Le spiegazioni a fenomeni di emulazione del modello Stato Islamico in altri Paesi sono da rintracciare nelle peculiarità delle società arabo-musulmane, tra ingiustizie, povertà, età della popolazione e cultura
Se ascoltassimo bene le parole dei salafiti di Tunisi, degli
islamisti di Bengasi, della Fratellanza Musulmana nel Sinai, dei
miliziani del Califfato siro-iracheno, dei nigeriani di Boko Haram o
anche degli adepti della Jemaah Islamiah in Indonesia, comprenderemmo
meglio come e perché, secondo loro, l’Islam non ha confini. Il che,
tradotto per l’Occidente, significa che quell’Islam, di cui poco
sappiamo, non riconosce e non accetta le frontiere statali.
È questo il punto-chiave, la base di partenza per analizzare le
recenti vicende che hanno modificato – e in certi casi sconvolto – il
panorama geopolitico di una parte di mondo, che sino a ieri si rifaceva
ancora alle logiche definite lungo il corso del secolo passato.
Pur nelle loro evidenti differenze, questi gruppi appena citati
condividono una medesima visione dell’orizzonte sociale e politico al
quale – secondo loro – ogni comunità musulmana dovrebbe tendere per
essere giusta davanti a Dio, e grazie alla quale si possono giustificare
i più barbari comportamenti, dal terrorismo alla guerra.
I tratti comuni del radicalismo islamico
Soprattutto negli ultimi quindici anni, molti degli Stati in cui
l’Islam è dominante – e dunque anzitutto Medio Oriente, Nord Africa e
Africa subsahariana – hanno conosciuto un’ondata di radicalismo
religioso che, pur differentemente declinato, porta dietro di sé alcuni
tratti comuni e punti di contatto.
Per chi ha sposato le visioni radicali dell’Islam sunnita, ad
esempio, vedere circoscritta la propria fede entro i confini stabiliti
senza troppa cognizione di causa da potenze dominatrici straniere e
subire un modello istituzionale imposto dall’Occidente non soltanto è
sbagliato, ma va contro i precetti imposti dalla religione.
Il che, se si considera l’importanza dell’Islam e il suo profondo
radicamento nelle società arabo-musulmane, ha portato spesso numerose
popolazioni a percepire una crescente insoddisfazione e rabbia tali che
spesso – unite a condizioni di povertà, sottosviluppo e sottomissione –
si sono poi tradotte in sollevazioni popolari o in vere e proprie
rivoluzioni.
Abbattere le frontiere del Novecento
Prima di biasimare chi vede nella lotta contro gli Stati moderni e le
loro istituzioni una giusta causa, dobbiamo ammettere che quelle linee
di confine disegnate tanto dagli Accordi Sykes-Picot quanto dai Paesi
vincitori delle guerre del Novecento, sono state tracciate contro la
volontà delle popolazioni locali e senza una chiara comprensione delle
prerogative etniche delle comunità che si andavano a dividere.
Per i Touareg libici o i berberi del Mali, ad esempio, i punti di
riferimento sono ancora oggi le oasi e non certo le capitali o le
frontiere disegnate sulle mappe tracciando una riga in verticale o in
orizzontale, senza sapere che nel deserto non c’è modo di segnare un
confine. Il frutto di quelle spartizioni, insomma, lo raccogliamo oggi. È
anche così – oltre ai meccanismi del disagio economico, che incide ben
più della mancanza di diritti – che nascono fenomeni eversivi, scontri
etnici e violenze, rivolti anzitutto all’interno delle comunità di
appartenenza. Un fatto non certo nuovo o estraneo al mondo islamico.
I giovani, target del Califfato
Il Califfato si presenta come il mezzo per cancellare i confini
imposti dal colonialismo europeo e creare un nuovo mondo panislamico,
inteso come la prosecuzione delle volontà di Maometto stesso.
L’imposizione di una forma estremizzata della legge islamica (Sharia) è
allora necessaria ai loro occhi così come la violenza si giustifica con
l’obbligato morale di abbattere gli Stati arabi moderni.
L’immaturità delle società islamiche e dei loro protagonisti politici
fa il resto. L’arretratezza tecnologica ed economica però spiegano solo
in parte l’incertezza politica di queste regioni, mentre concorre
moltissimo anche la giovane età della popolazione. Come noto, in molti
Paesi arabo-musulmani l’età media è intorno ai vent’anni e i tassi di
crescita sono tra i più alti al mondo, mentre la popolazione over 65
spesso non raggiunge il 15% del totale. La partecipazione dei giovani
alla politica è dunque altissima, ma altrettanta è l’inesperienza e la
radicalità.
Anche su queste basi si fonda il successo del modello estremista del
Califfato, che ha puntato tutto sull’istruzione dei giovani, dalla
cultura all’addestramento militare. Pur ripresentando un modello antico,
il Califfato viene così percepito come qualcosa di nuovo e diverso. Ed è
anche in questo modo che le spregevoli azioni dei miliziani dello Stato
Islamico riescono a far presa su parte delle nuove generazioni
musulmane. Una parte certo minoritaria, ma non per questo meno
pericolosa. Basti pensare a cosa sono riusciti a combinare trentamila
soldati in un Paese di oltre trenta milioni di abitanti come l’Iraq.
Da qui, discendono lo spirito di emulazione e il proliferare di
bandiere nere. Un prodotto, quello dello Stato Islamico, che non ha
bisogno di passaporto e che è facilmente esportabile in ogni luogo dove
siano presenti quelle condizioni economiche, sociali e statistiche sopra
descritte.
Il modello dello Stato Islamico
Queste società, alla ricerca di forme di stato e di governo adeguate
alla propria fisionomia, hanno di fronte un lungo percorso che l’Europa
stessa ha dovuto trovare non senza guerre e inutili spargimenti di
sangue.
Di fronte al vuoto istituzionale e all’incertezza sociali diffuse
soprattutto in Africa e Medio Oriente, lo Stato Islamico ha dunque
sufficiente terreno fertile per attecchire e per tentare di sostituirsi
alle istituzioni che lo hanno preceduto, anche grazie a una buona
amministrazione del territorio, funzionale ad allargare e a radicare il
consenso. Questo produce come per gemmazione un franchising del terrore
che, pur non avendo connessioni dirette tra i vari nuclei e focolai,
viene percepito come un unico soggetto e replicato con facilità in molte
parti del mondo islamico.
Come frenare questa eco di morte che si riverbera fino a lambire Roma
e Parigi? Sinora l’Occidente non ha trovato risposte adeguate al
fenomeno. Tuttavia, anziché limitarsi a giudicare, un buon inizio
potrebbe essere una maggiore capacità di ascoltare e conoscere.
di Luciano Tirinnanzi - 1 marzo 2015
fonte: http://www.lookoutnews.it
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