Roma, 31 ott – Ieri si è tenuta la visita ufficiale in India del premier italiano Paolo Gentiloni, dopo dieci anni di assenza di Presidenti del Consiglio italiani a Nuova Delhi. Ufficialmente per riaprire la crescita dei rapporti commerciali Italia-India ma che non potrà esimersi dal cercare una soluzione alla spinosa vicenda dei due Marò italiani
su cui pende una decisione della Corte Arbitrale de L’Aia. Appare
quindi giustificato ritornare sull’argomento perché sulla vicenda stessa
è intervenuta pesantemente l’opinione pubblica italiana, attraverso i
tanti gruppi di sostegno alla causa dei due militari italiani
ingiustamente accusati della morte di due pescatori indiani.
Sabato 7 ottobre si è svolta a Roma sotto la maestosa mole di Castel Sant’Angelo una riunione in rappresentanza degli attivisti sul caso Marò
provenienti da tutta Italia. Il luogo è evocativo sia perché Castel
Sant’Angelo fu luogo “di Giustizia” (vi si facevano le esecuzioni
capitali) sia luogo di “malagiustizia” (vi fu imprigionato Galileo Galilei in attesa del famoso processo da cui fu definitivamente scagionato solo quattro secoli dopo).
La riunione è stata occasione, al di la dell’aspetto piacevole e conviviale, di fare il punto della situazione e di come agire in vista del processo che si terrà nel 2018 presso il Tribunale Arbitrale de L’Aia, che su incarico del Tribunale Internazionale su Diritto del Mare di Amburgo deve dirimere la controversia fra Italia e India su quale dei due paesi abbia il diritto a processare i due militari italiani, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre,
accusati in India di aver causato la morte di due pescatori durante un
servizio di protezione sulla petroliera Enrica Lexie, servizio svolto
nell’ambito di una missione europea antipirateria denominata Atalanta.
Potrebbe sembrare stravagante che di fronte all’operare di prestigiose
istituzioni internazionali un gruppo di privati si interroghi su “cosa
fare”, ma ce ne sono tutte le ragioni e il gruppo di “privati”
interpreta i sentimenti di almeno 150.000 cittadini italiani che a vario
titolo e impegno sono entrati a far parte dei gruppi “prò-Marò” che
sono nati in tutta Italia.
Il “cosa fare” è richiamato dalla eventualità che il
Tribunale Arbitrale de L’Aia potrebbe sentenziare a fine 2018, sulla
base di considerazioni giuridiche di Diritto del Mare, di assegnare all’India la celebrazione del processo contro i due
(che attualmente sono in Italia proprio su disposizione de L’Aia), e
questo andrà contrastato “prima” di questa eventuale sentenza in base a
considerazioni oggettive che andrò ad esporre.
La vicenda nasce male a febbraio 2012 con
l’incidente fra la Enrica Lexie e una imbarcazione mai identificata in
acque internazionali, con la nave italiana richiamata nel porto dalle
autorità del Kerala con una sorta di “inganno” avallato dalle autorità italiane, l’arresto dei due accusati, e così via. Si va avanti anni mentre le autorità e i media indiani continuano a indicare sulla “colpevolezza”,
ripresa acriticamente da gran parte dei media italiani, non depositano
nessuna accusa formale e lasciano secretati gli atti giudiziari anche
agli avvocati difensori. Ed è quindi fin dal 2012 che si cominciano a formare i gruppi “pro-Marò”
fra chi si rende conto della situazione in polemica coi “colpevolisti a
prescindere” che sorvolano allegramente sulla secretazione degli atti
giudiziari, l’assenza dei capi di imputazione, e le evidenze tecniche
che si vanno svelando sul fatto che i due militari italiani con la morte
dei due pescatori a bordo del peschereccio St. Antony proprio non
c’entrano niente.
La situazione si sblocca nel 2015 quando il governo italiano a guida di Matteo Renzi
(e probabilmente del suo Ministro degli Esteri e attuale PdC Paolo
Gentiloni, diamo a Cesare quel che è di Cesare) rompe gli indugi e porta la controversia al Tribunale Internazionale su Diritto del Mare di Amburgo. In
questa sede la parte indiana presenta uno sproloquio colpevolista e
offensivo per l’Italia, scrive il suo rappresentante ufficiale Dr.
