Un quadro sconfortante del degrado, dissoluzione e scomparsa della nostra identità nel gran calderone della globalizzazione forzata. Il paesaggio con rovine non è soltanto intorno a noi è dentro ciascuno di noi di Francesco Lamendola
Paesaggio con rovine
di
Francesco Lamendola
Un
caro amico di ritorno da Parigi, città nella quale manchiamo da molti
anni, ci ha fatto un quadro sconfortante del degrado e della
dissoluzione della douce France, della scomparsa della sua
identità nel gran calderone della globalizzazione forzata. Non solo
nelle periferie, ma anche nei quartieri storici, come Montmartre, si
vede ormai un francese, anzi, un bianco, ogni dieci, ogni venti persone;
e questi stranieri parlano nella loro lingua, vestono alla loro foggia,
hanno i loro negozi, vivono una vita parallela e assolutamente non
integrata con quella dei parigini. Di più: non mostrano alcun desiderio,
alcun interesse ad integrarsi. Non amano la Francia, né la civiltà
europea: anche dopo due, tre generazioni, non si considerano francesi,
né europei, anche se sulla carta d’identità sta scritto che sono
cittadini francesi. Senza dubbio avvertono che, nel giro di pochi anni,
avranno preso il sopravvento, grazie alla prolificità delle loro donne,
come aveva profetizzato l’algerino Boumedienne e come ha ribadito,
appena l’altro ieri, il turco Erdogan; mentre gli europei non han di
meglio da fare che escogitare delle leggi mediante le quali sia sempre
più facile separarsi, divorziare, abortire, ottenere figli con la
fecondazione artificiale, cambiare sesso, veder riconosciuto il diritto
all’eutanasia per sé e per i propri bambini. Al nostro suicidio
biologico si contrappone l’incessante crescita demografica degli
stranieri immigrati in Europa: e non è necessario essere degli esperti
di matematica o di proiezioni demografiche per capire cosa ciò
significhi.
D’altra
parte, il nostro suicidio biologico ha inizio da lontano ed è parte di
un fenomeno più vasto, fatto di tutta una serie di complessi, rimorsi,
paure, frustrazioni, amarezze, sconfitte, alimentate ad arte e gonfiate
al massimo, ottenendo l’effetto di paralizzare la nostra volontà e di
alimentare una contro-cultura che esalta il disordine, la negatività, il
pessimismo, il relativismo, l’incomunicabilità, il nichilismo,
l’edonismo bestiale, il materialismo esasperato, ogni sorta di
degenerazioni e di vizi, e, da ultimo, la morte. Abbiamo coltivato il
nulla e abbiamo acclamato i maestri del nulla, a lungo, con
convinzione, con ostinazione: ora raccogliamo i frutti disastrosi di
questa contro-educazione, di questa voluttà di disfacimento e di morte.
Ecco: l’Europa, oggi, anzi, tutto l’Occidente, non è altro che un
lugubre, desolato, allucinante paesaggio con rovine, nel quale noi ci
aggiriamo stralunati e inebetiti, simili a dei morti viventi dopo una
catastrofe inimmaginabile. La città consumista è il nostro cimitero e
noi siamo gli zombie del cosiddetto benessere, sopravvissuti a
noi stessi, vergognosi di mostrarci per quello che siamo diventati,
eredi degenerati di una forte e sana razza di lavoratori, di padri e di
madri capaci di altruismo e abnegazione, di lavoratori con il culto
dell’onestà, di cristiani che prendevamo sul serio le cose di Dio.
