A chi interessa la giungla libica,
divisa e percorsa da guerre intestine, con due governi, che però non
spaventa tanto quanto attira il suo petrolio? La risposta è: a tanti.
All’Italia, che con la Libia ha un rapporto particolare (contiamo tanto da suscitare fastidio tra gli alleati europei), alla Francia, alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti.
E poi al mondo arabo, all’Egitto, e al Qatar e agli Emirati, che
giocano a Risiko coi loro soldi e i morti degli altri. Roma intrattiene
rapporti con Tripoli da sempre, e le relazioni si sono intensificate dal
1988, quando tra la Libia e l’Occidente calò il gelo dopo
l’abbattimento del volo Pan Am sui cieli della Scozia. L’Italia è
rimasta costantemente legata alla nazione nordafricana, per retaggio coloniale e per interessi strategici, ben curati dal triangolo Eni, Enel e Saipem.
Al contrario di quel che si pensa, l’Italia sa che cosa accade in
Libia, molto meglio d’altri. Gli uomini dei servizi, che proteggono i
lavoratori italiani sul terreno libico, svolgono una vitale azione
d’intelligence per il nostro Paese. L’attuale capo dei servizi segreti
della Repubblica italiana, Alberto Manenti, in Libia ci è nato.
La Libia è una miniera d’oro, che sforna il 38% del petrolio dell’Africa, che corrisponde all’11% dei consumi europei.
A estrarre questo petrolio, a largo di Zuwarah, nell’est del Paese, c’è
solo Eni. E questo agli alleati europei non va affatto bene. Non
aggrada alla Francia, che ha avviato una conquista un po’ velata, quasi
segreta, con le sue truppe speciali sul territorio libico da mesi, come
ha rivelato Le Monde la scorsa settimana, suscitando l’ira dei
vertici della difesa. In realtà, l’invidia d’oltralpe per la capillare e
storica presenza italiana sul territorio libico è nota. Da quando Gheddafi
impiantò la sua tenda nel cortile dell’Eliseo, nell’inverno 2007, sino
al fragoroso intervento di Sarkozy, appoggiato da Cameron, il 19 marzo
2011, il passo è breve. E ora sappiamo, grazie alle prove emerse dal
server dell’account mail dell’ex Segretario di Stato Hillary Clinton,
che cos’accadde davvero. Sarkozy inviò i suoi Rafale in Libia, senza
neanche farci una telefonata, perché era intenzione di Gheddafi
istituire una nuova valuta panafricana
per tutti gli Stati filo-francesi del Sahel, compromettendo così
Parigi, dove le ex colonie detengono il 65% delle loro riserve
valutarie. Insomma ognuno fa i suoi interessi in Libia,
da anni. Ma quel che si profila all’orizzonte per l’Italia ha tutta
l’aria d’essere un “andate avanti voi”, una spinta, un incoraggiamento
dietro le quinte. La conferma è la quantomeno inopportuna intervista
dell’ambasciatore USA in Italia pubblicata dal Corriere della Sera.
Phillips parla di un invio di 5 mila uomini italiani sul terreno. Frasi
smentite da Palazzo Chigi, per quel che può contare. Ma la tendenza
c’è, il terreno è pronto, e la Tripolitania ci aspetta.
Con le sue ricchezze energetiche la Libia vale 130 miliardi di dollari
ora, e tre o quattro volte di più se tornasse ai livelli dell’èra
Gheddafi, quando aveva l’indice di sviluppo umano ONU più alto di tutta
l’Africa. È comprensibile che Francia e Gran Bretagna non vogliano
lasciare tutto a noi. Per questo sono già sul terreno, la Gran Bretagna in Cirenaica e la Francia nel Fezzan, parte del suo Sahel, da mesi con truppe speciali e in gran segreto.
Ci aspettano, perché non vogliono certo fare il lavoro sporco da sole.