Neerhu Chadha: “In many passages, Italy endeavours to elicit compassion”
(in molti passaggi, l’Italia si adopera per suscitare compassione). E
poi ci aggiunge che “le restrizioni alla libertà di Girone sono molto
indulgenti per un individuo che, non può essere contestato, ha sparato e
ucciso due pescatori disarmati”. Ma la Republic of India a supporto ci allega proprio i documenti giudiziari “secretati”
per cui il sottoscritto ad agosto 2015, in omaggio al principio che
tutto quello che entra in un Tribunale deve essere pubblico, chiede
questi documenti ad Amburgo che giustamente li concede, e vien fuori la
“Verità”. Sono gli stessi documenti giudiziari indiani a scagionare i due accusati,
le autorità indiane del Kerala lo sapevano fin dal giorno successivo ai
fatti dalle autopsie, ma hanno montato un caso mediatico sulla
colpevolezza con falsi pescherecci portati sotto la murata della Enrica
Lexie, stravaganti “perizie balistiche” che invece che dimostrare la colpevolezza dimostrano l’innocenza,
le autopsie che certificano i proiettili non essere del calibro in
dotazione ai due accusati, lo “ignore” sulle dichiarazioni del capopesca
dove testimonia di fronte a telecamere e concittadini che la sparatoria
è avvenuta alle 9:30 di sera e non alle 16:30, e così via.
E i documenti giudiziari depositati a Amburgo di lì non li
toglie più nessuno. I fatti sono talmente evidenti che il 16 aprile
2016 di fronte a una commissione Ue sono bastati cinque minuti di esposizione per determinare una azione “della Ue” nei confronti dell’India. Ora siamo daccapo: il Tribunale dell’Aia tiene secretati i documenti depositati dalle due parti e
non possiamo sapere se l’India ha depositato “un’altra” perizia
ballistica, “un’altra” autopsia, e così via. E’ nostro diritto di
opinione pubblica avere accesso a tutto. Ma la questione ormai è
un’altra: in caso di sentenza a favore dell’India questa non potrà garantire sulla vicenda un “giusto processo”,
troppe sono le magagne ormai dimostrate sulla montatura che le autorità
del Kerala hanno messo in atto, e riprese dal governo centrale al
Tribunale di Amburgo. E le leggi europee obbligano che chiunque abbia
diritto a un “giusto processo (art. 6 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), che si esplica attraverso la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) con sede a Strasburgo, dove risiedono i giudici di ognuno dei 47 paesi aderenti al Consiglio d’Europa.
Quindi nella “Riunione di Castel Sant’Angelo” si è presa una doppia decisione.
– Nominare due rappresentanti, italiano e indiano, che
rappresentino ai rispettivi governi di chiudere definitivamente la
vicenda in nome della “Ragion di Stato”, per il superiore interesse di
entrambi al mantenimento dei buoni rapporti internazionali. Non c’è ragione di alimentare una controversia con l’India con la quale l’Italia è sempre stata in pace, per giunta su una vicenda in cui le due parti sono ormai consapevoli che i due accusati sono innocenti per le accuse mosse.
Si deve chiudere totalmente e definitivamente la vicenda,
senza strascichi di nessun tipo: è diritto di ogni magistratura
prosciogliere in istruttoria un accusato per manifesta inconsistenza
delle accuse.
– Parallelamente iniziare le procedure per presentare un ricorso al CEDU per impedire che i due accusati siano comunque riconsegnati all’India,
dimostrando che questa non è in grado di garantire il giusto processo,
come richiesto dalle 47 nazioni aderenti al Consiglio d’Europa.
E questo lo faremo “prima” che la Corte Arbitrale dell’Aia
inizi le udienze, se nel frattempo non si abbia una soluzione in base
alla Ragion di Stato. Gli esperti sono già al lavoro.
Altrimenti non potremo far altro che riprendere
l’operazione di sensibilizzazione dell’opinione pubblica italiana e
internazionale già fatta efficacemente a gennaio/marzo 2017 sulle
Ragioni dell’Innocenza, chiedendo udienza in tutte le sedi possibili e
premendo affinché i rapporti commerciali con l’India siano fermati.
(http://www.italianmarines.net/)
Luigi Di Stefano - 31 ottobre 2017
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