democratici, costituendo un’ideologia globalizzatrice espansionista. Preoccupante. Di fronte tali nuove minacce “colorate” gli Stati membri delle strutture politico-militari del Collective Security Treaty Organization (CSTO) e dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) hanno deciso, su impulso della Russia, di coordinarsi per definire una comune strategia di prevenzione. L’obiettivo dichiarato è accomunare regionalmente i vari mezzi per neutralizzare tale nuova arma politica, ora privilegiata dall’occidente, e che si affida sempre più ai colpi di Stato astutamente costruiti. In altre parole, si tratta di aprire un fronte comune eurasiatico contro le future “rivoluzioni” nazional-liberali. Innegabilmente, l’imbroglio ucraino ha promosso tale consapevolezza politica e, quindi, giustifica la guida sicura della Russia nel suo campo prioritario, la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), accelerandone l’integrazione regionale. Per Washington è un effetto perverso non programmato, un errore strategico. Tuttavia, alcuni effetti post-rivoluzionari sono disastrosi per la Russia. Un primo effetto geopolitico della “rivoluzione” di Kiev è l’estensione della sfera euro-atlantica nell’ex-URSS, perpetuando di fatto il declino russo nel suo estero vicino, considerato dalla sua dottrina strategica quale minaccia agli interessi nazionali. Un secondo effetto, più psicologico, di tale curiosa “rivoluzione” è alimentare la paura russa della progressione irresponsabile delle infrastrutture di una NATO super-armata nei pressi dei suoi confini che, in ultima analisi, solleva la questione politicamente delicata dello scudo antimissile statunitense. A causa di tale rapido aumento delle minacce, si assiste in Russia al ritorno della “sindrome da fortezza assediata” resuscitata dall’abisso ideologico della guerra fredda. Per la Russia, costretta a rispondere, la crisi ucraina lascerà un segno indelebile nella memoria strategica. e non solo, e nella sua visione dell’occidente. Da questo punto di vista, Majdan segna una rottura geopolitica radicale.
In questo contesto geopolitico sensibile, le “rivoluzioni colorate” sono considerate le principali minacce alla stabilità dei presunti Stati democratici dell’area post-sovietica, in particolare della Russia di Putin strutturalmente presa di mira e che teme una “sceneggiatura ucraina”. L’universalizzazione della democrazia nel mondo con il soft power, o la forza se necessario, sembra essere oggi un “interesse nazionale” degli Stati Uniti e della loro funzione di regolamentazione prioritaria da unica superpotenza legittimata dalla storia. Tale postulato scientificamente (molto) dubbio fu proclamato nel 2000, con euforia condiscendente, dall’ex-segretaria di Stato di George W. Bush Condoleezza Rice, convinta della funzione messianica del suo Paese: “è compito degli USA cambiare il mondo. La costruzione di Stati democratici è ormai componente importante dei nostri interessi nazionali”, una forma di autolegittimazione neo-imperiale in nome, ovviamente, degli ideali democratici, costituendo un’ideologia globalizzatrice espansionista. Preoccupante. Di fronte tali nuove minacce “colorate” gli Stati membri delle strutture politico-militari del Collective Security Treaty Organization (CSTO) e dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) hanno deciso, su impulso della Russia, di coordinarsi per definire una comune strategia di prevenzione. L’obiettivo dichiarato è accomunare regionalmente i vari mezzi per neutralizzare tale nuova arma politica, ora privilegiata dall’occidente, e che si affida sempre più ai colpi di Stato astutamente costruiti. In altre parole, si tratta di aprire un fronte comune eurasiatico contro le future “rivoluzioni” nazional-liberali. Innegabilmente, l’imbroglio ucraino ha promosso tale consapevolezza politica e, quindi, giustifica la guida sicura della Russia nel suo campo prioritario, la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), accelerandone l’integrazione regionale. Per Washington è un effetto perverso non programmato, un errore strategico. Tuttavia, alcuni effetti post-rivoluzionari sono disastrosi per la Russia. Un primo effetto geopolitico della “rivoluzione” di Kiev è l’estensione della sfera euro-atlantica nell’ex-URSS, perpetuando di fatto il declino russo nel suo estero vicino, considerato dalla sua dottrina strategica quale minaccia agli interessi nazionali. Un secondo effetto, più psicologico, di tale curiosa “rivoluzione” è alimentare la paura russa della progressione irresponsabile delle infrastrutture di una NATO super-armata nei pressi dei suoi confini che, in ultima analisi, solleva la questione politicamente delicata dello scudo antimissile statunitense. A causa di tale rapido aumento delle minacce, si assiste in Russia al ritorno della “sindrome da fortezza assediata” resuscitata dall’abisso ideologico della guerra fredda. Per la Russia, costretta a rispondere, la crisi ucraina lascerà un segno indelebile nella memoria strategica. e non solo, e nella sua visione dell’occidente. Da questo punto di vista, Majdan segna una rottura geopolitica radicale.