Paesaggio con rovine è
il titolo di uno dei libri di Piero Buscaroli: una straordinaria figura
di musicologo, giornalista, studioso eclettico e versatile, che è
venuto a mancare, nel silenzio assordante della cultura politically correct, il
15 febbraio di un anno fa: troppo "di destra" per meritare una parola
di stima, se non di affetto, lui che, fra le altre cose, aveva fatto
conoscere in Italia autori pressoché ignoti, come il romeno Vintila
Horia, e che aveva scritto una monumentale biografia di Bach (oltre
1.200 pagine) andata a ruba negli Oscar Mondadori. Nulla di nuovo, del
resto: i salotti buoni della cultura italiana, da sempre, sono monopolio
esclusivo della sinistra, e quindi le lodi sperticate che vi si riserva
all'ultimo scalzacane che invoca la dignità del matrimonio omosessuale,
il diritto all'eutanasia, l'accoglienza indiscriminata verso i poveri
"profughi” che non sono poi neanche tali, con l'obiettivo neppure
nascosto di usufruire dei loro voti, quando avranno ottenuto la
cittadinanza, si accompagnano all'insindacabile diritto di decretare
l'ostracismo, e poi l'oblio, a quanti non si allineano ai suoi dogmi;
perciò il trattamento riservato a Buscaroli non deve stupire, e infatti
non stupisce nessuno. Stupirebbe, o peggio, se vivessimo in un Paese
normale: invece viviamo in un Paese dove la cultura è fatta da una casta
d'intellettuali che si credono all'avanguardia e sanno solo puntare il
ditino contro quelli che a loro non piacciono, senza accorgersi di avere
accumulato un ritardo storico di almeno quaranta o cinquant'anni. Sono
rimasti a Gramsci e a Gobetti, a don Milani e a Pasolini, loro che hanno
dato l'ostracismo a Eugenio Corti, a Buscaroli, a Marcello Veneziani e
specialmente a Maurizio Blondet; loro che preferiscono i lazzi di Dario
Fo alla pensosità di Ezra Pound, che hanno ammirato Moravia e denigrato
Cassola, che sono andati a lezione da Toni Negri e fatto finta di non
conoscere Evola (pur leggendolo di nascosto, e rubandogli più di qualche
idea). Loro che, per bocca di Gad Lerner, sanno solo accusare chi, come
Gianfranco De Turris, la pensa in maniera diversa dalla sacra Vulgata
neocomunista, o che, come Erri De Luca, sentenziano che la cultura serve a rendere cosciente dei propri diritti contro gli sfruttatori.
La scuola di don Milani, appunto, o di David Maria Turoldo; e prima
ancora, di Dossetti e di Lazzati: la scuola del cattocomunismo e del
rancore sociale travestito da cattolicesimo.
Ma
attenzione: il paesaggio con rovine non è soltanto intorno a noi, non è
soltanto l’Europa imbruttita e devastata da una omologazione laicista e
da una sostituzione dei popoli senza precedenti; esso è anche, e in
primo luogo, dentro ciascuno di noi. Noi moderni, noi post-cristiani,
non cittadini del terzo millennio chiamati a un bilancio totalmente
fallimentare delle nostre esistenze, della religione dei falsi dèi che
abbiamo adorato e che continuiamo, imperterriti, ad adorare: le
macchine, i solidi, il successo e il piacere, come le bestie. Il nostro
fatale indebolimento parte da lontano e precede di parecchio l’inizio
dell’invasione dei cosiddetti profughi, la quale, peraltro, è stata
accuratamente programmate ed è guidata con criteri quasi scientifici da
quanti, come George Soros, hanno deciso che l’Europa deve cessare di
esistere. Noi non crediamo più in noi stessi, e abbiamo ragione, perché
non c’è motivo di credere nel nulla, anche se quel nulla siamo noi ed è
il nostro mondo. Un mondo ormai fatto solo di cose, di telefonini, di
vestiti firmati, e sempre più povero, sempre più vuoto di affetti, di
valori, di spessore etico.
Allo
stesso tempo stiamo coltivando scrupolosamente i sensi di colpa che ci
tolgono la fierezza e la fiducia nel futuro. Abbiamo deciso di caricarci
sulle spalle la responsabilità per tutti i malanni dell’universo mondo,
e non solo quelli storici, ma anche quelli naturali. Ci sentiamo in
colpa, perché c’è chi vuole farci sentire in colpa. In molte scuola
elementari i bambini vengono istruiti a giocare a pallavolo stando
seduti per terra, per capire cosa vuol dire essere senza gambe, o con
gli occhi bendati, per rendersi conto di cosa significhi essere privi
del senso della vista. Intanto, però – strana contraddizione - degli
“esperti” vengono nelle classi a spiegare che i disabili sono persone
come tutte le altre, e che non c’è nessuna differenza tra l’essere in
carrozzina e camminare sulle proprie gambe. Insomma, chi non è disabile
deve sentirsi in colpa di non esserlo, però la disabilità non esiste, è
un fatto mentale, un pregiudizio, una prepotenza, una forma di razzismo.