Il progetto è delineato, si punta alla creazione di uno Stato confederale, fatto dalle tre principali regioni divise tra Italia, Gran Bretagna e Francia,
per spartirsi il controllo sulle risorse energetiche e lo spazio
geopolitico. A noi la Tripolitania, agli inglesi la Cirenaica e ai
francesi, naturalmente, il Fezzan. Nei pozzi, insieme all’Eni, la
Francia vuole Total, Londra invece BP e Shell. (Fonte cartina: Il Sole 24ore).
Nel frattempo, il mondo arabo gioca la sua partita. Al-Sissi supporta il generale Haftar,
padre padrone della Libia orientale, rappresentante del governo di
Tobruk (internazionalmente riconosciuto) ed ex condottiero di Gheddafi
in Africa. Oltre al Cairo c’è il Qatar, che incanta coi suoi dollari gli islamisti di Tripoli, e gli Emirati,
che hanno comprato l’appoggio dell’inviato ONU Bernardino Léon verso il
governo di Tobruk. Questo disegno complicato, cui si aggiunge la Turchia,
che dalla Siria ha rimandato i jihadisti in Libia, non tiene conto di
diversi fattori. Primo, i libici. Il popolo libico è fatto di tribù,
uomini che si combattono tra loro strenuamente, ma che impiegherebbero
un secondo a rivoltarsi contro qualsiasi potenza straniera che tenti
d’impossessarsi delle loro ricchezze. Secondo, l’ISIS.
Il Califfato sguazza nel pantano libico, guadagna terreno alle porte
dell’Europa, combatte contro una stremata ma gloriosa Tunisia, che
difende in queste ore la sua democrazia a Ben Guerdane, ultima città
prima dell’inferno libico. Terzo fattore, ma non meno importante, gli
altri attori regionali. Oltre alla Tunisia, ci sono l’Algeria, il Marocco e gli altri Stati del Sahel.
L’ex colonia francese, guidata dall’ottuagenario presidente Bouteflika,
può saltare da un momento all’altro sotto le pressioni dell’instabile
vicino libico. Non coinvolgere il Marocco in un’eventuale risoluzione del conflitto libico sarebbe poco saggio.
Da ultimo, gli Stati dell’area del
Sahara sono estremamente instabili; una divisione della Libia in tre
regioni provocherebbe implicite alleanze tra queste e le nazioni vicine,
per motivi di protezione. Un Fezzan allo sbaraglio, anche se pieno di
truppe francesi, è il più potenziale bacino di sfogo per Boko Haram,
che aumenta la sua mortale presenza in Niger, con cui la regione del
Fezzan confina. I disegni di spartizione porterebbero sì al quadruplo
delle ricchezze d’ora in Libia, ma anche a un canale privilegiato del
terrorismo, una fascia diretta che viaggia nel deserto, tra Califfato
nero a jihadisti del Sahel. Non si può concepire scenario peggiore.
Tutto questo non significa che l’Italia,
attore con interessi strategici enormi in Libia, tanto quanto la sua
esposizione al pericolo terrorismo, debba stare ferma a guardare. L’abbiamo fatto nel 2011, e non è andata bene.
Un qualsiasi intervento dovrà essere estremamente ponderato, valutato
nei suoi costi, pensato nel suo significato, concordato con le Nazioni
Unite e con interlocutori ufficiali in Libia. Dobbiamo difendere i
nostri interessi, i nostri connazionali (basti pensare ciò che è
successo a due di loro pochi giorni fa) e soprattutto il Paese, esposto
enormemente al jihadismo attraverso le migrazioni dalla Libia. Però non bisogna cadere nella trappola (perché tale è) dell’invio di truppe da soli, allo sbaraglio, con Parigi e Londra che guardano da altre sponde.
La Libia non è la Siria.
Lì ognuno combatte per un ideale, chi per l’ipotetica gloria del suo
Dio, chi per un’agognata rivoluzione, chi per Assad. In Libia non c’è
ideale, c’è l’inferno, il caos delle fazioni, che trovano ragione delle
loro lotte solo nella ricchezza che quell’oro nero, che sgorga dai
deserti bollenti, gli dona.
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