Si discute (magari si fa per dire) alla Camera dei deputati
su di una seconda (dopo quella del 2006) riforma delle norme sulla
legittima difesa. Non sembra che le cose si mettano proprio bene.
È bastata l’assenza di alcuni deputati in Commissione Giustizia per
vanificare la possibilità di un testo ragionevole e concludente, che
un’inconsueta ragionevolezza dei deputati grillini avrebbe potuto
consentire. È passato un emendamento del Partito Democratico che
definirei tipicamente democristiano: tale cioè da far sì che le parole
servano a non dire piuttosto che a fare chiarezza. La chiarezza, del
resto, è ciò che chiaramente manca in questa pur non necessariamente
spinosa questione. Manca nella legge e, soprattutto, nelle prassi
giurisprudenziali attuali e pure nelle idee di riformatori un po’
improvvisati, nei giornali e infine (ed è la mancanza più significativa)
tra la gente.
Intanto il dibattito nel Paese non è tanto e, purtroppo, solo
teorico. Così di persone aggredite che hanno reagito e che sono oggetto
di procedimenti penali, si succedono ad altre, purtroppo non
infrequentemente e si apprestano processi, magari solo disciplinari
persino per qualcuno che, avendo subìto una minaccia di aggressione,
pare abbia commesso un eccesso colposo di manifestazione di opinione
sulla legittima difesa. Parlo, ovviamente, del caso del giudice Mascolo,
di Treviso. Molte sciocchezze, inevitabilmente, sono state dette e
molti evitabili eccessi affiorano in tali discussioni. Meno però del
solito. Segno che la gente ha della questione un’idea e un’informazione
forse migliore di quella dei legislatori e, soprattutto, dei magistrati
che professionalmente se ne occupano.
Un argomento, solo formalmente, e quindi apparentemente fuori luogo
nel dibattito specifico sulla riforma dell’articolo 52 del codice
penale, mi pare che sia emerso, degno invece non solo di essere
apprezzato ma fondamentale per quella realtà delle cose di cui le leggi
sempre dovrebbero tener conto e assai spesso non lo fanno. Viene spesso
sottolineata la penosa vicenda di chi, aggredito, abbia reagito ferendo o
uccidendo l’aggressore e sia stato subito “indagato” per “eccesso
colposo di legittima difesa”, quando non di lesioni o di omicidi
volontari. E della conclusione di tali procedimenti spesso, magari, di
assoluzione, che giunge dopo una trafila di mesi e di anni, con vicende
alterne, patemi d’animo, spese. Guai, insomma, che si aggiungono a
quello di una patita rapina, di un furto in casa, e che fanno desiderare
alla vittima di non essersi avvalso del diritto di difendersi anche
quando, tardivamente, gli è riconosciuto.
Credo che questo tutto sommato sia, al di là di molte sciocchezze e
di molte altre argomentazioni giuste e ragionevoli, il punto centrale
nella realtà della questione. Il punto dolente in cui non potrà certo
porsi rimedio con una diversa formulazione, pur auspicabile,
dell’articolo 52 del codice penale. Quando la legge penale parla di
aggressore e di aggredito trascura infatti (né la legge penale vera e
propria potrebbe non trascurarlo) quell’aggressore che, purtroppo, è
sempre sulla strada del cittadino italiano: quello della
“malagiustizia”. Che, nella specie, si concreta nella distorta e
frenetica applicazione del principio della obbligatorietà dell’azione
penale. Casi di rapinatori respinti a pistolettate da un gioielliere o
di ladri notturni che ci lasciano la pelle in casa di un pensionato
indomito sono cosa ghiotta per un Sostituto procuratore. Il quale non
sarà mai disposto a chiuderli prima ancora che si aprano, per il solo
fatto che a sparare sia stato un cittadino che manifestamente intendeva
difendere la propria vita, quella dei suoi cari e per i suoi, magari,
scarsi beni.
La gente guarda la televisione e vede nei film western il cow-boy
che, più rapido ad “estrarre”, cioè ad impugnare la colt, fa secco il
cattivo che ha fatto il gesto di fare altrettanto e dice “legittima
difesa” allo sceriffo che assiste alla scena e che, convinto di ciò, si
limita a chiamare il beccamorto che vada a seppellire l’imprudente
tipaccio nel “cimitero degli stivali”.
Certo, non siamo nel vecchio west ed è augurabile che non ci si
finisca. Ma sentir dire che “il Pm fa il suo mestiere ad incriminare
quello che non ci ha rimesso la pelle: sarà poi un giudice terzo a dire
se c’è stata legittima difesa”, è cosa addirittura rivoltante. Perché
significa non solo mettere in dubbio pressoché automaticamente la
“legittimità”, ma anche e sicuramente a vanificare una vera e integrale
difesa. Perché l’aggredito sarà sfuggito a una pallottola o a una
coltellata dell’assalitore, avrà conservato l’incolumità dei suoi e il
possesso delle, magari, magre sostanze, ma viene così a subire un’altra
aggressione: quella di un processo che, come diceva Francesco
Carnelutti, “è pena”.
Una penosa Via Crucis di interrogatori, di avvocati, di parcelle, di
periti e di perizie, di giornali e di giornalisti, da cui nessuno in
nessun caso potrà difenderlo o risarcirlo. Ecco dunque che, nella
“Patria del Diritto” che è pure la patria di una giurisdizione
invadente, zoppicante e incontrollata, di una giustizia lenta e, magari,
approssimativa e arbitraria, la legittima difesa non ha diritto di
piena e operante cittadinanza. E pare che non vi sia Pontefice che
voglia predicare l’“accoglienza” di una giustizia giusta a misura del
cittadino e non del magistrato, di fronte alla quale pare che le nostre
frontiere siano invalicabili.
di Mauro Mellini - 01 aprile 2017
fonte: http://www.opinione.it
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