Altri “esperti”, provenienti per lo più dalle organizzazioni LGBT,
vengono nelle classi a spiegare che il maschile e il femminile non
esistono, che sono solo un pregiudizio, e che ciò che esiste sono gli
orientamenti sessuali, qualcosa di fluido, di mutevole, che dipende solo
dalla nostra libera scelta, alla quale gli altri si devono inchinare.
In altre parole, chiedere a un bambino come si chiamano la mamma e il
papà e un crimine di tipo razzista, perché disconosce la bellezza di
avere due mamme lesbiche o due papà omosessuali, e nega implicitamente
la bellezza delle famiglie “arcobaleno”, magari arricchite da qualche
bel bambino ordinato su catalogo.
Anche
la nostra religione, o ex religione, ha assunto l’aspetto di un
paesaggio con rovine. C’è stato un tempo - e noi, da bambini, abbiamo
fatto ancora in tempo a viverlo - in cui la religione cattolica
trasfondeva nella società, nelle famiglie e nei singoli individui, un
riflesso d’infinito: leniva le sofferenze e dava loro un significato più
alto; sosteneva le persone nelle fatiche, nelle lotte, nelle delusioni;
chiedeva a ciascuno di dare il meglio di sé, e, se qualcuno non ci
riusciva, lo induceva a farsi delle domande, a mettersi in discussione, e
proporsi di far meglio la prossima volta. In breve, e pur con qualche
limite, che non vogliamo ignorare o minimizzare (una esagerata
sessuofobia, per esempio), l’educazione cristiana e il senso cristiano
della vita conferivano all’esistenza una nota gentile, una tonalità più
dolce e delicata, e vi immettevano un raggio di consolazione e di
speranza. Le persone entravano in chiesa per pregare, per parlare con
Dio, e vi trovavano pace, silenzio, possibilità di raccoglimento;
trovavano una liturgia solenne, una omiletica ispirata alla dottrina
cristiana, che era di aiuto nei casi della vita, e, nello stesso tempo,
non autorizzava a prendersi troppa confidenza con Dio, non disperdeva il
timor di Dio, anzi, ricordava agli uomini la loro piccolezza, la loro
fragilità e la necessità di affidarsi a Dio per trovare ciò che da soli
non possono raggiungere: la verità, la giustizia, l’amore autentico, la
pace.
Nel
cattolicesimo del terzo millennio regnano invece la confusione,
l’agitazione, la smania di abbassare il divino al livello dell’umano, di
togliere il mistero, di spiegare tutto, di promuovere l’uomo da
servitore a padrone, di illuderlo che tutto vada bene purché egli segua
onestamente la propria coscienza: ma lasciando a ogni coscienza la piena
libertà di fare o non fare tutto ciò che le piace, tutto ciò che sembra
vero e giusto e buono e bello, così, a proprio insindacabile giudizio
(infatti è ben noto che i cretini sono scomparsi dalla faccia della
terra, e così pure i delinquenti, ora ci sono solo i geni come
Aristotele, o le persone che vivono una qualche forma di disagio per
colpa della società brutta e cattiva, ma cattive, loro, non lo sono,
anche se hanno accoppato il papà e la mamma a colpi di accetta, per
ereditarne soldi e beni). In breve, siamo nell’era del vangelo secondo me.
