Dal 2012 ci sono stati 3 governi, 5 ministri degli Esteri e 3 della Difesa. Ma non è cambiato nulla
Quattro anni di speranze e promesse mal riposte. Quattro anni di
annunci e rassicurazioni finiti nel nulla. Quattro anni di impegni e
giuramenti andati in fumo. E loro, i nostri due marò, vivono ancora il
loro calvario. Massimiliano Latorre è in Italia per via di un ictus che
lo ha colpito un anno e mezzo fa ma avendo sulla testa, in attesa
dell’arbitrato pendente davanti al Tribunale arbitrale dell’Aja, una
spada di Damocle. Salvatore Girone vive ancora nell’ambasciata italiana
di New Delhi, in India, là dove tutto è iniziato. Da quel 15 febbraio
2012, infatti, giorno in cui due pescatori indiani sono stati ammazzati
al largo delle coste del Kerala e i due fucilieri accusati
dell’omicidio, dai tre governi, cinque ministri degli Esteri e tre della
Difesa (più un commissario straordinario, Staffan de Mistura) che si
sono succeduti sono giunte un’infinità di parole e ben pochi fatti.
Quasi nessuno.
L’INIZIO
Quando tutto comincia in carica c’è il governo di Mario Monti. Si parte con l’idea di risolvere il caso pagando 300mila euro alle famiglie dei due pescatori uccisi. Esito: la vicenda si complica ancora di più.
LA BEFFA
Nel febbraio 2013 l’Alta Corte del Kerala concede a Latorre e Girone il rientro in Italia per le elezioni politiche. Il governo italiano prima annuncia che non li rimanderà indietro, poi cambia idea, provocando le dimissioni del ministro degli Esterni Giulio Terzi. Quando arriva il nuovo premier, Enrico Letta, la strategia cambia e si va verso l’internazionalizzazione della vicenda. Tutto si fa molto riservato, soprattutto per volontà di de Mistura. Il silenzio sembra prodigo di risultati, ma non è così. I marò restano in India.
IL GOVERNO RENZI
Nel febbraio del 2014 al governo arriva Matteo Renzi, che subito twitta: «Faremo di tutto per farli tornare a casa il più rapidamente possibile. Sono una priorità». Stessa posizione da parte del ministro della Difesa Roberta Pinotti: «È la nostra prima preoccupazione, il nostro primo pensiero». Nel novembre dello stesso anno ministro degli Esteri diventa Paolo Gentiloni, che esordisce così: «I due marò sono in cima alla nostra agenda». Passano solo pochi giorni e lo stesso Gentiloni assicura: «Credo che il canale di comunicazione con l’India si sia rafforzato, c’è stato un significativo cambio di passo. Il dialogo è ai massimi livelli. Ora soluzione rapida». Nel dicembre 2014 l’inquilino della Farnesina conferma: «Passi avanti», subito smentito dalla Corte Suprema indiana che dice «no» alla libertà provvisoria per i fucilieri. Gentiloni reagisce: «L’Italia si riserva tutti i passi necessari» verso l’India, senza escludere il «pratico avvio dell’arbitrato», ma ammettendo: «Finora il raccolto è stato molto deludente». Due giorni prima di Natale interviene Renzi: «Il governo indiano ha espresso il desiderio di una soluzione condivisa e concertata sui marò». Gentiloni si accoda: «Ora ci aspettiamo risultati rapidi e tangibili». Ma tutto resta fermo al punto di partenza.
L’ARBITRATO
Il 2015 inizia con una nuova ondata di ottimismo da parte dei ministri degli Esteri e della Difesa: «Lavoriamo a una soluzione definitiva». Il 21 gennaio il titolare della Farnesina primo parla di «una via d’uscita» con l’India, ma non accade nulla. Passano due mesi e lo stesso ministro accenna a una «soluzione da trovare a breve», pena la rinuncia dell’Italia alle missioni antipirateria. Il 5 maggio il governo sceglie, senza più tentennamenti, la via dell’arbitrato internazionale. A luglio la Farnesina emana una nota: «L’Italia attiva le misure necessarie per il rientro di Girone», e il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, assicura: «L’Italia continua a battersi con determinazione». Ma ad agosto il Tribunale del Mare di Amburgo gela il nostro Paese decidendo di non accogliere la richiesta sul rientro di Girone in attesa dell’arbitrato. Pochi giorni dopo arriva l’altra doccia fredda, quando più di un esperto di diritto internazionale spiega che per la sentenza del Tribunale dell’Aja occorreranno almeno due anni. È il 24 agosto quando Gentiloni ribadisce: «Il governo italiano resta impegnato sull'obiettivo, nel corso della vicenda arbitrale, di garantire la libertà ai due fucilieri», mentre Pinotti ripete: «In attesa di quello che sarà il giudizio del Tribunale arbitrale, noi chiediamo che Girone possa tornare in patria». Niente da fare: Salvatore resta in India.