La reazione difensiva russa tramite l’asse eurasiatico
Diffusa dalla propaganda mediatica sulla “minaccia russa” e illustrata da crescenti sanzioni, la strategia anti-russa dell’asse euro-atlantico accelera il mutamento asiatico nella politica russa e favorisce l’ascesa dell’asse eurasiatico sotto la direzione sino-russa, a nuovo contrappeso geopolitico all’egemonia statunitense. Nel lungo termine, tale ostilità occidentale incoraggerà il governo russo a potenziare il proprio sviluppo, riflesso sovietico, riducendone la dipendenza estera. Nel prisma sovietico-russo, tale dipendenza è vista come debolezza politica, in quanto i potenziali avversari possono usarla come opportunità strategica: rafforzando la pressione su Mosca, isolandola sul piano commerciale attraverso un embargo selettivo su tecnologie sensibili. L’obiettivo finale dell’embargo è rallentare lo sviluppo della Russia e, attraverso ciò, il rafforzamento della potenza militare, come ai bei vecchi tempi della lotta anticomunista. Tale modello negativo è aggravato dalla caduta del rublo con consecutivo triplice impatto di sanzioni, fuga di capitali e crollo dei prezzi del petrolio manipolato da Washington, con l’obiettivo di destabilizzare Putin fomentando una recessione economica che alimenti la protesta popolare, potenzialmente “rivoluzionaria”. Tutti i colpi sono ammessi sulla Grande Scacchiera. Nella percezione strategica russa e, nella misura in cui Mosca viene stigmatizzata come “nemica dell’occidente” erede dell’asse del male, la crisi ucraina mostra ancora uno spirito da guerra fredda. In realtà, tale guerra latente continua, nonostante la breve luna di miele USA-Russia osservata dopo la tragedia dell’11 settembre 2001. Dopo la mano tesa di Putin a Bush e la disponibilità a collaborare nella lotta al terrorismo. L’atteggiamento minaccioso e provocatorio dell’occidente nella gestione di tale crisi, è divenuta rapidamente una diatriba anti-Putin, portando alla rinascita politica della NATO, legittimandone l’estensione e infine costringendo Mosca a cambiare linea strategica. Sottoprodotto geopolitico di Euromajdan.
Diffusa dalla propaganda mediatica sulla “minaccia russa” e illustrata da crescenti sanzioni, la strategia anti-russa dell’asse euro-atlantico accelera il mutamento asiatico nella politica russa e favorisce l’ascesa dell’asse eurasiatico sotto la direzione sino-russa, a nuovo contrappeso geopolitico all’egemonia statunitense. Nel lungo termine, tale ostilità occidentale incoraggerà il governo russo a potenziare il proprio sviluppo, riflesso sovietico, riducendone la dipendenza estera. Nel prisma sovietico-russo, tale dipendenza è vista come debolezza politica, in quanto i potenziali avversari possono usarla come opportunità strategica: rafforzando la pressione su Mosca, isolandola sul piano commerciale attraverso un embargo selettivo su tecnologie sensibili. L’obiettivo finale dell’embargo è rallentare lo sviluppo della Russia e, attraverso ciò, il rafforzamento della potenza militare, come ai bei vecchi tempi della lotta anticomunista. Tale modello negativo è aggravato dalla caduta del rublo con consecutivo triplice impatto di sanzioni, fuga di capitali e crollo dei prezzi del petrolio manipolato da Washington, con l’obiettivo di destabilizzare Putin fomentando una recessione economica che alimenti la protesta popolare, potenzialmente “rivoluzionaria”. Tutti i colpi sono ammessi sulla Grande Scacchiera. Nella percezione strategica russa e, nella misura in cui Mosca viene stigmatizzata come “nemica dell’occidente” erede dell’asse del male, la crisi ucraina mostra ancora uno spirito da guerra fredda. In realtà, tale guerra latente continua, nonostante la breve luna di miele USA-Russia osservata dopo la tragedia dell’11 settembre 2001. Dopo la mano tesa di Putin a Bush e la disponibilità a collaborare nella lotta al terrorismo. L’atteggiamento minaccioso e provocatorio dell’occidente nella gestione di tale crisi, è divenuta rapidamente una diatriba anti-Putin, portando alla rinascita politica della NATO, legittimandone l’estensione e infine costringendo Mosca a cambiare linea strategica. Sottoprodotto geopolitico di Euromajdan.