L’ultima novità, si fa per dire, è il vangelo secondo Fabrizio De
André: dove tutti vanno in paradiso, senza bisogno di pentimento, e dove
i peccatori verranno prima di tutti gli altri: il che è un deliberato
fraintendimento della parola di Cristo, il quale ha detto, sì, che gli
ultimi saranno i primi e che molti dei primi saranno gli ultimi, ma ha
pure detto che il peccatore deve convertirsi, deve mutar vita, deve
smettere di peccare e non tentare, non stancare la pazienza di Dio e la
sua misericordia; che, se l’occhio, o il piede, o la mano gli sono dio
scandalo, è meglio che se li tagli; che al peccatore contro lo Spirito
Santo non verrà mai perdonato, e che chi scandalizza i piccoli che
credono nel Vangelo, farebbe meglio e legarsi una macina da mulino al
collo, e gettarsi nel mare. I cristiani del V secolo avevano
sant’Agostino come maestro di teologia; quelli del XIII secolo, avevano
san Tommaso d’Aquino; quelli di oggi hanno le canzoni di Fabrizio De
André e le prediche, o piuttosto le concioni, di don Andrea Gallo, ora
pienamente rivalutati e ufficializzati da papa Francesco e da
intellettuali come Franco Cardini. I credenti del XIV secolo avevano
Dante quale massimo cantore della poesia cristiana, noi abbiamo i Promessi Sposi
a fumetti. Essi avevano Giotto per illustrare la storia sacra sulle
pareti delle chiese, i cristiani dei nostri giorni hanno Ricardo
Cinalli, noto artista omosessuale e celebratore della sodomia nel grande
affresco del duomo di Terni, commissionatagli dall’allora vescovo
Vincenzo Paglia. Con un Cristo che porta in cielo tutti quanti, senza
domandar loro il piccolo dettaglio della conversione: li porta
d’ufficio, così, per simpatia, come gli studenti sessantottini volevano,
pretendevano il “sei politico”, così, senz’altra ragione che la
protesta contro l’autoritarismo dei professori. Ecco: anche questo è un
paesaggio con rovine. Le rovine della nostra fede e quelle della nostra
anima.
Sempre
quell’amico ci riferiva di come la cattedrale di Notre-Dame sia
diventata una specie di bazar trafficatissimo, dove non si godono mai
più di cinque minuti di silenzio per pregare: partono continuamente le
voci registrate che invitano i turisti a visitare i “tesori cristiani”. I
quali turisti, senza dubbio, non sanno che la cattedrale non è quella
originale del Medioevo, ma quella rifatta da Viollet-le-Duc, perché i
rivoluzionari del 1789 l’avevano semidistrutta; e nemmeno gli studenti,
del resto, lo sanno. Non viene loro insegnato. Come potrebbe essere
diversamente? Se il 14 luglio è la festa nazionale francese, bisogna
promuovere l’idea che illuminismo e rivoluzione hanno segnato l’inizio
delle magnifiche sorti e progressive. Con la testa del
governatore de Launay portata in giro per le vie di Parigi in cima a una
picca, come farebbe la più sanguinaria tribù di cannibali. Ecco, questa
è la Francia, questa l’Europa odierna, figlia dell’illuminismo e della
rivoluzione. Un’Europa senza identità, perché il passato era il male,
bisognava cancellarlo e riscrivere il presente partendo da zero, da una
pagina bianca. La pagina bianca era quella della Ragione. Ora vediamo
dove ci ha portati quella Ragione: una ragione libera spregiudicata,
senza Dio e senza gratitudine per gli avi. Ci ha portati a magnificare
l’amore omosessuale, a celebrarne la superiorità su quello
eterosessuale, perché più puro e disinteressato, come affermava Umberto
Veronesi; mentre gl’immigrati africani e islamici stanno facendo figli,
nelle nostre città e nei nostri paesi, ad un ritmo tale che, assai
presto, ne saremmo sommersi. È razzismo, dire queste cose? Secondo Nichi
Vendola o la signora Boldrini, sì. Se, dunque, questa è la situazione,
che cosa possiamo fare? Non molto, onestamente. Possiamo scegliere di
mutar rotta, di cambiare il nostro stile di vita. Forse è già tardi.
Possiamo però pregare...
Francesco Lamendola
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