TUTTO RIMANDATO AL 2018
Trascorrono altri quattro mesi, siamo ormai a novembre del 2015, ed è ancora il ministro della Difesa ad assicurare che, essendosi insediato il Tribunale internazionale, «alla prima udienza faremo con forza la nostra richiesta che anche Girone possa tornare in Italia». E così avviene, formalmente, un mese dopo. Risultati? Nessuno! Il 19 dicembre lo stesso ministro torna sul caso: «Una vicenda davvero lunga che ci auguriamo internazionalmente possa chiudersi quanto prima». Speranza vana, visto che il 20 gennaio scorso, dal calendario fissato proprio dal Tribunale arbitrale, si evince che la fine del processo non ci sarà prima dell’agosto 2018, quando dall’inizio dell’agonia saranno trascorsi sei anni e mezzo. Un’eternità.
L’INIZIO
Quando tutto comincia in carica c’è il governo di Mario Monti. Si parte con l’idea di risolvere il caso pagando 300mila euro alle famiglie dei due pescatori uccisi. Esito: la vicenda si complica ancora di più.
LA BEFFA
Nel febbraio 2013 l’Alta Corte del Kerala concede a Latorre e Girone il rientro in Italia per le elezioni politiche. Il governo italiano prima annuncia che non li rimanderà indietro, poi cambia idea, provocando le dimissioni del ministro degli Esterni Giulio Terzi. Quando arriva il nuovo premier, Enrico Letta, la strategia cambia e si va verso l’internazionalizzazione della vicenda. Tutto si fa molto riservato, soprattutto per volontà di de Mistura. Il silenzio sembra prodigo di risultati, ma non è così. I marò restano in India.
IL GOVERNO RENZI
Nel febbraio del 2014 al governo arriva Matteo Renzi, che subito twitta: «Faremo di tutto per farli tornare a casa il più rapidamente possibile. Sono una priorità». Stessa posizione da parte del ministro della Difesa Roberta Pinotti: «È la nostra prima preoccupazione, il nostro primo pensiero». Nel novembre dello stesso anno ministro degli Esteri diventa Paolo Gentiloni, che esordisce così: «I due marò sono in cima alla nostra agenda». Passano solo pochi giorni e lo stesso Gentiloni assicura: «Credo che il canale di comunicazione con l’India si sia rafforzato, c’è stato un significativo cambio di passo. Il dialogo è ai massimi livelli. Ora soluzione rapida». Nel dicembre 2014 l’inquilino della Farnesina conferma: «Passi avanti», subito smentito dalla Corte Suprema indiana che dice «no» alla libertà provvisoria per i fucilieri. Gentiloni reagisce: «L’Italia si riserva tutti i passi necessari» verso l’India, senza escludere il «pratico avvio dell’arbitrato», ma ammettendo: «Finora il raccolto è stato molto deludente». Due giorni prima di Natale interviene Renzi: «Il governo indiano ha espresso il desiderio di una soluzione condivisa e concertata sui marò». Gentiloni si accoda: «Ora ci aspettiamo risultati rapidi e tangibili». Ma tutto resta fermo al punto di partenza.
L’ARBITRATO
Il 2015 inizia con una nuova ondata di ottimismo da parte dei ministri degli Esteri e della Difesa: «Lavoriamo a una soluzione definitiva». Il 21 gennaio il titolare della Farnesina primo parla di «una via d’uscita» con l’India, ma non accade nulla. Passano due mesi e lo stesso ministro accenna a una «soluzione da trovare a breve», pena la rinuncia dell’Italia alle missioni antipirateria. Il 5 maggio il governo sceglie, senza più tentennamenti, la via dell’arbitrato internazionale. A luglio la Farnesina emana una nota: «L’Italia attiva le misure necessarie per il rientro di Girone», e il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, assicura: «L’Italia continua a battersi con determinazione». Ma ad agosto il Tribunale del Mare di Amburgo gela il nostro Paese decidendo di non accogliere la richiesta sul rientro di Girone in attesa dell’arbitrato. Pochi giorni dopo arriva l’altra doccia fredda, quando più di un esperto di diritto internazionale spiega che per la sentenza del Tribunale dell’Aja occorreranno almeno due anni. È il 24 agosto quando Gentiloni ribadisce: «Il governo italiano resta impegnato sull'obiettivo, nel corso della vicenda arbitrale, di garantire la libertà ai due fucilieri», mentre Pinotti ripete: «In attesa di quello che sarà il giudizio del Tribunale arbitrale, noi chiediamo che Girone possa tornare in patria». Niente da fare: Salvatore resta in India.
TUTTO RIMANDATO AL 2018
Trascorrono altri quattro mesi, siamo ormai a novembre del 2015, ed è ancora il ministro della Difesa ad assicurare che, essendosi insediato il Tribunale internazionale, «alla prima udienza faremo con forza la nostra richiesta che anche Girone possa tornare in Italia». E così avviene, formalmente, un mese dopo. Risultati? Nessuno! Il 19 dicembre lo stesso ministro torna sul caso: «Una vicenda davvero lunga che ci auguriamo internazionalmente possa chiudersi quanto prima». Speranza vana, visto che il 20 gennaio scorso, dal calendario fissato proprio dal Tribunale arbitrale, si evince che la fine del processo non ci sarà prima dell’agosto 2018, quando dall’inizio dell’agonia saranno trascorsi sei anni e mezzo. Un’eternità.
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