Dopo la provocazione della NATO, il reindirizzo dottrinale russo
Con la voce del capo della diplomazia Sergej Lavrov, la Russia ha reagito con forza e condannato tale errore increscioso, il 27 settembre 2014: “Considero un errore l’allargamento dell’alleanza. Ed è anche una sfida (…)“. Pertanto, reagendo a tali “nuove minacce”, l’amministrazione russa ha programmato un radicale inasprimento della propria dottrina militare in senso più antioccidentale, in ciò che Mosca ha chiamato “risposta giusta”. Per attuare tale reindirizzo dottrinale, “(…) La Russia ha bisogno di potenti forze armate in grado di affrontare le sfide di oggi“, e un incremento assai significativo (un terzo) delle spese militari russe è in programma nel 2015, secondo la finanziaria. De facto, l’idea di un riequilibrio geo-strategico si gioca nel cuore del conflitto ucraino e, per estensione, nel cuore dell’Eurasia post-comunista. Con risultato finale, l’emergere di un conflitto congelato potenzialmente destabilizzante per la regione. Alla fine, nel quadro della crisi in Ucraina e nonostante gli accordi di Minsk del 5 settembre, l’esacerbazione della contrapposizione Stati Uniti e Russia alimenta una rinnovata forma di guerra fredda, la guerra tiepida incentrata sulla rinascita della polarizzazione ideologica. Oramai ciò nutre il contagio globale delle “rivoluzioni” nazional-liberali eterodirette dalla coscienza democratica indottrinata degli USA, per conto della loro legittimità storica radicata nella vittoria finale sul comunismo. Nel suo discorso annuale, molto aggressivo, del 4 dicembre 2014, al parlamento russo, Putin ha denunciato tale pericolosa deriva la cui conseguenza inquietante è l’accelerazione della nascita dell’ideologia neonazista nello spazio post-sovietico, anche in Ucraina. Il 29 gennaio 2015, Mikhail Gorbaciov ha riconosciuto che l’irresponsabilità della strategia degli Stati Uniti ha portato la Russia nella “nuova guerra fredda”. Confessione terribile. Le implicazioni strategiche della falsa rivoluzione di Majdan sono una vera bomba geopolitica a scoppio ritardato.
Con la voce del capo della diplomazia Sergej Lavrov, la Russia ha reagito con forza e condannato tale errore increscioso, il 27 settembre 2014: “Considero un errore l’allargamento dell’alleanza. Ed è anche una sfida (…)“. Pertanto, reagendo a tali “nuove minacce”, l’amministrazione russa ha programmato un radicale inasprimento della propria dottrina militare in senso più antioccidentale, in ciò che Mosca ha chiamato “risposta giusta”. Per attuare tale reindirizzo dottrinale, “(…) La Russia ha bisogno di potenti forze armate in grado di affrontare le sfide di oggi“, e un incremento assai significativo (un terzo) delle spese militari russe è in programma nel 2015, secondo la finanziaria. De facto, l’idea di un riequilibrio geo-strategico si gioca nel cuore del conflitto ucraino e, per estensione, nel cuore dell’Eurasia post-comunista. Con risultato finale, l’emergere di un conflitto congelato potenzialmente destabilizzante per la regione. Alla fine, nel quadro della crisi in Ucraina e nonostante gli accordi di Minsk del 5 settembre, l’esacerbazione della contrapposizione Stati Uniti e Russia alimenta una rinnovata forma di guerra fredda, la guerra tiepida incentrata sulla rinascita della polarizzazione ideologica. Oramai ciò nutre il contagio globale delle “rivoluzioni” nazional-liberali eterodirette dalla coscienza democratica indottrinata degli USA, per conto della loro legittimità storica radicata nella vittoria finale sul comunismo. Nel suo discorso annuale, molto aggressivo, del 4 dicembre 2014, al parlamento russo, Putin ha denunciato tale pericolosa deriva la cui conseguenza inquietante è l’accelerazione della nascita dell’ideologia neonazista nello spazio post-sovietico, anche in Ucraina. Il 29 gennaio 2015, Mikhail Gorbaciov ha riconosciuto che l’irresponsabilità della strategia degli Stati Uniti ha portato la Russia nella “nuova guerra fredda”. Confessione terribile. Le implicazioni strategiche della falsa rivoluzione di Majdan sono una vera bomba geopolitica a scoppio ritardato.
fonte: https://aurorasito.wordpress.com
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