L’amore-è-amore è la foglia di fico con cui il Principe ha scelto di patrocinare l’agenda lgbt nei tribunali
All’indomani della sentenza con cui nel giugno del 2015 la Corte Suprema americana legittimò in nome dell’uguaglianza il matrimonio tra persone dello stesso sesso e, dunque, come scrisse la dissenting opinion dei giudici contrari, con un solo voto si stravolse un’istituzione millenaria (la sentenza infatti passò per un solo voto favorevole, 5 a 4; «e chi siamo noi per farlo?» commentò John G. Roberts), Gianni Vattimo salì in cattedra e confidò al Foglio il senso anche filosofico del suo personale entusiasmo: «Finalmente voi conservatori dovete accettare che non esiste alcuna legge naturale, ma soltanto il positivismo».
Già in questa dichiarazione si capisce perché le lobby lgbt abbiano scelto e scelgano di portare avanti la loro agenda nei tribunali piuttosto che nel campo aperto del confronto democratico. In una democrazia sana, dove funziona il principio della divisione e del bilanciamento dei poteri e dove le magistrature sono soltanto uno dei poteri (quello che amministra le leggi), a parlamento e governo spettano il compito, in rappresentanza della sovranità popolare, di fare le leggi. Chiaro che se i poteri si sovrappongono, si confondono e l’uno prende il sopravvento sull’altro, la democrazia può decadere in un governo autoritario o in una repubblica giudiziaria.
Quest’ultima è la situazione in cui la democrazia italiana si è sviluppata (o si è involuta) negli ultimi vent’anni. Tant’è che, già all’indomani dell’approvazione in Senato della controversa legge sulle unioni civili, apparentemente risoltasi con lo stralcio delle adozioni gay, i tribunali hanno immediatamente iniziato a sentenziare a favore delle adozioni gay. Niente di nuovo, visto che la sovrapposizone e confusione tra potere legislativo e funzione giudiziaria è ormai una consuetudine. Così come è consuetudine che la funzione non elettiva della magistratura sia prevalente rispetto alla democrazia che si esprime attraverso le leggi del parlamento e del governo eletti dal popolo.
Anche a riguardo della questione dei cosiddetti “diritti gay”, come aveva già capito Vattimo in tripudio al Foglio, le cose stanno procedendo lungo la deriva dell’imposizione per via giudiziaria “positivista”. E ciò avviene grazie soprattutto a quella parte politica che, rinunciando alle proprie prerogative o, meglio, concertando soluzioni extralegem con quella parte di magistratura politicamente a sé affine, ha scelto di delegare ai giudici le proprie prerogative. Non a caso, le cose sono andate così anche negli Stati Uniti di Barack Obama. Con un’unica differenza: negli Stati Uniti è il Principe che comanda. Ricordiamo brevemente come in soli otto anni la lobby lgbt americana abbia conseguito tutti gli obbiettivi che aveva in agenda. Matrimoni, adozioni e uteri in affitto.
È a cominciare dal 2008, quando Obama viene eletto alla Casa Bianca per il suo primo mandato presidenziale, che le Corti americane cominciano ad abbracciare l’agenda presidenziale e a negare al popolo la possibilità di esprimersi in materia di “matrimonio gay”. E con quale argomento le Corti cominciano a impedire che si svolgano negli stati americani referendum come quello che si svolse in California, uno degli stati più liberal e che, nonostante ciò, nel novembre 2008, si espresse a larga maggioranza contro i matrimoni tra persone dello stesso sesso?
L’argomento, paradossalmente, è di tipo “ratzingeriano” se ci permettete il paragone ardito. E cominciò a illustrarlo il giudice distrettuale Vaughn Walker, quando nel 2010, due anni prima di rivelare la propria appartenenza alla comunità gay, annullò con una sentenza il referendum del 2008 dichiarandolo “incostituzionale” in quanto «nega ai gay e alle lesbiche i loro diritti». Nella sentenza Walker c’è già in nuce il pronunciamento della Corte Suprema del 2015, ultimo e definitivo sigillo alle molteplici sentenze con cui Corti locali e federali hanno supportato l’agenda politica pro lgbt degli otto anni di presidenza Obama.
Da quale assunto Obama muove la sua battaglia per il “matrimonio egualitario” e le lobby amiche del presidente premono sulle Corti?
Dall’assunto secondo cui il “matrimonio gay” è un “principio non negoziabile”. E perché non è negoziabile, ed è quindi un “diritto umano fondamentale” che non si può esporre alla consultazione popolare? Perché “l’amore-è-amore” (LovIsLove).
In realtà l’amore-è-amore è la foglia di fico con cui il Principe ha scelto di patrocinare l’agenda lgbt nei tribunali per non voler affrontare (rischiando la sconfitta) la diritta via della democrazia e della consultazione popolare. È il puro ed esclusivo “Potere” (non la ragione, gli argomenti, il dibattito, il confronto, la democrazia, la volontà del popolo eccetera) che ha imposto e impone l’agenda gay.
Ritorniamo a Vattimo. Cos’è il positivismo di cui il filosofo notoriamente di sinistra va entusiasta? In cosa consiste essenzialmente il positivismo giuridico? Per rispondere a questa domanda basta chiedere a Hans Kelsen, che agli inizi del secolo scorso fu caposcuola e massimo esponente del positivismo giuridico. Ebbene, alla domanda su quale sia il contenuto essenziale, la pietra angolare, del positivismo applicato alla giurisprudenza, Kelsen risponde: «Il Potere».
Vale la pena di leggere per intero la frase in cui il Kelsen risponde anzitutto a se stesso, in una lezione del lontano 1926, alla questione sulla differenza tra approccio giusnaturalistico e positivismo giuridico. Scrive Kelsen:
«La questione che occupa il diritto naturale è l’eterno problema di che cosa si celi dietro il diritto positivo. Ma chi cerca una risposta trova, temo, non la verità assoluta d’una metafisica o l’assoluta giustizia di un diritto naturale. Chi solleva il velo e non chiude gli occhi incrocerà lo sguardo fisso della testa di Gorgone del Potere».A differenza dell’entusiasmo di Vattimo, è evidente che in Kelsen troviamo un fondo amaro. Nessun tripudio, dice il grande filosofo del diritto tedesco, c’è solo da constatare l’amaro dato effettuale che il diritto positivo “incrocia lo sguardo del Potere”. È la registrazione puntuale della potenza prevalente in un certo momento storico. Dunque? Dunque, ha poco da giubilare il popolo. La questione gay così come è stata posta dal Principe dell’Occidente e in quella provincia del principato occidentale che è l’Italia, è una questione che non ha nulla a che vedere con l’amore, i diritti, la democrazia. Ma piuttosto ha a che vedere con il conculcamento di amore, diritto e democrazia. Infatti, «chi solleva il velo e non chiude gli occhi incrocerà lo sguardo fisso della testa di Gorgone del Potere».
(Gleichkeit vor dem Gesetz, Berlin-Leipzig 1927)
marzo 6, 2016
- Luigi Amicone
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